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La giustizia di pace post-rivoluzionaria ed il nuovo regolamento sulla mediazione civile e commerciale

A partire dal 1790 si è posto in particolar modo in Francia ed in tutta Europa il problema del controllo del territorio, dal momento che era venuto meno l’antico regime.

Si pensò dunque di affiancare l’utilizzo delle armi con una nuova organizzazione giudiziaria: idea peraltro nemmeno tanto originale, visto che aveva già fatto grande l’impero romano.

L’accesso alla giustizia divenne così di fondamentale importanza, dal momento che se i cittadini non riuscivano a rivolgersi alla giustizia, il governo non era in grado di controllarli se non appunto con le armi.

Per essere accessibile la giustizia doveva anche godere della informalità e della tendenziale gratuità, dal momento che era indirizzata soprattutto a poveri analfabeti.

L’Assemblea costituente decise così di rispolverare un istituto che esisteva in Francia già del 1300: sulla falsa riga dei Difensori di città già nel 1313 gli Uditori del Cancelletto giudicavano a Parigi le cause lievi, senza apparati, senza istruzione scritta e senza spese.

Tale magistratura che ricalca peraltro quella del Baiulo[1] rimase in piedi sino al 1600[2].

In questa prospettiva nevralgico divenne che la giustizia di pace avesse un’organizzazione capillare.

Ciò ebbe naturalmente ricadute anche nelle zone di contatto: paradigmatico è l’esempio della Repubblica Ligure, sotto l’influenza napoleonica dal 1797 al 1814.

Nel 1798 si trovavano su un territorio decisamente più vasto di quello attuale oltre 200 giudici di pace dislocati in 156 cantoni per 20 giurisdizioni[3].

Essi servivano circa 600.000 abitanti: in sostanza c’era un giudice di pace per ogni 300 abitanti[4].

Più di un terzo delle norme sulla riorganizzazione giudiziaria riguardarono la giustizia di pace[5].

C’erano giudici di pace di prima classe nei luoghi anche più sperduti dove non risiedeva il tribunale (che però era itinerante) che avevano una competenza civile, salvo appello, praticamente illimitata e pure una giurisdizione penale, proprio per evitare che la popolazione dovesse affrontare spese e viaggi e quindi rinunciasse alla giustizia.

Si istituirono anche giudici di pace di seconda classe che invece avevano un competenza eminentemente civile più ridotta e i loro giudizi erano in parte inappellabili: la presenza in loco del tribunale rassicurava evidentemente il potere.

A Genova centro che aveva una popolazione di circa 90.000 anime si contavano ad esempio solo sei giudici di pace e di seconda classe[6], uno per ogni quartiere e “due per il circondario, fra le vecchie, e nuove mura, cioè tra la parrocchia di S. Teodoro e quella di San Vincenzo”[7].

Il giudice di pace non aveva inoltre soltanto funzione giudiziaria, ma anche politica visto che presiedeva l’assemblea dei cantoni[8] che peraltro lo eleggeva unitamente agli assessori[9] su convocazione del “commissario di governo per ordine del direttorio esecutivo”[10]

A partire dal 1805 il controllo francese si rese ancor più penetrante.

Il 4 giugno 1805 il Senato della repubblica genovese nella persona del Doge[11] si recò a Milano e richiese a Napoleone che la Liguria fosse annessa alla Francia.

L’Imperatore non se lo fece ripetere due volte e nel decreto di annessione del 6 giugno 1805[12] stabilì che in ogni cantone ci fosse un giudice di pace[13].

La “sua” giustizia di pace sostituì la vecchia giustizia di pace[14] di cui Genova era già ben dotata.

Di certo l’Imperatore non poteva avere una particolare ansia di pacificazione sociale, dal momento che il governo della Repubblica, era sicuramente filo-francese da almeno un lustro.

Dal decreto sulla riorganizzazione giudiziaria si può evincere che Napoleone nominò i giudici insieme ai “procuratori generali imperiali, i procuratori imperiali, i loro sostituti, i cancellieri, i procuratori, gli uscieri, fuori quelli delle giustizie di pace”[15].

Quindi Napoleone nominò pure i procuratori legali[16]. Essi erano in numero fisso presso le giurisdizioni superiori e venivano regolati dal “governo a sentimento del tribunale”[17]; non potevano che postulare presso il tribunale cui erano “attaccati” e le parti potevano difendersi da sole o rivolgersi a loro.

I pubblici ministeri erano naturalmente agenti del governo[18] e le corti di giustizia criminale erano formate da una maggioranza di militari (cinque) col grado di capitano. Il giudice di pace presiedeva anche il tribunale di polizia ove la sanzione era espressa nel massimo in “tre giorni di travaglio”[19].

Napoleone evidentemente aveva capito che la giustizia poteva davvero essere un ottimo sistema di controllo del territorio.

E che il territorio fosse controllato lo aveva compreso, per la verità, anche Alfieri che profeticamente qualche anno prima aveva scritto nell’avviso al lettore del Misogallo: <<Dico, ridico e ognor torno a dire… E che i Galli, esser liberi son fole>>[20].

Ma a Genova non c’erano tante campagne da controllare, il ceto forte era quello dei commercianti, dei mercanti e degli armatori: anche il taglio della conciliazione dunque doveva tenerne conto e così si valorizzarono i procuratori ed un rito conciliatorio riservato sostanzialmente ai giuristi.

Si tenga conto che sino al 1805 gli avvocati non potevano partecipare alle conciliazioni[21]: Napoleone comprese che se voleva controllare i “borghesi” doveva avere in mano e nobilitare allo stesso tempo il ceto forense.

E colpo da maestro, cambiò anche la composizione del tribunale commerciale sino a quel momento composto da semplici cittadini di almeno trent’anni[22]. L’Imperatore decise che da quel momento in poi per essere giudice commerciale bisognava aver praticato il commercio per almeno cinque anni[23] e non in un posto qualunque, ma nella città dove aveva sede il tribunale ed essere eletti da un’assemblea di negozianti, banchieri, mercadanti, manifattori ed armatori.

C’era comunque sempre la Corte d’Appello di Genova a controllare i loro giudizi[24].

Per ulteriore cautela Napoleone prescrisse che il personale giudiziario (cancellieri, procuratori e uscieri) dovesse rilasciare allo stato anche una salatissima cauzione[25] e che se i cancellieri volevano un apprendista dovevano pagarselo, con il risultato che tutti possiamo immaginare.

Ma l’Imperatore aveva anche un altro problema, quello di vigilare sulla nobiltà: con essa preferì la via del compromesso e si comportò come disse poi l’eroe Tancredi del Gattopardo “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

L’Imperatore abolì dunque il 9 giugno 1805 la costituzione della repubblica del 1802 e dissolse il governo della città[26]; e poi nominò prefetto di Genova l’ex doge e membri del consiglio del dipartimento di Genova[27] nobili liguri, un ex ministro francese[28] che poteva evidentemente esercitare una vigilanza dall’interno del consiglio ed ex senatori della Repubblica di Genova[29].

Stabilì infine solennemente nel decreto di riforma della giustizia <<che le funzioni amministrative sono e saranno sempre separate dalle funzioni amministrative. I giudici non potranno, sotto pena di prevaricazione intorbidare in qualunque siasi modo le operazioni degli amministratori, né citarli nanti di loro per causa delle loro funzioni>>[30].

Nel diritto giustinianeo il prevaricatore era colui che nell’accusare prestava soccorso alla parte avversaria e che meritava la pena prevista dalla legge del taglione; chi venisse accusato di prevaricazione non poteva più accusare in un pubblico giudizio[31].

Nella Costituzione corsa del 1794 era previsto che gli agenti del governo potessero essere accusati di questo delitto dal Parlamento.

Napoleone era evidentemente imbevuto da questa cultura tanto che volle considerare la prevaricazione come delitto principe per punire i pubblici funzionari e di solito la pena per questo delitto era la degradazione civica[32].

Nel 1808 il sistema ligure approdò in Toscana e poi, tramite il codice di procedura civile francese nel contempo approvato (1807) più a Sud.

<<Ma nelle province napoletane e siciliane, dove si era avvezzi da lungo tempo ad avere per le picoole cause i Bajuli od altri giudici veramente locali, non soddisfaceva la la giurisdizione dei giudici di pace… Inoltre l’esperienza non tardò a dimostrare che la severità delle altre funzioni, di cui erano investiti i Giudici di pace, mal si combinava col ministero paterno e pacifico del conciliatore>>[33].

Le cose non migliorarono poi tanto nel Regno d’Italia nonostante fosse stato modellato processualmente sulla legislazione del Regno delle Due Sicilie[34].

Il conciliatore italiano del 1865 veniva nominato dal Re in base ad una terna proposta dal Consiglio comunale.

Nel 1875 il Re verrà soltanto sostituito dai presidenti di Corte d’Appello che nominavano però sempre su delega reale, scegliendo appunto dalla predetta terna.

Nel 1892 poi si abolì la terna, ma il Consiglio comunale espresse comunque dieci nomi all’interno di alcune categorie[35] che nominava il primo presidente della Corte sempre su delega del Re.

Alla luce di quanto abbiamo espresso non pare per niente sorprendente che la legge di riforma della competenza dei conciliatori del 1892 contenesse a sua volta norme minuziose in merito alla nomina di un giudice il cui incarico era gratuito e ancor più che le discussioni parlamentari si incentrassero soprattutto sulle categorie dei nominabili.

Si disse all’epoca che veniva in sostanza mantenuto il collegamento tra il conciliatore ed il popolo che si rinveniva anche in Norvegia, in Danimarca ed in America nello stesso periodo.

E che uno stesso collegamento avevano avuto comunque in precedenza i Difensori di città, gli Scabini ed i Baiuli[36].

In realtà noi che non siamo sudditi sabaudi potremmo parlare di un controllo della Monarchia.

Niente di nuovo sotto il sole, nel senso che a partire da Giustiniano si è sempre cercato, magari in modo meno smaccato, di regolare e controllare minutamente la giustizia informale nei borghi e nelle campagne.

In tempi più recenti bisogna ricordare ancora qui che l’ordinamento corporativo prese le mosse nel 1926 da un tentativo di conciliazione da tenersi obbligatoriamente in presenza di quegli organi di collegamento che di lì a poco sarebbero diventati corporazioni[37].

All’art. 2 della legge del 26 si prevedeva inoltre una revisione degli ordini, collegi ed associazioni professionisti, “per coordinarli con le disposizioni della presente legge”; e all’art. 11 del regolamento si specificava l’ambito della revisione.

Per gli iscritti ad un albo si stabiliva che potesse sorgere accanto all’ordine una associazione sindacale legalmente riconosciuta soggetta alle norme dell’ordinamento corporativo.

A tale associazione sindacale, e non agli ordini o collegi, spettava la facoltà di adempiere ai compiti di tutela degli interessi morali e materiali dei loro rappresentanti, di assistenza, di istruzione e di educazione previsti dalla legge.

Le indicazioni in merito giungevano naturalmente dal salotto Bottai.

Anche oggi abbiamo degli ordini che possono dare vita ad organismi che si occupino di mediazione.

Tali organismi, ad eccezione di quello degli avvocati, devono essere però autorizzati dal Ministero, così come venivano autorizzate le associazioni sindacali legalmente riconosciute.

I parametri formativi fondamentali vengono dati dal Ministero tramite regolamento: in oggi dal decreto Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180.

Il Ministero vigila su tutti gli organismi che devono essere iscritti in un registro.

Ben otto su i diciassette punti che compongono la norma delegante[38] del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 e quindi della sopradetta disciplina si occupano di disciplinare gli organismi ed il registro degli organismi di conciliazione.

La preoccupazione principale del legislatore del 2009 sembrava essere ancora e sempre quella di acquisire e mantenere il controllo della nuova giustizia di pace: se ce ne fosse bisogno basterebbe solo ricordare che la lett. c) della norma prevede appunto che il registro unitamente agli organismi siano oggetto di vigilanza da parte del Ministero della Giustizia.

