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Ancora una sentenza sull'equivalenza terapeutica: ne avevamo proprio bisogno?

La risposta è, nonostante tutto, sì.

Il 29 aprile 2014 è stata depositata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (n. 4514/14) che ha annullato una delibera della Regione Lazio (Dipartimento della Programmazione Economica e Sociale, delibera B01060 del 20 marzo 2013) riguardante l’uso di alcuni farmaci, biologici, normalmente utilizzati nell’ambito di terapie oncologiche. In particolare l’impiego del principio attivo Filgrastim, una sostanza appartenente al gruppo delle citochine, che aiuta il corpo a produrre un numero maggiore di cellule del sangue che combattono le infezioni; in altri termini aiuta a produrre un maggior numero di neutrofili, che sono una categoria di globuli bianchi, importanti per combattere le infezioni.

La somministrazione di farmaci che stimolano la produzione di globuli bianchi è fondamentale nell’ambito di alcune cure antitumorali, poiché queste cure danneggiano il midollo osseo e di conseguenza possono comportare l’abbassamento del numero dei globuli bianchi, anche a livelli tropo bassi per avere una barriere difensiva contro le infezioni comuni.

La specialità medicinale che contiene Filgrastim, come principio attivo, ha terminato il brevetto e pertanto sul mercato è possibile reperire il corrispondente generico che, trattandosi di generico di farmaco biologico, si definisce tecnicamente biosimilare.

Sul mercato vi sono inoltre altre due specialità medicinali contenenti altri due diversi principi attivi, chiamati Pegfilgastrim e Lenogastrim, appartenenti alla medesima categoria del Filgrastim; tutti insieme vengono denominati stimolanti delle colonie granulocitarie.

La Regione Lazio, nella delibera annullata, aveva stabilito che tra i farmaci che stimolano le colonie granulocitarie l’uso del farmaco biosimilare, a base di Filgrastim, è altamente raccomandato nel paziente naive (N.d.R.: un paziente che inizia per la prima volta quel trattamento terapeutico o che inizia per la prima volta la somministrazione di quel determinato farmaco) e che l’uso di Pegfilgastrim e Lenogastrim in tale tipologia di paziente, dovrebbe essere escluso se non supportato da evidenti necessità cliniche. Tale affermazione, o scelta di politica sanitaria locale, ovviamente, aveva come presupposto il fatto che la terapia biosimilare di Filgrastim è l’approccio più economico, comportando un considerevole risparmio. La scelta della Regione Lazio conteneva anche un razionale velatamente scientifico, in quanto era allegata una sintetica bibliografia scientifica, peraltro ad una profana lettura, non ben argomentata.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, come era abbastanza prevedibile dal punto di vista giuridico, nella citata sentenza, rileva che quanto previsto al comma 11 ter dell’articolo 15 del Decreto Legge n. 95/2012 (Legge di conversione n. 221/2012), ossia che “nell’adottare eventuali decisioni basate sull’equivalenza terapeutica tra medicinali contenenti differenti principi attivi, le regioni si attengono alle motivate e documentate valutazioni espresse dall’Agenzia Italiana del Farmaco”, diventa determinante per la risoluzione del ricorso avanzato dal titolare dell’AIC del medicinale avente Filgrastim come principio attivo originatore.

Interpellata sulla questione, durata la fase istruttoria, l’Agenzia Italiana del Farmaco deposita una relazione nella quale si afferma che “quanto stabilito nella determinazione della Regione Lazio si profilerebbe come decisione di equivalenza terapeutica fra medicinali contenenti differenti principi attivi e che tale decisione non risulta adottata né valutata dall’Agenzia scrivente e pertanto sembrerebbe in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 15, comma 11-ter”.

Fattispecie per molti versi analoga ad altre nelle quali il giudice amministrativo aveva già avuto modo di affermare, che è impedito all’autonomia regionale incidere sui livelli essenziali di assistenza che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, espungendo dal regime di rimborsabilità, o condizionandone l’ambito di applicazione, farmaci già classificati nella cosiddetta fascia a) (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V n. 4084/2011).

