I termini giuridici per l’archivio di deposito: 30 anni, 40 anni o altro ancora?

Archivio di deposito
Archivio di deposito

I termini giuridici per l’archivio di deposito: 30 anni, 40 anni o altro ancora?

 

1. Cosa prescrive la normativa

Un passaggio cruciale sulla natura giuridica e gestionale dell’archivio di deposito riguarda il termine post quem dall’esaurimento degli affari. Attualmente, l’ordinamento italiano non è coerente e prescrive 40 anni per gli archivi degli enti pubblici (comuni, province, regioni, aziende sanitarie, etc.) cd. “archivi sorvegliati”, mentre 30 anni per gli archivi degli enti statali (ministeri, agenzie, forze dell’ordine, etc.) cd. “archivi vigilati”.

Infatti, per gli archivi sorvegliati, l’art. 41, comma 1, del D.Lgs. 42/2004, dispone che «Gli organi giudiziari e amministrativi dello Stato versano all’archivio centrale dello Stato e agli archivi di Stato i documenti relativi agli affari esauriti da oltre trent’anni, unitamente agli strumenti che ne garantiscono la consultazione. Le liste di leva e di estrazione sono versate dopo settant’anni dopo l’anno di nascita della classe cui si riferiscono. Gli archivi notarili versano gli atti notarili ricevuti dai notai che cessarono l’esercizio professionale anteriormente all’ultimo centennio»[1].

A parte l’irrazionale (e, probabilmente, involontaria) distinzione tra archivi statali e archivi non statali, che esamineremo nel prossimo paragrafo, il termine oggi è decisamente da ripensare. Mentre in ambiente tradizionale potrebbe avere quasi ancora un senso (peraltro non così tassativo), in ambiente digitale deve essere necessariamente ridotto drasticamente, pena la possibile perdita di documenti, anche perché la tecnologia – in piena aderenza alla legge di Moore – aumenta l’obsolescenza di formati e di supporti a una velocità impressionante.

2. L’irrazionalità dei termini nell’ordinamento italiano

Il concetto di ciclo di vita del documento, incardinato nelle tre età degli archivi (corrente, di deposito e storico), rappresenta un percorso ideale che vede la transizione (anzi, la traditio) delle aggregazioni documentali dalla fase corrente a quella di deposito mediante un trasferimento, fino all’approdo nell’archivio storico mediante un versamento non prima della eliminazione legale mediante scarto autorizzato dagli organi di vigilanza e di sorveglianza competenti per territorio[2].

L’archivio di deposito, spesso e a torto relegato a mero limbo burocratico (da qui il nome del progetto Titulus Caronte - https://www.procedamus.it/8-eventi/455-tituluscaronte2024.html), rappresenta in realtà una fase cruciale di passaggio e di valutazione tra le due età estreme dell’archivio corrente e dell’archivio storico. È qui che si effettuano le operazioni di selezione che determinano cosa sarà conservato a perenne memoria e cosa, invece, sarà eliminato in via definitiva.

Nell’ordinamento italiano, i termini di permanenza dei documenti in questa fase sono, come abbiamo visto, puntualmente fissati dalla normativa: 30 anni dall’esaurimento degli affari per gli archivi degli enti statali e 40 anni per tutti gli altri archivi. Questa distinzione, apparentemente chiara nel diritto positivo, nasconde in realtà una profonda irrazionalità e una lacuna concettuale che merita un’attenta analisi.

Anche perché l’archivio dei diversi soggetti produttori non muta nella propria essenza, ma cambia l’interesse verso di esso da parte del soggetto produttore e del pubblico di studiosi di riferimento o di cittadini potenzialmente interessato alla consultazione o all’esercizio di un diritto (di consultazione e, in certi casi, anche per finalità amministrative).

3. Uno snodo cruciale

Prima di addentrarci nella disamina critica dei termini, è fondamentale ribadire la centralità dell’archivio di deposito per la gestione documentale, così come definita dalla Linee guida AgiD sul documento informatico (https://www.agid.gov.it/sites/agid/files/2024-05/linee_guida_sul_documento_informatico.pdf) con riferimento alle tre età degli archivi.