Anche se, per la verità, la lett. b) richiede che gli organismi siano “professionali e indipendenti”, potrebbe venire il dubbio che il legislatore si riferisca soltanto al lato economico e questa conclusione sarebbe desolante.

E nemmeno la legislazione comunitaria più recente ripercorre altri schemi nel momento in cui si preoccupa di rendere accessibile la mediazione, pur privilegiando comunque la via giudiziaria.

Né possiamo prendere migliori lezioni dalla liberale America che ha da questo punto di vista messo su il sistema di controllo perfetto, evocando una multidoor courthouse dove i sistemi alternativi alla giustizia sono dispensati tramite i servigi della Corte, e quindi l’annoso problema è diventato giustamente quello di coordinare il contenuto delle conciliazioni con quel processo che si cercava almeno a parole di evitare.

I regolamenti ministeriali che hanno retto le sorti degli organismi di mediazione sino al 5 novembre 2010 - i decreti ministeriali 23 luglio 2004 n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223, in quanto compatibili - e che hanno già attuato la conciliazione societaria[39] non sono esenti da identiche considerazioni.

In particolare nel decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 si sono privilegiati aspetti che non sembrano essere funzionali all’esercizio della mediazione, ma sempre e tristemente al suo controllo.

L’art. 6 prevede ad esempio che “nessuno può dichiararsi disponibile a svolgere funzioni di conciliazione per più di tre organismi”.

E addirittura si stabilisce che le violazioni degli obblighi inerenti le dichiarazioni, commesse da pubblici dipendenti o da professionisti iscritti ad albi professionali costituiscono illecito disciplinare ai sensi delle rispettive normative deontologiche; il responsabile della tenuta del registro è tenuto ad informarne gli organi competenti.

Insomma le dichiarazioni di disponibilità allo svolgimento del servizio che risultano al registro devono corrispondere all’effettivo servizio, pena l’illecito disciplinare.

A parte l’imbarazzo di configurare un illecito deontologico attraverso un regolamento di un organo terzo, la sostanza è che il Ministero deve poter vigilare anche persone e luoghi di svolgimento delle conciliazioni; sembra di tornare ai procuratori di epoca napoleonica (ma nemmeno tanto di quell’epoca) che erano stati “attaccati” ad un dato tribunale[40].

Il principio testé indicato viene purtroppo ribadito anche dal decreto Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180.

L’art. 8 del decreto ministeriale 23 luglio 2004, n. 222 prevedeva, in barba ad ogni principio di riservatezza, che “Dell’esito positivo della conciliazione conclusa per il tramite dell’organismo di conciliazione deve essere redatto apposito verbale da trasmettere senza ritardo al responsabile del registro il quale, su istanza di parte, lo trasmette al presidente del tribunale ai fini dell’omologazione”.

Al responsabile è stato addirittura attribuito un potere di sospensione e, nei casi più gravi, di cancellazione in caso di violazione dell’obbligo di invio del verbale al Ministero.

Nemmeno napoleone sognava tanto ed, infatti, si limitò a disporre che solo in caso di fallimento si “farà sommariamente menzione che le parti non hanno potuto accordarsi”[41].

Ma ciò era legato al fatto che, essendo la mediazione obbligatoria, doveva darsi atto del fallimento se si voleva procedere oltre col giudizio.

In oggi il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 prevede che non si invii il verbale al Ministero, ma si interpelli direttamente il tribunale per l’omologazione: il decreto Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180 all’art. 13 fa tuttavia rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta prevedendo che “ Il giudice che nega l’omologazione, provvedendo ai sensi dell’articolo 12 del decreto legislativo, trasmette al responsabile e all’organismo copia del provvedimento di diniego”.

Già l’art. 13 del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 stabiliva nello stesso senso che l’autorità giudiziaria fosse obbligata a segnalare al responsabile del registro “tutti i fatti e le notizie rilevanti ai fini dell’esercizio dei poteri previsti” dal regolamento e pure i “dinieghi di omologazione”.

Ancora l’art. 15 c. 4 del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 stabilisce che coloro che non corrisponderanno immediatamente a ogni richiesta del responsabile dell’organismo in relazione alle previsioni del regolamento ministeriale, perdano i requisiti di onorabilità e quindi vengano equiparati ai fini dell’iscrizione in registro, ai condannati a pena detentiva per delitti non colposi o a pena detentiva, anche per contravvenzione, ai “patteggiati” per una condanna superiore a sei mesi, agli interdetti temporanei o perpetui dai pubblici uffici, ai sanzionati disciplinarmente con pena superiore all’avvertimento, ai sottoposti a misure di prevenzione e di sicurezza[42].

Insomma il predetto articolo del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 sancisce in buona sostanza un meccanismo analogo alla “degradazione civica” susseguente alla contestazione del delitto di prevaricazione di napoleonica memoria.

Né si può dire che tanta ansia di vigilare nasca da una premura del Ministero in merito alla qualità della mediazione, dato che per diventare conciliatore in un primo momento si sono previste, in alternativa a particolari requisiti professionali, almeno trentadue ore di corso[43], in seguito quaranta ore[44] ed oggi si è passati ad almeno cinquanta ore; la qual cosa se non fosse seria muoverebbe al riso, specie se confrontata alle esperienze di altri paesi ove i conciliatori hanno dovuto seguire corsi triennali.

In un primo tempo si era invece stati più selettivi per i formatori tanto che il Consiglio di Stato nel primo dei due pareri resi sullo schema del nuovo regolamento ha scritto che “d) I requisiti professionali dei formatori appaiono talmente specializzati da creare una sorta di riserva per un numero molto ristretto di soggetti”[45].

In oggi invece i requisiti su cui ritorneremo, appaiono decisamente abbordabili.

Il modello organizzatorio che in conclusione la storia ci ha proposto prevede pressoché ovunque un tentativo quasi sempre riuscito di giurisdizionalizzazione della giustizia di pace.

In questa prospettiva tuttavia non sembra che nel 2010 la mediazione possa trovare un grande spazio.

E ciò si sostiene guardando al momento genetico dell’organizzazione giudiziaria.

L’intervento dello stato si dovette misurare un tempo con un sistema di circolazione di beni e persone che impediva di fatto l’accesso alla giurisdizione.

In virtù delle “spese e delle noie di viaggio” si arrivò a stabilire che ad esempio nella Francia post-rivoluzionaria che il tentativo di conciliazione non andasse esperito nei conflitti multi parte: principio questo esattamente contrario a quello attuale recato dall’art. 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28.

Il rimedio, come l’esperienza della Repubblica Ligure ci insegna[46], è stato rinvenuto nell’aumentare i poteri del giudice di pace ove l’accesso alla giustizia ordinaria fosse difficoltoso e nel diminuirli ove invece fosse agevole.

In un mondo globalizzato dove più nessuna distanza può essere penalizzante e in cui le spese di giustizia per quanto rilevanti, risultano meno pressanti che in passato, non c’è spazio per un altro organismo giurisdizionalizzato.

Semmai andrà valorizzata la giurisdizione minore che già c’è ed il cui potere e le cui risorse sono ridotte al lumicino, proprio in virtù del fatto che la facilità di accesso rende più agevole oltre che ragionevole adire ad organi maggiormente specializzati[47]: non a caso nella Repubblica Ligure i giudici di pace di seconda classe non si occupavano della volontaria giurisdizione che era affidata ai tribunali[48].

Ma anche l’ipotesi di rafforzare la giurisdizione minore sembra di difficile realizzo perché, lo si ribadisce, l’esperienza insegna che più agevole è l’accesso alla giurisdizione ordinaria, meno sono le risorse ed i poteri che vengono messe in campo.

Non a caso la legislazione in materia di conciliazione e mediazione prevede che il mediatore non abbia poteri di decisione e che lo stato non intervenga finanziariamente se non in misura assai ridotta: a prescindere da un certo filone di pensiero sulla funzione di conciliazione che imporrebbe un “mediatore nudo”, non c’erano altri poteri e risorse da distribuire, né tale distribuzione rientrava nella logica.

Ormai neppure la giustizia “specializzata” riceve risorse e più si paralizza meno finanziamenti vengono stanziati: malevolmente si potrebbe pensare che ciò che non risponde più agli scopi va abbandonato ed in effetti oggi vi sono sistemi molto più efficaci di quello giudiziario per controllare il territorio.

Se si vuole salvare, prima che valorizzare, la mediazione bisogna meditare più seriamente sul fatto che essa non è una funzione giudiziaria, che è alienissima da finalità giudiziarie di controllo e che inoltre non sussistono più le ragioni per cui la composizione ed i compositori di pace debbano essere vigilati dal Ministero di Giustizia, essendo oggi bastevoli i sistemi satellitari; a meno che non si voglia controllare il cuore dell’uomo, visto che l’attuale mediazione non si gioca sui diritti, ma sugli interessi; ciò però ci riporterebbe indietro di qualche secolo.

È quindi necessario che lo Stato faccia davvero un passo indietro nel momento in cui ha correttamente delineato per gli organismi un impianto autoregolamentativo[49].

Cosa che non pare accaduta, in verità, con il nuovo regolamento di attuazione del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, anche se esso si discosta in più punti dai regolamenti precedenti[50] e in alcuni di questi punti è da considerarsi innovativo rispetto allo stesso dettato della norma delegata.

Se non è innovativa l’istituzione, accanto al registro degli organismi, dell’elenco pubblico degli enti di formazione[51] tenuto presso il Ministero della Giustizia[52], pare invece nuova ed opportuna la figura del responsabile scientifico, un esperto di ADR che attesta “la completezza e l’adeguatezza” del percorso formativo e di aggiornamento dei formatori [53].

Nuova è anche l’introduzione della scheda di valutazione[54] da consegnarsi alle parti alla conclusione della procedura e da inviarsi compilata con i dati anagrafici al Ministero, adempimento che non era previsto né dal decreto legislativo, né tantomeno dalla legge delega. Adempimento che, in spregio alla riservatezza della procedura, è fonte anche di altre perplessità di ordine giuridico e tecnico.

Innovativa è ancora la prescrizione che vieta di svolgere mediazione esclusivamente telematica[55] alla presenza di un combinato disposto dell’art. 3 c. 4[56] e dell’art. 16 c. 3[57] del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 che invece sembra autorizzare sia la mediazione non telematica, sia quella mista e pure quella esclusivamente telematica[58].

Altra norma che non trova cittadinanza nel decreto legislativo e stabilisce che a seguito della formulazione della proposta le spese di mediazione debbano essere aumentate sino a un quinto[59]: tale prescrizione, perlomeno per una questione di trasparenza, dovrebbe trovare riscontro anche in sede di decreto legislativo ove si prevede soltanto che in caso di proposta il mediatore avverta le parti delle conseguenze di cui all’art. 13[60].

Vi sono poi statuizioni che necessitano di un migliore coordinamento: ad esempio l’art. 7 c. 7 decreto ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180 stabilente che “Non sono consentite comunicazioni riservate delle parti al solo mediatore, eccetto quelle effettuate in occasione delle sessioni separate”.

Apprezzabilissima tutela dell’imparzialità ed indipendenza del mediatore, se non fosse che ad esempio l’art. 11 c. 2 del decreto legislativo 4 marzo 2010 prevede che il mediatore comunichi la sua proposta per iscritto e che quindi le parti per replicare in un senso o nell’altro debbano in qualche modo comunicare riservatamente per iscritto con lui, o ancora che lo stesso art. 7 c. 2 del nuovo regolamento indica come di possibile inclusione la clausola per cui sia soltanto il mediatore a convocare personalmente le parti.

Desta ancora preoccupazione la formulazione, peraltro non innovativa rispetto al pregresso regolamento, della norma che dispone la sospensione e la cancellazione dal registro degli organismi: si afferma che le violazioni comportanti la sospensione possono determinare, nei casi più gravi, la cancellazione[61].