Tutto ciò a partire da un assetto legislativo, come si è avuto più volte occasione di affermare, delineato dall’articolo 117 della Costituzione e dalla Legge n. 405/2001.

La questione tuttavia pone una considerazione soprattutto a partire dalla semplicità giuridica con cui è stata affrontata e risolta la questione dal giudice amministrativo e che, probabilmente, avremmo voluto potesse dedicarsi maggiormente ad altre questioni più delicate ed importanti.

La Delibera regionale impugnata è del 20 marzo 2014 e la proposta sui cui essa si basa reca la data del 19 marzo 2014, quindi comunque successiva alla data del 6 marzo 2014 quando l’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato e reso disponibile sul proprio sito istituzionale le “Linee Guida sulla procedura di applicazione del comma 11 ter dell’articolo 15 del Decreto Legge 95/2012”. Una procedura che consente appunto, a chiunque abbia titolo, anche (direi soprattutto) una Regione, di avviare presso l’Agenzia Italiana del Farmaco la procedura per valutare, ed eventualmente, stabilire l’equivalenza terapeutica tra medicinali contenenti diversi principi attivi.

Certamente alla Regione è risultato più semplice esercitare un potere amministrativo poi dichiarato insussistente dal giudice, che avviare responsabilmente un procedimento amministrativo presso l’Agenzia regolatoria nazionale. Con la conseguenza di: (i) aver impegnato le risorse del giudice amministrativo, (ii) aver provocato la reazione del titolare dell’Autorizzazione all’Immissione in commercio del farmaco interessato, (iii) essere stata condannata a pagare mille euro, togliendole dalle casse dell’erario regionale, (iv) non ultimo in termini economici, aver impegnato inutilmente il tempo e le energie dei funzionari e dirigenti regionali che hanno elaborato il provvedimento, con eventuali spese per consulenze esterne.

Forse il federalismo sanitario e la maturità dell’intero sistema amministrativo regionale/locale (ad eventualmente attuarlo), passano anche attraverso queste vicende.

La risposta è, nonostante tutto, sì.

Il 29 aprile 2014 è stata depositata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (n. 4514/14) che ha annullato una delibera della Regione Lazio (Dipartimento della Programmazione Economica e Sociale, delibera B01060 del 20 marzo 2013) riguardante l’uso di alcuni farmaci, biologici, normalmente utilizzati nell’ambito di terapie oncologiche. In particolare l’impiego del principio attivo Filgrastim, una sostanza appartenente al gruppo delle citochine, che aiuta il corpo a produrre un numero maggiore di cellule del sangue che combattono le infezioni; in altri termini aiuta a produrre un maggior numero di neutrofili, che sono una categoria di globuli bianchi, importanti per combattere le infezioni.

La somministrazione di farmaci che stimolano la produzione di globuli bianchi è fondamentale nell’ambito di alcune cure antitumorali, poiché queste cure danneggiano il midollo osseo e di conseguenza possono comportare l’abbassamento del numero dei globuli bianchi, anche a livelli tropo bassi per avere una barriere difensiva contro le infezioni comuni.

La specialità medicinale che contiene Filgrastim, come principio attivo, ha terminato il brevetto e pertanto sul mercato è possibile reperire il corrispondente generico che, trattandosi di generico di farmaco biologico, si definisce tecnicamente biosimilare.

Sul mercato vi sono inoltre altre due specialità medicinali contenenti altri due diversi principi attivi, chiamati Pegfilgastrim e Lenogastrim, appartenenti alla medesima categoria del Filgrastim; tutti insieme vengono denominati stimolanti delle colonie granulocitarie.