Lungi dall’essere un semplice “magazzino di stoccaggio”, esso è il luogo in cui le aggregazioni documentali (fascicoli e serie), non più necessarie per la gestione corrente, ma ancora potenzialmente utili per fini amministrativi e legali, attendono una valutazione approfondita. È la fase in cui l’archivista, in collaborazione con i soggetti produttori, dovrebbe applicare i criteri di appraisal (valutazione e selezione), identificando le aggregazioni documentali dotate, anche in potenza e in prospettiva storiografica, di valore storico, giuridico, amministrativo o culturale e meritevoli di essere identificate per conservazione permanente, individuando allo stesso tempo quelle presumibilmente prive di tale valore da avviare allo scarto.

Un’efficiente gestione del deposito è, quindi, sinonimo di risparmio di risorse (spazio fisico, risorse per la conservazione digitale) e, soprattutto, di garanzia della memoria storica, in linea con i dettami della spending review richiamati dalla Corte dei conti (https://archivi.cultura.gov.it/fileadmin/risorse/Giurisprudenza/Corte_dei_conti_-_Gli_archivi_di_deposito_e_la_spending_review/Archivio_Nazionale_Archivi_deposito_Stato_241021_184310.pdf).

4. La distinzione temporale e l’obsolescenza dei termini

La normativa italiana, nel fissare in 30 anni per gli archivi statali e in 40 anni per gli enti pubblici il termine massimo per il versamento o per lo scarto nella fase di deposito, rivela una logica poco coerente con i principi moderni di gestione documentale.

Arbitrarietà temporale, economicità o mancanza di flessibilità? La prima e più evidente critica risiede nell’arbitrarietà dei numeri. Perché 30 anni per lo Stato e 40 per gli altri? Questa differenza di dieci anni, cioè del 25% del tempo complessivo, non trova una giustificazione sostanziale nella natura degli affari o nella rilevanza intrinseca dei documenti. Se fosse una questione meramente finanziaria – di certo, non economica – nulla giustificherebbe questo slittamento, perché comunque prima o poi il problema dovrebbe essere affrontato e il medio termine (30 anni) non produce un risparmio così evidente in capo agli archivi vigilati.

Fissare termini rigidi e così prolungati senza alcuna flessibilità affievolisce la capacità delle amministrazioni di gestire in modo efficiente ed economico il proprio patrimonio documentale, accumulando carte (fisiche o digitali) la cui rilevanza è già scemata ben prima del raggiungimento di tali soglie, le quali nel mondo digitale sono senza dubbio siderali.

Il problema più profondo risiede, tuttavia, nella distinzione tra “archivi statali” e di “altri enti pubblici”. L’ordinamento italiano è complesso e caratterizzato da un’ampia eterogeneità e autonomia variabili in capo a enti pubblici territoriali (regioni, province, comuni) e non territoriali (università, aziende sanitarie, enti di ricerca, etc.). Questi ultimi sono a tutti gli effetti “pubblici”, perseguono interessi pubblici e producono documentazione di interesse pubblico e storico. Assimilarli genericamente agli “altri enti” insieme a soggetti privati (seppur coinvolti in funzioni pubbliche o dichiarati di interesse storico) e attribuire loro un termine di deposito più lungo rispetto agli archivi statali appare privo di una logica giuridica sostanziale.

5. Conseguenze e proposte

Le conseguenze di questa irrazionalità sono molteplici: stoccaggio alluvionale negli archivi di deposito con documentazione priva di valore storico-archivistico, ritardo nel versamento agli archivi storici propri degli enti, nonché una gestione complessiva meno efficiente e antieconomica del patrimonio documentale pubblico.

Nel contesto dell’archivio in ambiente digitale, questo significa oneri di conservazione a lungo termine non giustificati e potenziali rischi di obsolescenza tecnologica per aggregazioni documentali che potrebbero essere già state eliminate o versate in archivi per la conservazione a lungo termine.