Non vi è dunque un’elencazione tassativa[62] dei casi di cancellazione: non pare a chi scrive che la valutazione dei “casi più gravi” possa essere rimessa legittimamente alla discrezionalità del Ministero; specie alla luce del fatto che la cancellazione ha conseguenze pesanti dato che “impedisce all’organismo di ottenere una nuova iscrizione, prima che sia decorso un anno”[63].

Infine un’indicazione che colpisce e che parimenti già si trovava nel precedente regolamento[64] è quella a tenore dalla quale il Ministero può controllare gli organismi, ai fini della sospensione e cancellazione, attraverso l’invio ai destinatari di “circolari o altri documenti amministrativi equipollenti”[65]; il che presuppone evidentemente che si ritengano organi appartenenti all’amministrazione della giustizia visto che le circolari si inviano ordinariamente agli organi interni di una determinata amministrazione e sono per essi vincolanti[66]: tale indicazione non pare trasparire dalla definizione di organismo del decreto legislativo[67], né da quella di definizione di regolamento.

Si ribadisce al contrario che la legge delega[68] alla lettera b) stabilisce che la mediazione sia svolta da “organismi professionali ed indipendenti”; tale indicazione sembra preziosa, a meno che, come si è detto, non sia letta soltanto con riguardo ai profili economici, la qualcosa sarebbe, lo si ribadisce, desolante.

Il testo dello schema del nuovo regolamento non ha avuto un percorso semplice dal momento che il Ministero è stato letteralmente assediato da diverse componenti sociali, ma ciò è accaduto anche nel 1865 con l’istituzione del conciliatore e nel 1892 per la modifica della sua competenza: storia vecchia da sempre legata ad interessi che poco hanno a che fare con l’istituto.

A ciò si sono aggiunti ben due pareri del Consiglio di Stato che si è dimostrato abbastanza critico e che in ultimo ha approvato il dettato con osservazioni.

Il 26 agosto 2010 il supremo consesso amministrativo si è pronunciato sullo schema ed ha precisato che non poteva fornire un parere formale poiché: a) il nuovo regolamento si discostava dal vecchio[69], ma la relazione ministeriale non si faceva carico di illustrare i rapporti tra le due discipline, delle esperienze maturate sotto il vecchio regolamento, nonché dei motivi che aveva indotto il legislatore a discostarsi dalla vecchia disciplina; b) la relazione non aveva speso inoltre parole sulla coerenza normativa tra il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 ed il nuovo strumento.

In via quindi informale il Consiglio di Stato ha precisato che: a) dallo schema di regolamento sembrava evincersi che fossero gli enti a registrarsi e non gli organismi[70], mentre l’art. 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28[71] prevede che l’iscrizione riguardi gli organismi; b) ammesso che possano iscriversi gli enti, andava chiarito se essi dovevano essere nuovi o già costituiti[72]; c) se gli organismi fossero articolazioni dell’ente occorreva stabilire i criteri che li rendessero autonomi formalmente e sostanzialmente[73]: doveva essere questo addirittura il nucleo della disciplina del regolamento; d) se fossero gli organismi ad “entificarsi” bisognava invece stabilire i requisiti strutturali e finanziari minimi.

I requisiti soggettivi dei formatori sono stati considerati inoltre problematici: i requisiti professionali apparivano al supremo consesso amministrativo “talmente specializzati da creare una sorta di riserva per un numero molto ristretto di soggetti“[74].

Il Ministero avrebbe poi dovuto affrontare, sempre a parere del Consiglio di Stato, diverse questioni specifiche: la ventilata compatibilità della funzione di mediatore con quella di pubblico dipendente; la coordinazione del termine di 15 giorni per la fissazione del primo incontro di mediazione della sospensione nel periodo feriale, fermo naturalmente il termine finale di 40 giorni[75]; il fatto che la norma dello schema di regolamento (art. 16 c. 13) non richiedesse l’approvazione delle tabelle degli enti, privati come invece stabilisce l’art. 17 c. 4 lett. b) del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28.

Il Governo in data 12 settembre 2010 ha compiuto un nuovo invio della documentazione normativa (schema di regolamento, relazione illustrativa, relazione AIR[76]) che ha sottoposto al Consiglio di Stato per un nuovo parere.

Il supremo consesso amministrativo ha dunque approvato lo schema in data 20 settembre 2010 “con osservazioni”[77].

In particolare, secondo il C.D.S., anche nella seconda versione dello schema di regolamento non sarebbe stato risolto il nodo del rapporto tra ente costitutivo ed articolazione quando sia questa ultima a divenire organismo (v. però oggi il nuovo testo dell’art. 4 c. 2 lett. d) del nuovo regolamento che sembra venire incontro alle ricevute osservazioni), né quello circa l’approvazione delle tabelle degli enti privati.

Detto ciò e scendendo più in dettaglio il nuovo regolamento[78] assume come proprie[79] le definizioni, recate dal decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, a proposito della figura del mediatore, all’attività di mediazione e di conciliazione; gli art. 38-40 del decreto di riforma societaria[80] al contrario non recavano definizioni di sorta che vennero invece esplicitate nell’attuativo decreto del 23 luglio 2004 n. 222; le difficoltà di definizione legislativa dipesero probabilmente dal fatto che la mediazione in ambito societario non aveva una solida tradizione; in passato[81], infatti, le questioni societarie sono sempre state decise tramite arbitrato; alla prova dei fatti comunque la conciliazione non ha riscosso grande successo, né nella forma preventiva né in quella giudiziale.

La legge delega[82] al punto b), come già accennato, prevede che “la mediazione, finalizzata alla conciliazione, sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione”.

Il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 stabilisce che gli enti pubblici o privati che diano garanzia di serietà ed efficienza sono abilitati a costituire organismi che gestiscono procedure di mediazione e che vanno iscritti nel registro[83].

Sempre il decreto legislativo individua l’organismo nell’ente pubblico o privato presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione[84].

Dal combinato disposto normativo primario sembra dunque evincersi che gli enti pubblici o privati, seri ed efficienti, possono essere abilitati a costituire organismi che possono essere a loro volta enti pubblici o privati, professionali e indipendenti.

Nel decreto 18 ottobre 2010, n. 180 la definizione di organismo si fa più articolata: “L’ente pubblico o privato, ovvero la sua articolazione, presso cui può svolgersi il procedimento di mediazione ai sensi del decreto legislativo”[85]. Non si fa invece più riferimento ad un’organizzazione di mezzi e persone “che, anche in via non esclusiva, è stabilmente destinata all’erogazione del servizio di conciliazione” come previsto dal decreto 222/04[86], e nonostante la legge delega richiedesse in capo agli organismi di conciliazione il requisito della stabilità.

Per ente privato s’intende invece nel nuovo decreto come sostanzialmente nel vecchio: “Qualsiasi soggetto di diritto privato, diverso dalla persona fisica”[87]. Così pure è immutata la definizione di ente pubblico: “La persona giuridica di diritto pubblico interno, comunitario, internazionale o straniero”[88].

L’art. 3 del decreto 18 ottobre 2010, n. 180 prevede che “È istituito il registro degli organismi abilitati a svolgere mediazione”.

La disposizione dell’art. 4 c. 1 del decreto 18 ottobre 2010, n. 180 stabilisce poi che “Nel registro sono iscritti, a domanda, gli organismi di mediazione costituiti da enti pubblici e privati”[89]ed il c. 2 che “Il responsabile verifica la professionalità e l’efficienza dei richiedenti”.

L’art. 4 c. 2 lett. d) decreto 18 ottobre 2010, n. 180 richiede come requisito di professionalità ed efficienza “la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale”.

Possiamo dunque osservare che nel nuovo regolamento non si fa riferimento ad una abilitazione dell’ente costituente, come richiesto dalla lettera del decreto legislativo (art. 16 d.lgs.), ma ad una abilitazione dell’organismo (art. 3 c. 1 reg.).

Per decreto legislativo l’abilitazione viene concessa all’ente in quanto esso sia “serio ed efficiente”.

Il nuovo regolamento invece richiede “professionalità ed efficienza” per abilitare gli organismi.

Il quadro si complica con riferimento agli ordini diversi da quello degli avvocati in quanto sia il decreto legislativo sia il regolamento sembrano concordi nel prevedere un regime più complesso: non vi è una abilitazione perché questi enti sono seri ed efficienti di diritto, ma una preventiva autorizzazione (art. 19 decreto legislativo e art. 4 c. 4 regolamento) alla costituzione ed un’abilitazione dell’organismo che però ha tratti, come vedremo, semplificati.

La legge delega non richiedeva il requisito dell’autorizzazione e quindi potrebbero esserci problemi di compatibilità del decreto e dei suoi strumenti attuativi sul punto.

Il disposto normativo complessivo appare davvero elaborato e parrebbe dare vita a diverse ipotesi di costituzione e registrazione:

a) un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, in quanto serio ed efficiente, è abilitato a costituire un organismo che può essere ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione. Tale organismo necessita di iscrizione al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza”, ossia la presenza di diversi requisiti;

b) un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, in quanto serio ed efficiente, è abilitato ad individuare, rispettando un criterio di trasparenza giuridica ed economica (v. art. 4 c. 2 lett. d) reg.) una sua articolazione interna, che non può che essere un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione. Tale articolazione nelle forme predette, si deve iscrivere al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per “abilitarla” la sua “professionalità ed efficienza” ossia la presenza di diversi requisiti; tale ultima ipotesi sembrerebbe configurabile in particolar modo quando l’articolazione si occupi già in qualche modo della materia.

c) Un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, in quanto serio ed efficiente, si costituisce organismo professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione, e chiede di iscriversi al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza” ossia la presenza di diversi requisiti;

d) un ordine o collegio professionale diverso da quello degli avvocati chiede ed ottiene autorizzazione dal Ministero della Giustizia a costituire un organismo speciale di mediazione, che non può che essere un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione, e tale organismo chiede di iscriversi al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza”, ossia la presenza di requisiti diversi rispetto a quelli degli altri organismi;

d) l’ordine degli avvocati (v. art. 18 del decreto legislativo) costituisce un organismo di mediazione che non può che essere un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione, e tale organismo chiede di iscriversi al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza”, ossia la presenza di requisiti diversi rispetto a quelli degli altri organismi.

L’iscrizione nel registro ministeriale abbiamo detto che concerne gli organismi di mediazione che si definiscono abilitati[90]; il decreto ministeriale del 23 luglio 2004, n. 222 prevedeva invece che gli organismi dovessero essere autorizzati[91].

Il concetto di abilitazione riguarda, a dire il vero, normalmente le persone[92] ovvero le cose[93]. L’autorizzazione comporta una discrezionalità amministrativa mentre l’abilitazione, che rientra nell’alveo della categoria delle autorizzazioni, s’impernia su una discrezionalità di carattere tecnico, si va cioè a vagliare la sussistenza dei requisiti d’idoneità richiesti dalla legge.

Circa i criteri[94] per l’iscrizione nel registro si prevede intanto che gli organismi costituiti dalle CC.I.AA. e dai consigli dell’ordine possono rivestire anche forma associata, precisazione che pare importante e che in qualche modo contrasta opportunamente il dilagante corporativismo[95].

Tali ultimi organismi sono iscritti su semplice domanda, verificati i requisiti previsti in via generale per i mediatori[96] e la stipulazione di apposita polizza assicurativa[97].

Abbiamo detto che il decreto legislativo sembra prevedere che gli ordini (o collegi), diversi da quello degli avvocati, debbano essere preventivamente autorizzati a costituire organismi peraltro denominati speciali[98].

Il regolamento ripropone il concetto dell’autorizzazione che, se seguiamo il dato letterale della legge e giusto il richiamo operato ad essa dallo stesso regolamento, dovrebbe riguardare appunto gli ordini istitutivi[99]: questa discrezionalità amministrativa preventiva in capo al responsabile del registro, appare curiosa e ci ricorda in qualche modo la legislazione del 1926.

