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Antonino Di Matteo e il CSM

Antonino Di Matteo e le misteriose logiche dentro il CSM: io so ma non dico
Bianco e nero
Ph. Paolo Panzacchi / Bianco e nero

Il Dr. Antonino Di Matteo è ancora una volta agli onori delle cronache dopo l’intervista rilasciata ad Andrea Purgatori nella nota trasmissione televisiva “Atlantide”[1].

L'ex componente del pool della Procura palermitana che ha istruito il “processo trattativa”, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura, ha esternato forti preoccupazioni sullo stato della giustizia e sui condizionamenti “opachi” che attenterebbero alla giurisdizione e all'attività del Csm.

Fin qui niente di sorprendente, i fenomeni rivelati dal Dr. Di Matteo sono noti da anni: anche a tacere di cronache e analisi più risalenti, le indagini che hanno coinvolto il Dr. Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati (Anm) ed ex componente del Csm, e la pubblicazione del libro «Il sistema», hanno svelato un inquietante intreccio di potere in grado di condizionare le carriere dei magistrati, le nomine dei vertici degli uffici giudiziari secondo il criterio dell'appartenenza e non della meritocrazia, e finanche di interferire sulla tenuta dei Governi e – in generale – sugli equilibri politici del nostro Paese.

L’interesse delle esternazioni del Dr. Di Matteo sta piuttosto nella specificazione di ulteriori modalità della diffusa degenerazione narrata da Palamara.

Stando ai resoconti disponibili, il magistrato palermitano avrebbe un preciso sospetto: “Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l'attività del Consiglio superiore della magistratura e dell'intera magistratura”.

E sarebbe giunto a una conclusione altrettanto precisa: “con l'appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera” mentre l'avversario “diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare”.

Questa dinamica avverrebbe dunque secondo la logica dell'appartenenza “che è molto simile alle logiche mafiose”, al punto che “il metodo mafioso ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”.

Bene ma non benissimo, tanto per usare un tormentone piuttosto in voga.

Da un magistrato che fa vanto della propria abitudine a dire le cose come stanno e guardare in faccia i problemi non ci si aspetterebbe un linguaggio allusivo che alterna sapientemente ciò che sa e ciò che sospetta, ciò che gli consta e ciò che ricava logicamente.

Se Di Matteo sa, dica che lo ascoltiamo volentieri, altrimenti faccia il piacere di tacere e di non contribuire a insozzare in modo così confuso e indimostrato l’istituzione giudiziaria che già di suo è ai minimi storici della credibilità.

La seconda, ancora più grave, è che Di Matteo circoscrive il problema e lo presenta come una lotta di potere all'interno della magistratura, come se il resto della comunità ne fosse esente e non dovesse temere nulla dallo straripamento funzionale di pezzi da novanta (ma anche da quarantacinque e forse pure qualcosa in meno) dell'ordine giudiziario.

Eppure dovrebbe sapere che cordate giudiziarie si possono costituire anche per combattere nemici o salvare amici che stanno altrove, per dannare o tirare fuori dai guai questo o quel cittadino, questa o quella compagine politica, chiunque insomma faccia scomodo o comodo.

Di Matteo queste cose le sa, non fosse altro per essere stato uno dei maggiori artefici del processo sulla cosiddetta trattativa che ha tenuto sulla graticola per decenni politici, investigatori, ministri, interi Governi.

Quindi, pur potendoglisi accreditare senza sforzi la massima buona fede, ha fatto parte di una cordata che ha tenuto sotto scacco pezzi importanti dello Stato e condizionato la vita pubblica italiana sulla base di un'ipotesi presentata alla stessa stregua delle sacre scritture ma poi annientata da chiunque abbia voluto vedere le cose com'erano e non come piaceva che fossero.

Fa una certa impressione che un magistrato come Di Matteo accosti il metodo mafioso a pezzi importanti della magistratura e al suo organo di autogoverno.

Non perché fatti così gravi, se veri, si debbano tacere all’opinione pubblica e neanche perché questa non abbia la maturità democratica di sopportare una tale verità e pretendere che se ne traggano tutte le conseguenze.

Ma perché, se di verità si tratta, le si addicono parole chiare e non chiacchiere, conoscenze documentate di cui rendere conto e non timori.

Tredici anni fa, partecipando a una trasmissione su Sky Tg24 insieme a Luca Palamara, l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga affermò testualmente che L'associazione nazionale magistrati è una associazione sovversiva e di stampo mafioso”.

Allora Cossiga venne contestato e messo in croce, oggi Di Matteo viene ascoltato tacendo.

Male, anzi malissimo.

 

[1] L’intervista è disponibile a questo link.