Per superare queste criticità, sarebbe auspicabile una riforma che preveda:

  • unificazione dei termini per gli archivi: eliminare la distinzione tra enti statali e “altri” enti pubblici, normalizzando il termine di deposito o, meglio ancora, introducendo una maggiore flessibilità in capo agli organi di sorveglianza e di vigilanza, in ragione delle diverse peculiarità, seppur con i rischi della conservazione italiana a geometria variabile;
  • scarto obbligatorio per i documenti individuati nel massimario: questo mezzo di corredo, già esistente e applicato da decenni, dovrebbe avere un’efficacia vincolante per i documenti ripetitivi e vincolati, ferma restando l’ultima parola alle Commissioni di sorveglianza e agli organi di vigilanza. L’assunto fondamentale è che i dirigenti che non scartano per pusillanimità sono passibili di condotta antieconomica e, quindi, illegittima ai sensi della legge 241/1990.
  • potenziamento della funzione archivistica nelle organizzazioni: è ormai ineludibile, soprattutto in ambiente digitale, investire nella figura dell’archivista e nelle competenze di appraisal all’interno di ogni soggetto produttore. Un archivista qualificato è in grado di valutare il valore dei documenti con maggiore tempestività e accuratezza, rendendo meno stringente la necessità di termini fissi e variabili applicati con arbitrarietà. In questi casi, la normalizzazione della valutazione rappresenta un valore aggiunto, anche per estirpare lo scarto da bricolage amministrativo, in cui ogni soggetto produttore agisce al di fuori del perimetro degli standard.
  • armonizzazione tra analogico e digitale: le regole devono essere applicabili e coerenti sia per il documento fisico che per quello digitale, tenendo conto delle peculiarità tecnologiche senza perdere di vista i principi archivistici; mentre il termine civilistico di 5 anni è accettabile per un archivio cartaceo, esso rappresenta un termine massimo per l’ambiente digitale, in cui la tecnologia ha una velocità esponenziale di cambiamento.

In buona sostanza la gestione dell’archivio di deposito, come ponte tra il passato amministrativo e la memoria storica, rappresenta una cartina di tornasole della maturità di un sistema amministrativo e un indicatore affidabile della sua capacità di tutelare il proprio patrimonio culturale. La distinzione temporale attualmente in vigore nell’ordinamento italiano appare un anacronismo che ostacola questa efficienza. È tempo di superare logiche obsolete e di adottare un approccio più razionale e basato sui principi archivistici moderni.

6. Una soluzione nordamericana: il Records Center

Per gli archivi intermedi esiste una soluzione nord-americana, che Herbert Angel evidenziò nel Records Center (centro di archiviazione). L’autore introdusse la figura di Giano, divinità romana bifronte ben nota agli archivisti, per simboleggiare la loro duplice funzione: essi guardano sia al passato (i documenti in trasferimento dagli uffici) sia al futuro (la loro destinazione finale, mediante versamento agli archivi storici o allo scarto).

Si tratta di una funzione archivistica dedicata al trasferimento, alla gestione e alla tutela delle aggregazioni documentali non più attive o semi-attive per l’ufficio, ma ancora troppo importanti per essere scartati o direttamente versate agli archivi storici. Angel li paragona a un “purgatorio” (in linea con Caronte), distinguendoli dai “depositi di archiviazione” più datati che erano semplici luoghi di stoccaggio. Il primo Records Center fu istituito negli Stati Uniti nel 1941, durante la Seconda Guerra Mondiale, per far fronte alla crescente esigenza di spazio, grazie agli archivisti Emmett J. Leahy e Robert H. Bahmer. Questi centri si diffusero rapidamente sia nell’esercito che nella marina e, in parallelo, anche nel nostro continente, in particolare nel Regno Unito.