Superato questo primo sbarramento per l’ordine, sarà dunque l’organismo a dovere essere abilitato, giacché tutti gli organismi devono essere abilitati[100].

Quindi il Ministero eserciterà una discrezionalità tecnica e vaglierà in capo agli organismi ordinistici gli elementi succitati: sussistenza della domanda, sottoscrizione della polizza assicurativa e requisiti dei mediatori.

Qualche problema però sembra recare l’articolazione interna, perché essa può ragionevolmente preesistere all’autorizzazione; in tal caso non si può che pensare alla sola abilitazione dell’organismo.

Vi sono poi dei requisiti che riguardano direttamente gli organismi diversi dagli ordini e dalla CC.I.AA. e requisiti inerenti le persone che li compongono: soci, associati, amministratori, rappresentanti e mediatori.

Quanto agli organismi il primo requisito che il responsabile del registro verifica è la “capacità finanziaria e organizzativa” ovvero: 1) che posseggano un capitale di almeno 10.000 euro; in merito all’organizzazione 2) che vi sia attestazione della capacità di svolgimento “dell’attività di mediazione in almeno due regioni italiane o in almeno due province della medesima regione”, anche attraverso le strutture, il personale e dei mediatori di altri organismi con i quali l’organismo “abbia raggiunto a tal fine un accordo, anche per singoli affari di mediazione” [101].

La mediazione inoltre deve essere compatibile con l’oggetto e lo scopo associativo[102].

Gli organismi devono poi stipulare, unitamente a quelli ordinistici e alla CC.I.AA., una polizza assicurativa di importo non inferiore a 500.000 euro[103].

Altri elementi che vengono verificati sono appunto “la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale”[104]; le garanzie di indipendenza, imparzialità e riservatezza nello svolgimento del servizio di mediazione, nonché la conformità del regolamento alla legge e al decreto ministeriale anche per quanto attiene al rapporto giuridico con i mediatori[105].

In ultimo ogni organismo deve possedere un numero dei mediatori non inferiore a cinque, che abbiano dichiarato la disponibilità a svolgere le funzioni di mediazione e la sede dell’organismo[106].

Tutti questi requisiti, all’infuori la sottoscrizione di polizza assicurativa, possono essere oggetto di autocertificazione[107].

Rispetto al decreto del 23 luglio 2004 n. 222 scompare dunque e giustamente la richiesta: a) della esclusività di almeno sette mediatori[108]: la qualcosa non può che essere degna di plauso, b) della destinazione anche in via non esclusiva nel caso di associazione tra professionisti o una società tra avvocati, di almeno due prestatori di lavoro subordinato, con prevalenti compiti di segreteria, in ogni altro caso, l’indicazione nominativa di due persone a svolgere tale ruolo: requisito effettivamente spropositato perlomeno con riferimento agli organismi di nuova costituzione, senza contare che un non mediatore difficilmente potrebbe svolgere al meglio tali compiti.

Si è dissolto parimenti il divieto posto in capo a soci, associati, amministratori, rappresentanti e conciliatori di svolgere compiti di segreteria[109]: peraltro questo divieto irragionevole in sé cozzava concretamente pure contro il disposto dell’art. 8 c.1 del decreto 4 marzo 2010 n. 28 che prevede determinate fondamentali attribuzioni in capo direttamente al responsabile dell’organismo.

Sono poi richiesti[110], al pari del decreto del 23 luglio 2004 n. 222, in capo ai soci, associati, amministratori e rappresentanti degli organismi di mediazione requisiti di onorabilità conformi a quelli fissati dall’articolo 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.

Ai sensi di quest’ultimo decreto i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso SIM[111], società di gestione del risparmio, SICAV[112] (che sono sostanzialmente assimilabili agli istituti di credito) devono possedere i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza stabiliti dal Ministro dell’economia e delle finanze, con regolamento adottato sentite la Banca d’Italia e la CONSOB[113].

Disposizione più che legittima in relazione all’oggetto espresso, ma che poco si attaglia a chi dirige dei mediatori civili e commerciale. Forse il Ministero pensa che il dirigente di un organismo di mediazione sia come il giudice pace cantonale che, in quanto presidente dell’assemblea dei cantoni, maneggiava pubblico denaro: da allora sono però passati due secoli e questa attribuzione è finita se non nel 1805, perlomeno nel 1814.

Fuor di battuta un requisito serio da prevedere potrebbe essere quello di una qualche cognizione del diritto in capo al responsabile dell’organismo, poiché in sede di presentazione della domanda sarebbe opportuno verificare in primo luogo se si è tecnicamente in presenza di un controversia e se tale controversia riguardi o meno diritti disponibili.

Tale requisito in capo al conciliatore non era richiesto nel sistema del 1865 perché non c’era bisogno di verificare la disponibilità dei diritti: il verbale di conciliazione non aveva effetto se non quando avesse ottenuto l’autorizzazione dell’autorità preposta; ma nel nostro decreto legislativo purtroppo non esiste una norma simile ed al contrario il regolamento richiede un invio da parte del giudice del diniego di omologazione, cosa che implica, come tutti possono comprendere, una responsabilità dei mediatori.

Una prescrizione come l’art. 2 c. 2 del C.p.c. del 1865 potrebbe eliminare alla radice il problema; ma, in difetto, se ci fosse un primo autorevole filtro in sede di presentazione della domanda, perlomeno si renderebbe meno gravosa la responsabilità degli operatori della mediazione.

Il responsabile verifica ancora i requisiti di qualificazione dei mediatori, “i quali devono possedere un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero, in alternativa, devono essere iscritti a un ordine o collegio professionale”[114].

L’indicazione circa il collegio professionale e la generica indicazione di “ente pubblio o privato” con riferimento all’organismo[115], fa ritenere lo scrivente che i requisiti prima visti per gli organismi costituiti dagli ordini valgano anche per quelli istituiti dai collegi: sarebbe diversamente bizzarro richiedere come requisito per essere mediatore l’iscrizione ad un collegio che però non possa istituire organismi.

In precedenza il decreto del 23 luglio 2004 n. 222 richiedeva differenti requisiti[116]: la qualifica di professori universitari in discipline economiche o giuridiche, o di professionisti iscritti ad albi professionali nelle medesime materie con anzianità di iscrizione di almeno quindici anni, ovvero di magistrati in quiescenza; in alternativa doveva risultare provato il possesso di una specifica formazione acquisita tramite la partecipazione a corsi di formazione tenuti da enti pubblici, università o enti privati accreditati presso il responsabile della tenuta del registro[117].

I requisiti professionali richiesti dal decreto del 23 luglio 2004 n. 222 costituivano il più lampante riflesso della considerazione della conciliazione in chiave giudiziaria, e apparvero dunque subito assolutamente inadeguati a coloro che si occupavano del settore; ma anche il percorso alternativo di certo non è stato particolarmente qualificante.

Il risultato di tale impostazione comportava comunque che chi, professionista o magistrato o professore universitario, non avesse partecipato a corsi di specifica formazione potesse riscontrare difficoltà a collocarsi negli organismi che peraltro sono presenti sin dal 1993, anche se sino alla riforma societaria non si richiedeva alcuna registrazione presso il Ministero: il che avrebbe dovuto far meditare un poco il legislatore circa la “maturità autoregolamentativa” degli enti di mediazione ed in merito alla quasi inutilità dei percorsi professionali considerati equipollenti alla formazione.

Il nuovo regolamento ha cercato di migliorare l’assetto formativo prevedendo che alla laurea triennale ovvero all’iscrizione ad ordine o collegio, venga aggiunto il possesso di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione.

Il sistema appare oggi dunque più equilibrato, se non fosse che la specifica formazione consiste in un corso “non inferiore” a 50 ore[118].

Se consideriamo la mediazione come parte del sistema giustizia siamo quasi alla burla, giacché un qualsiasi aspirante magistrato esaurisce quel monte ore in tre giorni di uno studio peraltro continuativo e a volte biennale; e svolgere il ruolo del mediatore risulta di certo più complesso rispetto a quello del giudice o del professionista in genere, perché il mediatore non ha, lo ricordo, alcun potere di decisione.

Le materie indicate come oggetto di approfondimento sono certamente maggiormente calibrate[119] rispetto a quelle indicate dal decreto del 24 luglio 2006[120], anche se è stato, chissà perché, eliminato un argomento purtroppo nevralgico secondo gli attuali assetti, ossia “il rapporto con la tutela contenziosa”.

E anche il percorso di aggiornamento costituisce ben misera cosa se si ha riguardo al fatto che richiede un minimo non inferiore a 18 ore biennali[121]: qualsiasi organismo di conciliazione ante riforma ne prevedeva almeno 24.

I tempi di formazione non sono in definitiva proporzionati al necessario approfondimento: non a caso ad esempio in Argentina i legali per divenire mediatori si sono preparati per tre anni e l’istituto ha avuto per tre lustri carattere sperimentale. Ma si possono citare anche le EEPJ che in Spagna sono equiparate alle università per quanto concerne la formazione degli avvocati e dei procuratori e prevedono dei programmi, seppure non obbligatori, che durano dai 12 ai 24 mesi dedicati anche alla “analisi della praticabilità delle eventuali soluzioni sostanziali o processuali della causa giudiziaria, tenendo in considerazione la possibile durata del processo o in alternativa della mediazione…”[122]

Anche i mediatori devono dimostrare il possesso di requisiti di onorabilità, analoghi a quelli dei gerenti l’organismo: non avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva non sospesa[123]; non essere incorsi nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici; non essere stati sottoposti a misure di prevenzione o di sicurezza; non avere riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento[124].

Per i mediatori esperti in campo internazionale che vogliano iscriversi si prevede anche un ulteriore ovvio requisito: quello delle conoscenze linguistiche necessarie.

Nel registro vanno iscritti, infatti, sia con riferimento agli enti privati sia per quelli pubblici, tre categorie di soggetti[125]: mediatori, mediatori esperti nella materia dei rapporti di consumo, mediatori esperti nella materia dei rapporti internazionali; rispetto al passato è stato il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 a richiedere due categorie in più[126].

Il procedimento d’iscrizione inizia con la presentazione della domanda[127] a cui vanno allegati: a) l’elenco dei mediatori che si dichiarano disponibili allo svolgimento del servizio[128], elenco che è corredato dalle singole dichiarazioni di responsabilità dei mediatori[129], dal curriculum sintetico degli stessi[130] dall’attestazione del possesso dei requisiti di onorabilità[131], dalla documentazione comprovante le conoscenze linguistiche necessarie all’iscrizione nell’elenco dei mediatori esperti nella materia internazionale[132]; b) il regolamento di procedura; c) un modello di scheda di valutazione, d) la tabella delle indennità; per gli enti privati, dice il nuovo regolamento “l’iscrizione nel registro comporta l’approvazione delle tariffe”[133].

Quest’ultima prescrizione, peraltro presente anche nell’art. 5 c. 1 del decreto del 23 luglio 2004 n. 222, secondo il Consiglio di Stato non è sufficiente perché il decreto legislativo richiede che la tabella delle indennità degli enti privati sia espressamente approvata.

Il regolamento non reitera peraltro la richiesta del codice etico che pure è fatta dalla legge[134].

Quanto alla scheda di valutazione si è detto che essa suscita delle perplessità.

Il regolamento prevede esattamente che “al termine del procedimento di mediazione, a ogni parte del procedimento viene consegnata idonea scheda per la valutazione del servizio; il modello della scheda dev’essere allegato al regolamento, e copia della stessa, con la sottoscrizione della parte e l’indicazione delle sue generalità, dev’essere trasmessa per via telematica al responsabile, con modalità che assicurano la certezza dell’avvenuto ricevimento”.[135]

La scheda di valutazione non è richiesta dal decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, né dalla leg

A partire dal 1790 si è posto in particolar modo in Francia ed in tutta Europa il problema del controllo del territorio, dal momento che era venuto meno l’antico regime.

