Archivistica non ortodossa: le tre età degli archivi

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Archivistica non ortodossa: le tre età degli archivi

 

1. Archivio corrente

“Seppellirsi in un mare di carte”; “farsi travolgere da una valanga di carte”: queste espressioni, come altre, suggeriscono che condividiamo un’idea fluida del formarsi, e soprattutto dell’accumularsi, dei documenti. Anche nell’epoca degli archivi digitali, “carte” non è solo un termine convenzionale con cui si definiscono i documenti, come ben sa chi frequenta gli uffici e vede le pile (e i mucchi) di carta crescere come se scaturissero da una sorgente, e non è certo un caso se l’archivio in formazione, quindi nella prima fase della sua vita, viene definito “corrente”.

Da definizione accademica, l’archivio corrente è costituito da tutte le pratiche aperte e le pratiche chiuse nell’anno solare in corso. “Corrente”, che corre. Corrente elettrica, energia, luce. Corrente dell’acqua, del fiume, del ruscello.

Momento zen: visualizziamo il torrente che scorre, l’acqua che arriva e porta via. Serenamente, i documenti vengono guardati, magari anche elaborati, e poi abbandonati al loro destino, aspettando tranquillamente che la corrente li trasporti, come barchette di carta che magari, un giorno o l’altro arriveranno al mare per intraprendere chissà che viaggio. Messaggi in bottiglia che qualcuno, forse, troverà e leggerà avidamente, testimonianze di quello che sarà un lontano passato.

Beh, non è quello che succede: i poetici messaggi per i posteri, abbandonati al loro tranquillo fluire, non arriveranno da nessuna parte. Si ingolferanno in qualche ansa, troveranno ostacoli dove si ammucchieranno e diventeranno dighe, ostacoli, e la marea di carta si innalzerà inesorabilmente per esondare, proprio come succede ai nostri fiumi poco curati, quando piove un po’ di più e i detriti accumulati sotto i ponti formano dighe, con le conseguenze che tutti conosciamo. Ecco che il documento abbandonato, solitario, in mezzo ad altri che poco condividono con lui se non una vaga contemporaneità cronologica, scompare, e quando lo cerchiamo, perché proprio serve, non si trova più. E sì che lo si era lasciato in un posto facile, per ricordarsene! Idem se si parla di documenti digitali. Pensiamo a tanti artistici desktop, ornati di brillanti iconcine, con nomi tipo “Mario”, “Preventivo 1”, “Bozza”, “Corso studenti” e altre cose meravigliose che dovrebbero aiutare a individuare il contenuto. E purtroppo non sempre va meglio presso gli archivi istituzionali, che pure dovrebbero avere un sistema gestionale funzionante e dove invece si vedono le innovazioni più ardite, tipo le PEC stampate e protocollate a mano o le PEC si arenano al Protocollo, perché non si sa a che ufficio recapitarle.

E ora torniamo al nostro fiume, alla corrente (ancora zen). Pensiamo al fluire delle nostre carte, come all’acqua che deve irrigare i campi. Il fiume scorre. Dal fiume si dipanano i canali che si dirigono verso i terreni. I canali si separano in canalette, sempre più piccole, e ogni canaletta arriva proprio al campo che deve irrigare, portando nutrimento. Proviamo a vedere così il nostro archivio. La corrente principale (il fondo) si divide in canali (le serie) e canalette (le sottoserie) per portare ai fascicoli cui i documenti sono destinati. E se lo concepiamo così il nostro archivio sarà un prezioso strumento, linfa vitale e nutrimento per il nostro lavoro, e potremo solcare con una certa serenità il fiume.

 