Inoltre, sono fondamentali gli aspetti di archiveconomia e le pratiche professionali comuni ai Records Center, che hanno sviluppato standard per edifici, unità di condizionamento (scatole di cartone standardizzate) e scaffalature, migliorando le condizioni di conservazione (ventilazione, condizionamento, illuminazione, sicurezza antincendio e antifurto).

In buona sostanza, si tratta di strutture altamente specializzate per la gestione e la tenuta degli archivi semi-correnti, in grado di fornire servizi simili a quelli degli archivi storici (consultazione, conservazione, descrizione, etc.), con un notevole abbattimento di risorse umane, finanziarie e strumentali proprio in virtù della concentrazione dei servizi archivistici.

7. Esiste un’esperienza italiana simile ai Records Center?

Nonostante le differenze evidenti di contesto storico, giuridico e tecnologico, probabilmente è possibile affermare che l’esperienza dei Records Center nordamericani è assimilabile alla presenza dei depositi digitali degli archivi pubblici e privati in Italia. I due modelli condividono obiettivi e funzioni fondamentali che, infatti, li rendono nella sostanza concettualmente simili.

In Italia, il concetto di deposito digitale (o per dirla con una dicitura quasi tramontata, di “magazzino digitale”) ha preso forma giuridica e tecnica in modo solido soltanto recentemente, ma con obiettivi analoghi: garantire la conservazione a lungo termine per gli archivi prodotti dalle amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle normative archivistiche e della trasparenza amministrativa.

Con la legalizzazione e la spinta a ricorrere, anche per economie di scala, alla conservazione in outsourcing, ecco che in ambiente digitale (anche) in Italia abbiamo recuperato la funzione tipica dei Records Center. La logica, infatti, è simile: alleggerire gli uffici produttori dalla gestione diretta dei documenti digitali semi-correnti, affidandola a strutture specializzate, con procedure standard per soggetti produttori omogenei. Tuttavia, come prescrive correttamente il nostro ordinamento, mantenendo la struttura archivistica disposta dal soggetto produttore.

8. Un gruppo di lavoro

Abbiamo definito il problema, abbozzato qualche idea, ma non è sufficiente. Per questo, il progetto Procedamus ha avviato le procedure di istituzione di un gruppo di lavoro incaricato di proporre delle soluzioni al disallineamento dei termini, aperto a tutti gli enti, alle associazioni e ai professionisti della gestione documentale:

https://www.procedamus.it/8-eventi/492-adeposito2026.html

L’obiettivo principale è redigere un documento da sottoporre alla Direzione Generale Archivi del Ministero della cultura per  superare da un lato la distinzione tra archivi vigilati e archivi sorvegliati nei termini per l’archivio di deposito e, dall’altro, per allineare alla obsolescenza tecnologica i termini dell’archivio di deposito digitale.

Il gruppo di lavoro, attivo da gennaio 2026 terminerà le attività entro la prima metà dello stesso anno con una consultazione pubblica prima di licenziare il documento finale.

 

***

 

Nota: questo articolo rappresenta la rielaborazione e l’aggiornamento di alcuni capitoli del saggio dell’autore: La relazione della Corte dei conti e alcune considerazioni teoriche sul ruolo centrale dell’archivio di deposito: termini e funzioni, in L’archivio di deposito, a cura di G. Penzo Doria, Padova, Cleup, 2025, pp. 703-723:

https://www.procedamus.it/8-eventi/484-archivididepositolibro2025.html

 

[1] Il termine è passato dai 40 anni ai 30 anni in seguito alla modifica dell’art. 41 del D.Lgs. 20 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, in virtù dell’art. 12 del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo e il rilancio del turismo, art. 12, comma 4.

[2] D.Lgs. 20 gennaio 2004, n. 42, cit., art. 41, comma 5: «Gli scarti sono autorizzati dal Ministero [della cultura]». Lo scarto, inoltre, è obbligatorio e prodromico a qualsiasi versamento all’archivio storico, come stabilito ancora dal D.Lgs. 42/2004, art. 41, comma 3: «Nessun versamento può essere ricevuto se non sono state effettuate le operazioni di scarto».