Si pensò dunque di affiancare l’utilizzo delle armi con una nuova organizzazione giudiziaria: idea peraltro nemmeno tanto originale, visto che aveva già fatto grande l’impero romano.

L’accesso alla giustizia divenne così di fondamentale importanza, dal momento che se i cittadini non riuscivano a rivolgersi alla giustizia, il governo non era in grado di controllarli se non appunto con le armi.

Per essere accessibile la giustizia doveva anche godere della informalità e della tendenziale gratuità, dal momento che era indirizzata soprattutto a poveri analfabeti.

L’Assemblea costituente decise così di rispolverare un istituto che esisteva in Francia già del 1300: sulla falsa riga dei Difensori di città già nel 1313 gli Uditori del Cancelletto giudicavano a Parigi le cause lievi, senza apparati, senza istruzione scritta e senza spese.

Tale magistratura che ricalca peraltro quella del Baiulo[1] rimase in piedi sino al 1600[2].

In questa prospettiva nevralgico divenne che la giustizia di pace avesse un’organizzazione capillare.

Ciò ebbe naturalmente ricadute anche nelle zone di contatto: paradigmatico è l’esempio della Repubblica Ligure, sotto l’influenza napoleonica dal 1797 al 1814.

Nel 1798 si trovavano su un territorio decisamente più vasto di quello attuale oltre 200 giudici di pace dislocati in 156 cantoni per 20 giurisdizioni[3].

Essi servivano circa 600.000 abitanti: in sostanza c’era un giudice di pace per ogni 300 abitanti[4].

Più di un terzo delle norme sulla riorganizzazione giudiziaria riguardarono la giustizia di pace[5].

C’erano giudici di pace di prima classe nei luoghi anche più sperduti dove non risiedeva il tribunale (che però era itinerante) che avevano una competenza civile, salvo appello, praticamente illimitata e pure una giurisdizione penale, proprio per evitare che la popolazione dovesse affrontare spese e viaggi e quindi rinunciasse alla giustizia.

Si istituirono anche giudici di pace di seconda classe che invece avevano un competenza eminentemente civile più ridotta e i loro giudizi erano in parte inappellabili: la presenza in loco del tribunale rassicurava evidentemente il potere.

A Genova centro che aveva una popolazione di circa 90.000 anime si contavano ad esempio solo sei giudici di pace e di seconda classe[6], uno per ogni quartiere e “due per il circondario, fra le vecchie, e nuove mura, cioè tra la parrocchia di S. Teodoro e quella di San Vincenzo”[7].

Il giudice di pace non aveva inoltre soltanto funzione giudiziaria, ma anche politica visto che presiedeva l’assemblea dei cantoni[8] che peraltro lo eleggeva unitamente agli assessori[9] su convocazione del “commissario di governo per ordine del direttorio esecutivo”[10]

A partire dal 1805 il controllo francese si rese ancor più penetrante.

Il 4 giugno 1805 il Senato della repubblica genovese nella persona del Doge[11] si recò a Milano e richiese a Napoleone che la Liguria fosse annessa alla Francia.

L’Imperatore non se lo fece ripetere due volte e nel decreto di annessione del 6 giugno 1805[12] stabilì che in ogni cantone ci fosse un giudice di pace[13].

La “sua” giustizia di pace sostituì la vecchia giustizia di pace[14] di cui Genova era già ben dotata.

Di certo l’Imperatore non poteva avere una particolare ansia di pacificazione sociale, dal momento che il governo della Repubblica, era sicuramente filo-francese da almeno un lustro.

Dal decreto sulla riorganizzazione giudiziaria si può evincere che Napoleone nominò i giudici insieme ai “procuratori generali imperiali, i procuratori imperiali, i loro sostituti, i cancellieri, i procuratori, gli uscieri, fuori quelli delle giustizie di pace”[15].

Quindi Napoleone nominò pure i procuratori legali[16]. Essi erano in numero fisso presso le giurisdizioni superiori e venivano regolati dal “governo a sentimento del tribunale”[17]; non potevano che postulare presso il tribunale cui erano “attaccati” e le parti potevano difendersi da sole o rivolgersi a loro.

I pubblici ministeri erano naturalmente agenti del governo[18] e le corti di giustizia criminale erano formate da una maggioranza di militari (cinque) col grado di capitano. Il giudice di pace presiedeva anche il tribunale di polizia ove la sanzione era espressa nel massimo in “tre giorni di travaglio”[19].

Napoleone evidentemente aveva capito che la giustizia poteva davvero essere un ottimo sistema di controllo del territorio.

E che il territorio fosse controllato lo aveva compreso, per la verità, anche Alfieri che profeticamente qualche anno prima aveva scritto nell’avviso al lettore del Misogallo: <<Dico, ridico e ognor torno a dire… E che i Galli, esser liberi son fole>>[20].

Ma a Genova non c’erano tante campagne da controllare, il ceto forte era quello dei commercianti, dei mercanti e degli armatori: anche il taglio della conciliazione dunque doveva tenerne conto e così si valorizzarono i procuratori ed un rito conciliatorio riservato sostanzialmente ai giuristi.

Si tenga conto che sino al 1805 gli avvocati non potevano partecipare alle conciliazioni[21]: Napoleone comprese che se voleva controllare i “borghesi” doveva avere in mano e nobilitare allo stesso tempo il ceto forense.

E colpo da maestro, cambiò anche la composizione del tribunale commerciale sino a quel momento composto da semplici cittadini di almeno trent’anni[22]. L’Imperatore decise che da quel momento in poi per essere giudice commerciale bisognava aver praticato il commercio per almeno cinque anni[23] e non in un posto qualunque, ma nella città dove aveva sede il tribunale ed essere eletti da un’assemblea di negozianti, banchieri, mercadanti, manifattori ed armatori.

C’era comunque sempre la Corte d’Appello di Genova a controllare i loro giudizi[24].

Per ulteriore cautela Napoleone prescrisse che il personale giudiziario (cancellieri, procuratori e uscieri) dovesse rilasciare allo stato anche una salatissima cauzione[25] e che se i cancellieri volevano un apprendista dovevano pagarselo, con il risultato che tutti possiamo immaginare.

Ma l’Imperatore aveva anche un altro problema, quello di vigilare sulla nobiltà: con essa preferì la via del compromesso e si comportò come disse poi l’eroe Tancredi del Gattopardo “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

L’Imperatore abolì dunque il 9 giugno 1805 la costituzione della repubblica del 1802 e dissolse il governo della città[26]; e poi nominò prefetto di Genova l’ex doge e membri del consiglio del dipartimento di Genova[27] nobili liguri, un ex ministro francese[28] che poteva evidentemente esercitare una vigilanza dall’interno del consiglio ed ex senatori della Repubblica di Genova[29].

Stabilì infine solennemente nel decreto di riforma della giustizia <<che le funzioni amministrative sono e saranno sempre separate dalle funzioni amministrative. I giudici non potranno, sotto pena di prevaricazione intorbidare in qualunque siasi modo le operazioni degli amministratori, né citarli nanti di loro per causa delle loro funzioni>>[30].

Nel diritto giustinianeo il prevaricatore era colui che nell’accusare prestava soccorso alla parte avversaria e che meritava la pena prevista dalla legge del taglione; chi venisse accusato di prevaricazione non poteva più accusare in un pubblico giudizio[31].

Nella Costituzione corsa del 1794 era previsto che gli agenti del governo potessero essere accusati di questo delitto dal Parlamento.

Napoleone era evidentemente imbevuto da questa cultura tanto che volle considerare la prevaricazione come delitto principe per punire i pubblici funzionari e di solito la pena per questo delitto era la degradazione civica[32].

Nel 1808 il sistema ligure approdò in Toscana e poi, tramite il codice di procedura civile francese nel contempo approvato (1807) più a Sud.

<<Ma nelle province napoletane e siciliane, dove si era avvezzi da lungo tempo ad avere per le picoole cause i Bajuli od altri giudici veramente locali, non soddisfaceva la la giurisdizione dei giudici di pace… Inoltre l’esperienza non tardò a dimostrare che la severità delle altre funzioni, di cui erano investiti i Giudici di pace, mal si combinava col ministero paterno e pacifico del conciliatore>>[33].

Le cose non migliorarono poi tanto nel Regno d’Italia nonostante fosse stato modellato processualmente sulla legislazione del Regno delle Due Sicilie[34].

Il conciliatore italiano del 1865 veniva nominato dal Re in base ad una terna proposta dal Consiglio comunale.

Nel 1875 il Re verrà soltanto sostituito dai presidenti di Corte d’Appello che nominavano però sempre su delega reale, scegliendo appunto dalla predetta terna.

Nel 1892 poi si abolì la terna, ma il Consiglio comunale espresse comunque dieci nomi all’interno di alcune categorie[35] che nominava il primo presidente della Corte sempre su delega del Re.

Alla luce di quanto abbiamo espresso non pare per niente sorprendente che la legge di riforma della competenza dei conciliatori del 1892 contenesse a sua volta norme minuziose in merito alla nomina di un giudice il cui incarico era gratuito e ancor più che le discussioni parlamentari si incentrassero soprattutto sulle categorie dei nominabili.

Si disse all’epoca che veniva in sostanza mantenuto il collegamento tra il conciliatore ed il popolo che si rinveniva anche in Norvegia, in Danimarca ed in America nello stesso periodo.

E che uno stesso collegamento avevano avuto comunque in precedenza i Difensori di città, gli Scabini ed i Baiuli[36].

In realtà noi che non siamo sudditi sabaudi potremmo parlare di un controllo della Monarchia.

Niente di nuovo sotto il sole, nel senso che a partire da Giustiniano si è sempre cercato, magari in modo meno smaccato, di regolare e controllare minutamente la giustizia informale nei borghi e nelle campagne.

In tempi più recenti bisogna ricordare ancora qui che l’ordinamento corporativo prese le mosse nel 1926 da un tentativo di conciliazione da tenersi obbligatoriamente in presenza di quegli organi di collegamento che di lì a poco sarebbero diventati corporazioni[37].

All’art. 2 della legge del 26 si prevedeva inoltre una revisione degli ordini, collegi ed associazioni professionisti, “per coordinarli con le disposizioni della presente legge”; e all’art. 11 del regolamento si specificava l’ambito della revisione.

Per gli iscritti ad un albo si stabiliva che potesse sorgere accanto all’ordine una associazione sindacale legalmente riconosciuta soggetta alle norme dell’ordinamento corporativo.

A tale associazione sindacale, e non agli ordini o collegi, spettava la facoltà di adempiere ai compiti di tutela degli interessi morali e materiali dei loro rappresentanti, di assistenza, di istruzione e di educazione previsti dalla legge.

Le indicazioni in merito giungevano naturalmente dal salotto Bottai.

Anche oggi abbiamo degli ordini che possono dare vita ad organismi che si occupino di mediazione.

Tali organismi, ad eccezione di quello degli avvocati, devono essere però autorizzati dal Ministero, così come venivano autorizzate le associazioni sindacali legalmente riconosciute.

I parametri formativi fondamentali vengono dati dal Ministero tramite regolamento: in oggi dal decreto Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180.

Il Ministero vigila su tutti gli organismi che devono essere iscritti in un registro.

Ben otto su i diciassette punti che compongono la norma delegante[38] del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 e quindi della sopradetta disciplina si occupano di disciplinare gli organismi ed il registro degli organismi di conciliazione.

La preoccupazione principale del legislatore del 2009 sembrava essere ancora e sempre quella di acquisire e mantenere il controllo della nuova giustizia di pace: se ce ne fosse bisogno basterebbe solo ricordare che la lett. c) della norma prevede appunto che il registro unitamente agli organismi siano oggetto di vigilanza da parte del Ministero della Giustizia.

Anche se, per la verità, la lett. b) richiede che gli organismi siano “professionali e indipendenti”, potrebbe venire il dubbio che il legislatore si riferisca soltanto al lato economico e questa conclusione sarebbe desolante.