2. Archivio di deposito

Cos’è il “deposito”? È il nostro magazzino, la cantina, lo sgabuzzino. E non solo perché spesso i locali destinati all’archivio ospitano anche mobili in disuso, vecchie targhe, trofei e un po’ tutto quello di cui non si sa come sbarazzarsi e che non si vuole tenere tra i piedi. E nemmeno perché ogni tanto capita anche di trovare faldoni solitari abbandonati fra i flaconi di detersivo e gli stracci per la polvere nell’armadio delle scope. Il deposito, che oggi come oggi è costituito quasi esclusivamente da documenti cartacei, è come la dispensa di casa, dove si tengono le scorte e quelle cose che si usano un po’ meno e che pure servono ancora. Vecchi pagamenti, dichiarazioni dei redditi, bilanci, i documenti dei concorsi, i fascicoli del personale non più in organico, e via dicendo: quei documenti che non si usano più e che possono servire, per un tempo più o meno limitato, in caso di controlli o contenziosi. Come si fa con la dispensa, ogni tanto si fa un controllo, e quello che non serve più si butta via. Se i documenti sono stati archiviati correttamente, allora è facile. Ci sono i mastri? Ci sono i consuntivi? E allora via, metri e metri di mandati, reversali, fatture, giustificativi di spesa e via discorrendo. Se invece i documenti sono mescolati, eh, allora bisogna spulciare faldone per faldone, con dispendio enorme di tempo. Poi ci sono le scatole a sorpresa, con classificazioni del genere “Armadio di Orietta”, “Scrivania ing. Bianchi”, dove i buoni Orietta e Bianchi sono andati in pensione lasciando intatto il loro ufficio per i posteri, e i posteri hanno sigillato tutto in una capsula del tempo, coi timbri, le foto dei nipoti, le caramelle alla menta, sperando che prima o poi un archivista sarebbe intervenuto a sbrogliare la matassa. La triste sorpresa è che gli archivisti, miserabili e venali, si fanno pagare, e le casse languono. Per cui spesso le capsule del tempo restano lì, a occhieggiare minacciose dietro a vetri impolverati, coi vecchi trofei, i computer obsoleti, le macchine da scrivere elettriche e stuoli di floppy disk e vhs, di cui non si sa il contenuto, non si sa se sono ancora leggibili, e non si hanno gli strumenti per saperlo. Abbandonate anche dagli archivisti, razza bastarda, che poi spifferano tutto alla Soprintendenza, attendono la mano pietosa di uno stagista o di un tirocinante che dia loro dignitosa sepoltura in un tritadocumenti. E se nemmeno questo arriva, prima o poi arriveranno gli archeologi, o gli alieni. Eppure, il deposito, se ben curato, è la fonte per comprovare il nostro lavoro degli ultimi anni, per far valere i nostri diritti, per programmare il futuro. Anno dopo anno, con una verifica costante dei documenti da scartare, tenendo in ordine quelli da conservare, accompagniamo il nostro archivio verso la sua ultima fase di vita.

 

3. L’archivio storico

Prima di accingermi a scrivere queste poche righe, Word mi ha chiesto se volessi provare a far scrivere il mio testo da Copilot. Ho fatto un tentativo, per curiosità, chiedendo di descrivere le fasi di vita dell’archivio. Il testo non era scritto male, l’italiano era corretto. L’ultima fase di vita dell’archivio risultava essere l’eliminazione. Proprio così. Per macero, triturazione o incenerimento. I documenti non più utili, secondo l’AI, sarebbero da buttare tout court. Senza autorizzazioni, almeno non che venissero menzionate nel piccolo componimento. L’idea che ci fosse la possibilità di conservare i documenti per sempre non era minimamente palesata. Ma noi sappiamo che nell’immaginario collettivo è proprio questa l’idea che si ha dell’archivio: scaffali ricchi di preziose, antiche pergamene, volumi miniati dai dorsi di cuoio o di legno, bolle papali ed editti reali con sigilli di ceralacca: l’archivio storico. Purtroppo, occorre dirlo, non esistono più gli archivi storici di una volta. Cioè, esistono ancora, ma la storia avanza e anche la storicità degli archivi, che ormai ospitano documenti di modernariato. Negli archivi storici contemporanei, accanto ai documenti scritti in corsivo inglese, troviamo grafie sciatte degli anni Settanta e Ottanta. Se va bene i dorsi dei faldoni, che possono essere anche di plexiglass o di plastica, sono stati compilati col normografo o con l’etichettatrice Dymo. Troviamo i registri prestampati compilati a mano, ma anche i blocchi di carta a rullo continuo, figli della stampante ad aghi, ed è ogni volta un’emozione scoprire che l’inchiostro non sempre scompare come si crede. I velinari sono proprio di carta velina, e recano la sfumatura grigia o bluastra della carta copiativa. Raccontare ai colleghi giovani che cosa sono ti fa sentire come un Neanderthal che ricorda come corteggiasse la sua donna a botte di clava in testa.

Ogni epoca ha la storicità che si crea. I nostri nipoti potrebbero trovarsi a dover spiegare come quelle scatoline schiacciate conterrebbero giga e giga di dati, se solo qualcuno riuscisse ad aprirle. Sta a noi essere bravi a conservarle, a mantenere la leggibilità dei documenti attuali. Condurre la corrente nel posto giusto, tenere il deposito ordinato e vitale, creare le condizioni perché lo storico si mantenga. Arriverà il giorno, forse, in cui sarà R. Daneel Olivaw a raccontare ai posteri il loro passato. Per adesso abbiamo giovani intelligenze artificiali sbruffone e ignorantelle: il compito di far andare avanti la storia spetta ancora a noi.