La Regione Lazio, nella delibera annullata, aveva stabilito che tra i farmaci che stimolano le colonie granulocitarie l’uso del farmaco biosimilare, a base di Filgrastim, è altamente raccomandato nel paziente naive (N.d.R.: un paziente che inizia per la prima volta quel trattamento terapeutico o che inizia per la prima volta la somministrazione di quel determinato farmaco) e che l’uso di Pegfilgastrim e Lenogastrim in tale tipologia di paziente, dovrebbe essere escluso se non supportato da evidenti necessità cliniche. Tale affermazione, o scelta di politica sanitaria locale, ovviamente, aveva come presupposto il fatto che la terapia biosimilare di Filgrastim è l’approccio più economico, comportando un considerevole risparmio. La scelta della Regione Lazio conteneva anche un razionale velatamente scientifico, in quanto era allegata una sintetica bibliografia scientifica, peraltro ad una profana lettura, non ben argomentata.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, come era abbastanza prevedibile dal punto di vista giuridico, nella citata sentenza, rileva che quanto previsto al comma 11 ter dell’articolo 15 del Decreto Legge n. 95/2012 (Legge di conversione n. 221/2012), ossia che “nell’adottare eventuali decisioni basate sull’equivalenza terapeutica tra medicinali contenenti differenti principi attivi, le regioni si attengono alle motivate e documentate valutazioni espresse dall’Agenzia Italiana del Farmaco”, diventa determinante per la risoluzione del ricorso avanzato dal titolare dell’AIC del medicinale avente Filgrastim come principio attivo originatore.

Interpellata sulla questione, durata la fase istruttoria, l’Agenzia Italiana del Farmaco deposita una relazione nella quale si afferma che “quanto stabilito nella determinazione della Regione Lazio si profilerebbe come decisione di equivalenza terapeutica fra medicinali contenenti differenti principi attivi e che tale decisione non risulta adottata né valutata dall’Agenzia scrivente e pertanto sembrerebbe in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 15, comma 11-ter”.

Fattispecie per molti versi analoga ad altre nelle quali il giudice amministrativo aveva già avuto modo di affermare, che è impedito all’autonomia regionale incidere sui livelli essenziali di assistenza che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, espungendo dal regime di rimborsabilità, o condizionandone l’ambito di applicazione, farmaci già classificati nella cosiddetta fascia a) (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V n. 4084/2011).

Tutto ciò a partire da un assetto legislativo, come si è avuto più volte occasione di affermare, delineato dall’articolo 117 della Costituzione e dalla Legge n. 405/2001.

La questione tuttavia pone una considerazione soprattutto a partire dalla semplicità giuridica con cui è stata affrontata e risolta la questione dal giudice amministrativo e che, probabilmente, avremmo voluto potesse dedicarsi maggiormente ad altre questioni più delicate ed importanti.

La Delibera regionale impugnata è del 20 marzo 2014 e la proposta sui cui essa si basa reca la data del 19 marzo 2014, quindi comunque successiva alla data del 6 marzo 2014 quando l’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato e reso disponibile sul proprio sito istituzionale le “Linee Guida sulla procedura di applicazione del comma 11 ter dell’articolo 15 del Decreto Legge 95/2012”. Una procedura che consente appunto, a chiunque abbia titolo, anche (direi soprattutto) una Regione, di avviare presso l’Agenzia Italiana del Farmaco la procedura per valutare, ed eventualmente, stabilire l’equivalenza terapeutica tra medicinali contenenti diversi principi attivi.

Certamente alla Regione è risultato più semplice esercitare un potere amministrativo poi dichiarato insussistente dal giudice, che avviare responsabilmente un procedimento amministrativo presso l’Agenzia regolatoria nazionale. Con la conseguenza di: (i) aver impegnato le risorse del giudice amministrativo, (ii) aver provocato la reazione del titolare dell’Autorizzazione all’Immissione in commercio del farmaco interessato, (iii) essere stata condannata a pagare mille euro, togliendole dalle casse dell’erario regionale, (iv) non ultimo in termini economici, aver impegnato inutilmente il tempo e le energie dei funzionari e dirigenti regionali che hanno elaborato il provvedimento, con eventuali spese per consulenze esterne.

Forse il federalismo sanitario e la maturità dell’intero sistema amministrativo regionale/locale (ad eventualmente attuarlo), passano anche attraverso queste vicende.