E nemmeno la legislazione comunitaria più recente ripercorre altri schemi nel momento in cui si preoccupa di rendere accessibile la mediazione, pur privilegiando comunque la via giudiziaria.

Né possiamo prendere migliori lezioni dalla liberale America che ha da questo punto di vista messo su il sistema di controllo perfetto, evocando una multidoor courthouse dove i sistemi alternativi alla giustizia sono dispensati tramite i servigi della Corte, e quindi l’annoso problema è diventato giustamente quello di coordinare il contenuto delle conciliazioni con quel processo che si cercava almeno a parole di evitare.

I regolamenti ministeriali che hanno retto le sorti degli organismi di mediazione sino al 5 novembre 2010 - i decreti ministeriali 23 luglio 2004 n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223, in quanto compatibili - e che hanno già attuato la conciliazione societaria[39] non sono esenti da identiche considerazioni.

In particolare nel decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 si sono privilegiati aspetti che non sembrano essere funzionali all’esercizio della mediazione, ma sempre e tristemente al suo controllo.

L’art. 6 prevede ad esempio che “nessuno può dichiararsi disponibile a svolgere funzioni di conciliazione per più di tre organismi”.

E addirittura si stabilisce che le violazioni degli obblighi inerenti le dichiarazioni, commesse da pubblici dipendenti o da professionisti iscritti ad albi professionali costituiscono illecito disciplinare ai sensi delle rispettive normative deontologiche; il responsabile della tenuta del registro è tenuto ad informarne gli organi competenti.

Insomma le dichiarazioni di disponibilità allo svolgimento del servizio che risultano al registro devono corrispondere all’effettivo servizio, pena l’illecito disciplinare.

A parte l’imbarazzo di configurare un illecito deontologico attraverso un regolamento di un organo terzo, la sostanza è che il Ministero deve poter vigilare anche persone e luoghi di svolgimento delle conciliazioni; sembra di tornare ai procuratori di epoca napoleonica (ma nemmeno tanto di quell’epoca) che erano stati “attaccati” ad un dato tribunale[40].

Il principio testé indicato viene purtroppo ribadito anche dal decreto Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180.

L’art. 8 del decreto ministeriale 23 luglio 2004, n. 222 prevedeva, in barba ad ogni principio di riservatezza, che “Dell’esito positivo della conciliazione conclusa per il tramite dell’organismo di conciliazione deve essere redatto apposito verbale da trasmettere senza ritardo al responsabile del registro il quale, su istanza di parte, lo trasmette al presidente del tribunale ai fini dell’omologazione”.

Al responsabile è stato addirittura attribuito un potere di sospensione e, nei casi più gravi, di cancellazione in caso di violazione dell’obbligo di invio del verbale al Ministero.

Nemmeno napoleone sognava tanto ed, infatti, si limitò a disporre che solo in caso di fallimento si “farà sommariamente menzione che le parti non hanno potuto accordarsi”[41].

Ma ciò era legato al fatto che, essendo la mediazione obbligatoria, doveva darsi atto del fallimento se si voleva procedere oltre col giudizio.

In oggi il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 prevede che non si invii il verbale al Ministero, ma si interpelli direttamente il tribunale per l’omologazione: il decreto Ministero della Giustizia 18 ottobre 2010, n. 180 all’art. 13 fa tuttavia rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta prevedendo che “ Il giudice che nega l’omologazione, provvedendo ai sensi dell’articolo 12 del decreto legislativo, trasmette al responsabile e all’organismo copia del provvedimento di diniego”.

Già l’art. 13 del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 stabiliva nello stesso senso che l’autorità giudiziaria fosse obbligata a segnalare al responsabile del registro “tutti i fatti e le notizie rilevanti ai fini dell’esercizio dei poteri previsti” dal regolamento e pure i “dinieghi di omologazione”.

Ancora l’art. 15 c. 4 del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 stabilisce che coloro che non corrisponderanno immediatamente a ogni richiesta del responsabile dell’organismo in relazione alle previsioni del regolamento ministeriale, perdano i requisiti di onorabilità e quindi vengano equiparati ai fini dell’iscrizione in registro, ai condannati a pena detentiva per delitti non colposi o a pena detentiva, anche per contravvenzione, ai “patteggiati” per una condanna superiore a sei mesi, agli interdetti temporanei o perpetui dai pubblici uffici, ai sanzionati disciplinarmente con pena superiore all’avvertimento, ai sottoposti a misure di prevenzione e di sicurezza[42].

Insomma il predetto articolo del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 sancisce in buona sostanza un meccanismo analogo alla “degradazione civica” susseguente alla contestazione del delitto di prevaricazione di napoleonica memoria.

Né si può dire che tanta ansia di vigilare nasca da una premura del Ministero in merito alla qualità della mediazione, dato che per diventare conciliatore in un primo momento si sono previste, in alternativa a particolari requisiti professionali, almeno trentadue ore di corso[43], in seguito quaranta ore[44] ed oggi si è passati ad almeno cinquanta ore; la qual cosa se non fosse seria muoverebbe al riso, specie se confrontata alle esperienze di altri paesi ove i conciliatori hanno dovuto seguire corsi triennali.

In un primo tempo si era invece stati più selettivi per i formatori tanto che il Consiglio di Stato nel primo dei due pareri resi sullo schema del nuovo regolamento ha scritto che “d) I requisiti professionali dei formatori appaiono talmente specializzati da creare una sorta di riserva per un numero molto ristretto di soggetti”[45].

In oggi invece i requisiti su cui ritorneremo, appaiono decisamente abbordabili.

Il modello organizzatorio che in conclusione la storia ci ha proposto prevede pressoché ovunque un tentativo quasi sempre riuscito di giurisdizionalizzazione della giustizia di pace.

In questa prospettiva tuttavia non sembra che nel 2010 la mediazione possa trovare un grande spazio.

E ciò si sostiene guardando al momento genetico dell’organizzazione giudiziaria.

L’intervento dello stato si dovette misurare un tempo con un sistema di circolazione di beni e persone che impediva di fatto l’accesso alla giurisdizione.

In virtù delle “spese e delle noie di viaggio” si arrivò a stabilire che ad esempio nella Francia post-rivoluzionaria che il tentativo di conciliazione non andasse esperito nei conflitti multi parte: principio questo esattamente contrario a quello attuale recato dall’art. 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28.

Il rimedio, come l’esperienza della Repubblica Ligure ci insegna[46], è stato rinvenuto nell’aumentare i poteri del giudice di pace ove l’accesso alla giustizia ordinaria fosse difficoltoso e nel diminuirli ove invece fosse agevole.

In un mondo globalizzato dove più nessuna distanza può essere penalizzante e in cui le spese di giustizia per quanto rilevanti, risultano meno pressanti che in passato, non c’è spazio per un altro organismo giurisdizionalizzato.

Semmai andrà valorizzata la giurisdizione minore che già c’è ed il cui potere e le cui risorse sono ridotte al lumicino, proprio in virtù del fatto che la facilità di accesso rende più agevole oltre che ragionevole adire ad organi maggiormente specializzati[47]: non a caso nella Repubblica Ligure i giudici di pace di seconda classe non si occupavano della volontaria giurisdizione che era affidata ai tribunali[48].

Ma anche l’ipotesi di rafforzare la giurisdizione minore sembra di difficile realizzo perché, lo si ribadisce, l’esperienza insegna che più agevole è l’accesso alla giurisdizione ordinaria, meno sono le risorse ed i poteri che vengono messe in campo.

Non a caso la legislazione in materia di conciliazione e mediazione prevede che il mediatore non abbia poteri di decisione e che lo stato non intervenga finanziariamente se non in misura assai ridotta: a prescindere da un certo filone di pensiero sulla funzione di conciliazione che imporrebbe un “mediatore nudo”, non c’erano altri poteri e risorse da distribuire, né tale distribuzione rientrava nella logica.

Ormai neppure la giustizia “specializzata” riceve risorse e più si paralizza meno finanziamenti vengono stanziati: malevolmente si potrebbe pensare che ciò che non risponde più agli scopi va abbandonato ed in effetti oggi vi sono sistemi molto più efficaci di quello giudiziario per controllare il territorio.

Se si vuole salvare, prima che valorizzare, la mediazione bisogna meditare più seriamente sul fatto che essa non è una funzione giudiziaria, che è alienissima da finalità giudiziarie di controllo e che inoltre non sussistono più le ragioni per cui la composizione ed i compositori di pace debbano essere vigilati dal Ministero di Giustizia, essendo oggi bastevoli i sistemi satellitari; a meno che non si voglia controllare il cuore dell’uomo, visto che l’attuale mediazione non si gioca sui diritti, ma sugli interessi; ciò però ci riporterebbe indietro di qualche secolo.

È quindi necessario che lo Stato faccia davvero un passo indietro nel momento in cui ha correttamente delineato per gli organismi un impianto autoregolamentativo[49].

Cosa che non pare accaduta, in verità, con il nuovo regolamento di attuazione del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, anche se esso si discosta in più punti dai regolamenti precedenti[50] e in alcuni di questi punti è da considerarsi innovativo rispetto allo stesso dettato della norma delegata.

Se non è innovativa l’istituzione, accanto al registro degli organismi, dell’elenco pubblico degli enti di formazione[51] tenuto presso il Ministero della Giustizia[52], pare invece nuova ed opportuna la figura del responsabile scientifico, un esperto di ADR che attesta “la completezza e l’adeguatezza” del percorso formativo e di aggiornamento dei formatori [53].

Nuova è anche l’introduzione della scheda di valutazione[54] da consegnarsi alle parti alla conclusione della procedura e da inviarsi compilata con i dati anagrafici al Ministero, adempimento che non era previsto né dal decreto legislativo, né tantomeno dalla legge delega. Adempimento che, in spregio alla riservatezza della procedura, è fonte anche di altre perplessità di ordine giuridico e tecnico.

Innovativa è ancora la prescrizione che vieta di svolgere mediazione esclusivamente telematica[55] alla presenza di un combinato disposto dell’art. 3 c. 4[56] e dell’art. 16 c. 3[57] del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 che invece sembra autorizzare sia la mediazione non telematica, sia quella mista e pure quella esclusivamente telematica[58].

Altra norma che non trova cittadinanza nel decreto legislativo e stabilisce che a seguito della formulazione della proposta le spese di mediazione debbano essere aumentate sino a un quinto[59]: tale prescrizione, perlomeno per una questione di trasparenza, dovrebbe trovare riscontro anche in sede di decreto legislativo ove si prevede soltanto che in caso di proposta il mediatore avverta le parti delle conseguenze di cui all’art. 13[60].

Vi sono poi statuizioni che necessitano di un migliore coordinamento: ad esempio l’art. 7 c. 7 decreto ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180 stabilente che “Non sono consentite comunicazioni riservate delle parti al solo mediatore, eccetto quelle effettuate in occasione delle sessioni separate”.

Apprezzabilissima tutela dell’imparzialità ed indipendenza del mediatore, se non fosse che ad esempio l’art. 11 c. 2 del decreto legislativo 4 marzo 2010 prevede che il mediatore comunichi la sua proposta per iscritto e che quindi le parti per replicare in un senso o nell’altro debbano in qualche modo comunicare riservatamente per iscritto con lui, o ancora che lo stesso art. 7 c. 2 del nuovo regolamento indica come di possibile inclusione la clausola per cui sia soltanto il mediatore a convocare personalmente le parti.

Desta ancora preoccupazione la formulazione, peraltro non innovativa rispetto al pregresso regolamento, della norma che dispone la sospensione e la cancellazione dal registro degli organismi: si afferma che le violazioni comportanti la sospensione possono determinare, nei casi più gravi, la cancellazione[61].

Non vi è dunque un’elencazione tassativa[62] dei casi di cancellazione: non pare a chi scrive che la valutazione dei “casi più gravi” possa essere rimessa legittimamente alla discrezionalità del Ministero; specie alla luce del fatto che la cancellazione ha conseguenze pesanti dato che “impedisce all’organismo di ottenere una nuova iscrizione, prima che sia decorso un anno”[63].

Infine un’indicazione che colpisce e che parimenti già si trovava nel precedente regolamento[64] è quella a tenore dalla quale il Ministero può controllare gli organismi, ai fini della sospensione e cancellazione, attraverso l’invio ai destinatari di “circolari o altri documenti amministrativi equipollenti”[65]; il che presuppone evidentemente che si ritengano organi appartenenti all’amministrazione della giustizia visto che le circolari si inviano ordinariamente agli organi interni di una determinata amministrazione e sono per essi vincolanti[66]: tale indicazione non pare trasparire dalla definizione di organismo del decreto legislativo[67], né da quella di definizione di regolamento.

Si ribadisce al contrario che la legge delega[68] alla lettera b) stabilisce che la mediazione sia svolta da “organismi professionali ed indipendenti”; tale indicazione sembra preziosa, a meno che, come si è detto, non sia letta soltanto con riguardo ai profili economici, la qualcosa sarebbe, lo si ribadisce, desolante.

Il testo dello schema del nuovo regolamento non ha avuto un percorso semplice dal momento che il Ministero è stato letteralmente assediato da diverse componenti sociali, ma ciò è accaduto anche nel 1865 con l’istituzione del conciliatore e nel 1892 per la modifica della sua competenza: storia vecchia da sempre legata ad interessi che poco hanno a che fare con l’istituto.

A ciò si sono aggiunti ben due pareri del Consiglio di Stato che si è dimostrato abbastanza critico e che in ultimo ha approvato il dettato con osservazioni.

Il 26 agosto 2010 il supremo consesso amministrativo si è pronunciato sullo schema ed ha precisato che non poteva fornire un parere formale poiché: a) il nuovo regolamento si discostava dal vecchio[69], ma la relazione ministeriale non si faceva carico di illustrare i rapporti tra le due discipline, delle esperienze maturate sotto il vecchio regolamento, nonché dei motivi che aveva indotto il legislatore a discostarsi dalla vecchia disciplina; b) la relazione non aveva speso inoltre parole sulla coerenza normativa tra il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 ed il nuovo strumento.

In via quindi informale il Consiglio di Stato ha precisato che: a) dallo schema di regolamento sembrava evincersi che fossero gli enti a registrarsi e non gli organismi[70], mentre l’art. 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28[71] prevede che l’iscrizione riguardi gli organismi; b) ammesso che possano iscriversi gli enti, andava chiarito se essi dovevano essere nuovi o già costituiti[72]; c) se gli organismi fossero articolazioni dell’ente occorreva stabilire i criteri che li rendessero autonomi formalmente e sostanzialmente[73]: doveva essere questo addirittura il nucleo della disciplina del regolamento; d) se fossero gli organismi ad “entificarsi” bisognava invece stabilire i requisiti strutturali e finanziari minimi.

I requisiti soggettivi dei formatori sono stati considerati inoltre problematici: i requisiti professionali apparivano al supremo consesso amministrativo “talmente specializzati da creare una sorta di riserva per un numero molto ristretto di soggetti“[74].

Il Ministero avrebbe poi dovuto affrontare, sempre a parere del Consiglio di Stato, diverse questioni specifiche: la ventilata compatibilità della funzione di mediatore con quella di pubblico dipendente; la coordinazione del termine di 15 giorni per la fissazione del primo incontro di mediazione della sospensione nel periodo feriale, fermo naturalmente il termine finale di 40 giorni[75]; il fatto che la norma dello schema di regolamento (art. 16 c. 13) non richiedesse l’approvazione delle tabelle degli enti, privati come invece stabilisce l’art. 17 c. 4 lett. b) del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28.

Il Governo in data 12 settembre 2010 ha compiuto un nuovo invio della documentazione normativa (schema di regolamento, relazione illustrativa, relazione AIR[76]) che ha sottoposto al Consiglio di Stato per un nuovo parere.

Il supremo consesso amministrativo ha dunque approvato lo schema in data 20 settembre 2010 “con osservazioni”[77].

In particolare, secondo il C.D.S., anche nella seconda versione dello schema di regolamento non sarebbe stato risolto il nodo del rapporto tra ente costitutivo ed articolazione quando sia questa ultima a divenire organismo (v. però oggi il nuovo testo dell’art. 4 c. 2 lett. d) del nuovo regolamento che sembra venire incontro alle ricevute osservazioni), né quello circa l’approvazione delle tabelle degli enti privati.

Detto ciò e scendendo più in dettaglio il nuovo regolamento[78] assume come proprie[79] le definizioni, recate dal decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, a proposito della figura del mediatore, all’attività di mediazione e di conciliazione; gli art. 38-40 del decreto di riforma societaria[80] al contrario non recavano definizioni di sorta che vennero invece esplicitate nell’attuativo decreto del 23 luglio 2004 n. 222; le difficoltà di definizione legislativa dipesero probabilmente dal fatto che la mediazione in ambito societario non aveva una solida tradizione; in passato[81], infatti, le questioni societarie sono sempre state decise tramite arbitrato; alla prova dei fatti comunque la conciliazione non ha riscosso grande successo, né nella forma preventiva né in quella giudiziale.

La legge delega[82] al punto b), come già accennato, prevede che “la mediazione, finalizzata alla conciliazione, sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione”.

Il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 stabilisce che gli enti pubblici o privati che diano garanzia di serietà ed efficienza sono abilitati a costituire organismi che gestiscono procedure di mediazione e che vanno iscritti nel registro[83].

Sempre il decreto legislativo individua l’organismo nell’ente pubblico o privato presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione[84].

Dal combinato disposto normativo primario sembra dunque evincersi che gli enti pubblici o privati, seri ed efficienti, possono essere abilitati a costituire organismi che possono essere a loro volta enti pubblici o privati, professionali e indipendenti.

Nel decreto 18 ottobre 2010, n. 180 la definizione di organismo si fa più articolata: “L’ente pubblico o privato, ovvero la sua articolazione, presso cui può svolgersi il procedimento di mediazione ai sensi del decreto legislativo”[85]. Non si fa invece più riferimento ad un’organizzazione di mezzi e persone “che, anche in via non esclusiva, è stabilmente destinata all’erogazione del servizio di conciliazione” come previsto dal decreto 222/04[86], e nonostante la legge delega richiedesse in capo agli organismi di conciliazione il requisito della stabilità.

Per ente privato s’intende invece nel nuovo decreto come sostanzialmente nel vecchio: “Qualsiasi soggetto di diritto privato, diverso dalla persona fisica”[87]. Così pure è immutata la definizione di ente pubblico: “La persona giuridica di diritto pubblico interno, comunitario, internazionale o straniero”[88].

L’art. 3 del decreto 18 ottobre 2010, n. 180 prevede che “È istituito il registro degli organismi abilitati a svolgere mediazione”.

La disposizione dell’art. 4 c. 1 del decreto 18 ottobre 2010, n. 180 stabilisce poi che “Nel registro sono iscritti, a domanda, gli organismi di mediazione costituiti da enti pubblici e privati”[89]ed il c. 2 che “Il responsabile verifica la professionalità e l’efficienza dei richiedenti”.

L’art. 4 c. 2 lett. d) decreto 18 ottobre 2010, n. 180 richiede come requisito di professionalità ed efficienza “la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale”.

Possiamo dunque osservare che nel nuovo regolamento non si fa riferimento ad una abilitazione dell’ente costituente, come richiesto dalla lettera del decreto legislativo (art. 16 d.lgs.), ma ad una abilitazione dell’organismo (art. 3 c. 1 reg.).

Per decreto legislativo l’abilitazione viene concessa all’ente in quanto esso sia “serio ed efficiente”.

Il nuovo regolamento invece richiede “professionalità ed efficienza” per abilitare gli organismi.

Il quadro si complica con riferimento agli ordini diversi da quello degli avvocati in quanto sia il decreto legislativo sia il regolamento sembrano concordi nel prevedere un regime più complesso: non vi è una abilitazione perché questi enti sono seri ed efficienti di diritto, ma una preventiva autorizzazione (art. 19 decreto legislativo e art. 4 c. 4 regolamento) alla costituzione ed un’abilitazione dell’organismo che però ha tratti, come vedremo, semplificati.

La legge delega non richiedeva il requisito dell’autorizzazione e quindi potrebbero esserci problemi di compatibilità del decreto e dei suoi strumenti attuativi sul punto.

Il disposto normativo complessivo appare davvero elaborato e parrebbe dare vita a diverse ipotesi di costituzione e registrazione:

a) un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, in quanto serio ed efficiente, è abilitato a costituire un organismo che può essere ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione. Tale organismo necessita di iscrizione al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza”, ossia la presenza di diversi requisiti;

b) un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, in quanto serio ed efficiente, è abilitato ad individuare, rispettando un criterio di trasparenza giuridica ed economica (v. art. 4 c. 2 lett. d) reg.) una sua articolazione interna, che non può che essere un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione. Tale articolazione nelle forme predette, si deve iscrivere al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per “abilitarla” la sua “professionalità ed efficienza” ossia la presenza di diversi requisiti; tale ultima ipotesi sembrerebbe configurabile in particolar modo quando l’articolazione si occupi già in qualche modo della materia.

c) Un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, in quanto serio ed efficiente, si costituisce organismo professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione, e chiede di iscriversi al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza” ossia la presenza di diversi requisiti;

d) un ordine o collegio professionale diverso da quello degli avvocati chiede ed ottiene autorizzazione dal Ministero della Giustizia a costituire un organismo speciale di mediazione, che non può che essere un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione, e tale organismo chiede di iscriversi al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza”, ossia la presenza di requisiti diversi rispetto a quelli degli altri organismi;

d) l’ordine degli avvocati (v. art. 18 del decreto legislativo) costituisce un organismo di mediazione che non può che essere un ente pubblico o privato diverso dalla persona fisica, professionale e indipendente, per svolgere stabilmente l’attività di mediazione, e tale organismo chiede di iscriversi al registro tenuto presso il Ministero, ma il responsabile verifica per abilitarlo e dunque iscriverlo la sua “professionalità ed efficienza”, ossia la presenza di requisiti diversi rispetto a quelli degli altri organismi.

L’iscrizione nel registro ministeriale abbiamo detto che concerne gli organismi di mediazione che si definiscono abilitati[90]; il decreto ministeriale del 23 luglio 2004, n. 222 prevedeva invece che gli organismi dovessero essere autorizzati[91].

Il concetto di abilitazione riguarda, a dire il vero, normalmente le persone[92] ovvero le cose[93]. L’autorizzazione comporta una discrezionalità amministrativa mentre l’abilitazione, che rientra nell’alveo della categoria delle autorizzazioni, s’impernia su una discrezionalità di carattere tecnico, si va cioè a vagliare la sussistenza dei requisiti d’idoneità richiesti dalla legge.

Circa i criteri[94] per l’iscrizione nel registro si prevede intanto che gli organismi costituiti dalle CC.I.AA. e dai consigli dell’ordine possono rivestire anche forma associata, precisazione che pare importante e che in qualche modo contrasta opportunamente il dilagante corporativismo[95].

Tali ultimi organismi sono iscritti su semplice domanda, verificati i requisiti previsti in via generale per i mediatori[96] e la stipulazione di apposita polizza assicurativa[97].

Abbiamo detto che il decreto legislativo sembra prevedere che gli ordini (o collegi), diversi da quello degli avvocati, debbano essere preventivamente autorizzati a costituire organismi peraltro denominati speciali[98].

Il regolamento ripropone il concetto dell’autorizzazione che, se seguiamo il dato letterale della legge e giusto il richiamo operato ad essa dallo stesso regolamento, dovrebbe riguardare appunto gli ordini istitutivi[99]: questa discrezionalità amministrativa preventiva in capo al responsabile del registro, appare curiosa e ci ricorda in qualche modo la legislazione del 1926.

Superato questo primo sbarramento per l’ordine, sarà dunque l’organismo a dovere essere abilitato, giacché tutti gli organismi devono essere abilitati[100].

Quindi il Ministero eserciterà una discrezionalità tecnica e vaglierà in capo agli organismi ordinistici gli elementi succitati: sussistenza della domanda, sottoscrizione della polizza assicurativa e requisiti dei mediatori.

Qualche problema però sembra recare l’articolazione interna, perché essa può ragionevolmente preesistere all’autorizzazione; in tal caso non si può che pensare alla sola abilitazione dell’organismo.

Vi sono poi dei requisiti che riguardano direttamente gli organismi diversi dagli ordini e dalla CC.I.AA. e requisiti inerenti le persone che li compongono: soci, associati, amministratori, rappresentanti e mediatori.

Quanto agli organismi il primo requisito che il responsabile del registro verifica è la “capacità finanziaria e organizzativa” ovvero: 1) che posseggano un capitale di almeno 10.000 euro; in merito all’organizzazione 2) che vi sia attestazione della capacità di svolgimento “dell’attività di mediazione in almeno due regioni italiane o in almeno due province della medesima regione”, anche attraverso le strutture, il personale e dei mediatori di altri organismi con i quali l’organismo “abbia raggiunto a tal fine un accordo, anche per singoli affari di mediazione” [101].

La mediazione inoltre deve essere compatibile con l’oggetto e lo scopo associativo[102].

Gli organismi devono poi stipulare, unitamente a quelli ordinistici e alla CC.I.AA., una polizza assicurativa di importo non inferiore a 500.000 euro[103].

Altri elementi che vengono verificati sono appunto “la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale”[104]; le garanzie di indipendenza, imparzialità e riservatezza nello svolgimento del servizio di mediazione, nonché la conformità del regolamento alla legge e al decreto ministeriale anche per quanto attiene al rapporto giuridico con i mediatori[105].

In ultimo ogni organismo deve possedere un numero dei mediatori non inferiore a cinque, che abbiano dichiarato la disponibilità a svolgere le funzioni di mediazione e la sede dell’organismo[106].

Tutti questi requisiti, all’infuori la sottoscrizione di polizza assicurativa, possono essere oggetto di autocertificazione[107].

Rispetto al decreto del 23 luglio 2004 n. 222 scompare dunque e giustamente la richiesta: a) della esclusività di almeno sette mediatori[108]: la qualcosa non può che essere degna di plauso, b) della destinazione anche in via non esclusiva nel caso di associazione tra professionisti o una società tra avvocati, di almeno due prestatori di lavoro subordinato, con prevalenti compiti di segreteria, in ogni altro caso, l’indicazione nominativa di due persone a svolgere tale ruolo: requisito effettivamente spropositato perlomeno con riferimento agli organismi di nuova costituzione, senza contare che un non mediatore difficilmente potrebbe svolgere al meglio tali compiti.

Si è dissolto parimenti il divieto posto in capo a soci, associati, amministratori, rappresentanti e conciliatori di svolgere compiti di segreteria[109]: peraltro questo divieto irragionevole in sé cozzava concretamente pure contro il disposto dell’art. 8 c.1 del decreto 4 marzo 2010 n. 28 che prevede determinate fondamentali attribuzioni in capo direttamente al responsabile dell’organismo.

Sono poi richiesti[110], al pari del decreto del 23 luglio 2004 n. 222, in capo ai soci, associati, amministratori e rappresentanti degli organismi di mediazione requisiti di onorabilità conformi a quelli fissati dall’articolo 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.

Ai sensi di quest’ultimo decreto i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso SIM[111], società di gestione del risparmio, SICAV[112] (che sono sostanzialmente assimilabili agli istituti di credito) devono possedere i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza stabiliti dal Ministro dell’economia e delle finanze, con regolamento adottato sentite la Banca d’Italia e la CONSOB[113].

Disposizione più che legittima in relazione all’oggetto espresso, ma che poco si attaglia a chi dirige dei mediatori civili e commerciale. Forse il Ministero pensa che il dirigente di un organismo di mediazione sia come il giudice pace cantonale che, in quanto presidente dell’assemblea dei cantoni, maneggiava pubblico denaro: da allora sono però passati due secoli e questa attribuzione è finita se non nel 1805, perlomeno nel 1814.

Fuor di battuta un requisito serio da prevedere potrebbe essere quello di una qualche cognizione del diritto in capo al responsabile dell’organismo, poiché in sede di presentazione della domanda sarebbe opportuno verificare in primo luogo se si è tecnicamente in presenza di un controversia e se tale controversia riguardi o meno diritti disponibili.

Tale requisito in capo al conciliatore non era richiesto nel sistema del 1865 perché non c’era bisogno di verificare la disponibilità dei diritti: il verbale di conciliazione non aveva effetto se non quando avesse ottenuto l’autorizzazione dell’autorità preposta; ma nel nostro decreto legislativo purtroppo non esiste una norma simile ed al contrario il regolamento richiede un invio da parte del giudice del diniego di omologazione, cosa che implica, come tutti possono comprendere, una responsabilità dei mediatori.

Una prescrizione come l’art. 2 c. 2 del C.p.c. del 1865 potrebbe eliminare alla radice il problema; ma, in difetto, se ci fosse un primo autorevole filtro in sede di presentazione della domanda, perlomeno si renderebbe meno gravosa la responsabilità degli operatori della mediazione.

Il responsabile verifica ancora i requisiti di qualificazione dei mediatori, “i quali devono possedere un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero, in alternativa, devono essere iscritti a un ordine o collegio professionale”[114].

L’indicazione circa il collegio professionale e la generica indicazione di “ente pubblio o privato” con riferimento all’organismo[115], fa ritenere lo scrivente che i requisiti prima visti per gli organismi costituiti dagli ordini valgano anche per quelli istituiti dai collegi: sarebbe diversamente bizzarro richiedere come requisito per essere mediatore l’iscrizione ad un collegio che però non possa istituire organismi.

In precedenza il decreto del 23 luglio 2004 n. 222 richiedeva differenti requisiti[116]: la qualifica di professori universitari in discipline economiche o giuridiche, o di professionisti iscritti ad albi professionali nelle medesime materie con anzianità di iscrizione di almeno quindici anni, ovvero di magistrati in quiescenza; in alternativa doveva risultare provato il possesso di una specifica formazione acquisita tramite la partecipazione a corsi di formazione tenuti da enti pubblici, università o enti privati accreditati presso il responsabile della tenuta del registro[117].

I requisiti professionali richiesti dal decreto del 23 luglio 2004 n. 222 costituivano il più lampante riflesso della considerazione della conciliazione in chiave giudiziaria, e apparvero dunque subito assolutamente inadeguati a coloro che si occupavano del settore; ma anche il percorso alternativo di certo non è stato particolarmente qualificante.

Il risultato di tale impostazione comportava comunque che chi, professionista o magistrato o professore universitario, non avesse partecipato a corsi di specifica formazione potesse riscontrare difficoltà a collocarsi negli organismi che peraltro sono presenti sin dal 1993, anche se sino alla riforma societaria non si richiedeva alcuna registrazione presso il Ministero: il che avrebbe dovuto far meditare un poco il legislatore circa la “maturità autoregolamentativa” degli enti di mediazione ed in merito alla quasi inutilità dei percorsi professionali considerati equipollenti alla formazione.

Il nuovo regolamento ha cercato di migliorare l’assetto formativo prevedendo che alla laurea triennale ovvero all’iscrizione ad ordine o collegio, venga aggiunto il possesso di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione.

Il sistema appare oggi dunque più equilibrato, se non fosse che la specifica formazione consiste in un corso “non inferiore” a 50 ore[118].

Se consideriamo la mediazione come parte del sistema giustizia siamo quasi alla burla, giacché un qualsiasi aspirante magistrato esaurisce quel monte ore in tre giorni di uno studio peraltro continuativo e a volte biennale; e svolgere il ruolo del mediatore risulta di certo più complesso rispetto a quello del giudice o del professionista in genere, perché il mediatore non ha, lo ricordo, alcun potere di decisione.

Le materie indicate come oggetto di approfondimento sono certamente maggiormente calibrate[119] rispetto a quelle indicate dal decreto del 24 luglio 2006[120], anche se è stato, chissà perché, eliminato un argomento purtroppo nevralgico secondo gli attuali assetti, ossia “il rapporto con la tutela contenziosa”.

E anche il percorso di aggiornamento costituisce ben misera cosa se si ha riguardo al fatto che richiede un minimo non inferiore a 18 ore biennali[121]: qualsiasi organismo di conciliazione ante riforma ne prevedeva almeno 24.

I tempi di formazione non sono in definitiva proporzionati al necessario approfondimento: non a caso ad esempio in Argentina i legali per divenire mediatori si sono preparati per tre anni e l’istituto ha avuto per tre lustri carattere sperimentale. Ma si possono citare anche le EEPJ che in Spagna sono equiparate alle università per quanto concerne la formazione degli avvocati e dei procuratori e prevedono dei programmi, seppure non obbligatori, che durano dai 12 ai 24 mesi dedicati anche alla “analisi della praticabilità delle eventuali soluzioni sostanziali o processuali della causa giudiziaria, tenendo in considerazione la possibile durata del processo o in alternativa della mediazione…”[122]

Anche i mediatori devono dimostrare il possesso di requisiti di onorabilità, analoghi a quelli dei gerenti l’organismo: non avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva non sospesa[123]; non essere incorsi nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici; non essere stati sottoposti a misure di prevenzione o di sicurezza; non avere riportato sanzioni disciplinari diverse dall’avvertimento[124].

Per i mediatori esperti in campo internazionale che vogliano iscriversi si prevede anche un ulteriore ovvio requisito: quello delle conoscenze linguistiche necessarie.

Nel registro vanno iscritti, infatti, sia con riferimento agli enti privati sia per quelli pubblici, tre categorie di soggetti[125]: mediatori, mediatori esperti nella materia dei rapporti di consumo, mediatori esperti nella materia dei rapporti internazionali; rispetto al passato è stato il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 a richiedere due categorie in più[126].

Il procedimento d’iscrizione inizia con la presentazione della domanda[127] a cui vanno allegati: a) l’elenco dei mediatori che si dichiarano disponibili allo svolgimento del servizio[128], elenco che è corredato dalle singole dichiarazioni di responsabilità dei mediatori[129], dal curriculum sintetico degli stessi[130] dall’attestazione del possesso dei requisiti di onorabilità[131], dalla documentazione comprovante le conoscenze linguistiche necessarie all’iscrizione nell’elenco dei mediatori esperti nella materia internazionale[132]; b) il regolamento di procedura; c) un modello di scheda di valutazione, d) la tabella delle indennità; per gli enti privati, dice il nuovo regolamento “l’iscrizione nel registro comporta l’approvazione delle tariffe”[133].

Quest’ultima prescrizione, peraltro presente anche nell’art. 5 c. 1 del decreto del 23 luglio 2004 n. 222, secondo il Consiglio di Stato non è sufficiente perché il decreto legislativo richiede che la tabella delle indennità degli enti privati sia espressamente approvata.

Il regolamento non reitera peraltro la richiesta del codice etico che pure è fatta dalla legge[134].

Quanto alla scheda di valutazione si è detto che essa suscita delle perplessità.

Il regolamento prevede esattamente che “al termine del procedimento di mediazione, a ogni parte del procedimento viene consegnata idonea scheda per la valutazione del servizio; il modello della scheda dev’essere allegato al regolamento, e copia della stessa, con la sottoscrizione della parte e l’indicazione delle sue generalità, dev’essere trasmessa per via telematica al responsabile, con modalità che assicurano la certezza dell’avvenuto ricevimento”.[135]

La scheda di valutazione non è richiesta dal decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, né dalla leg