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Assunzione personale ex articolo 110, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000:

Evoluzione, presupposti, motivazione, durata
Assunzione personale ex articolo 110
Assunzione personale ex articolo 110

Assunzione personale ex articolo 110, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000


Abstract

In ambito locale, il reclutamento” della dirigenza pubblica, in particolare quella ricompresa nell’articolo 110, comma 1 del decreto legislativo n. 267/2000 (d’ora in avanti Tuel), presenta una forte componente fiduciaria, dove l’individuazione avviene tra soggetti idonei alla funzione senza alcuna verifica dei requisiti per l’accesso alla qualifica (presupposti imprescindibili), quanto la presentazione di una rosa di candidati da sottoporre all’organo politico, sulla base di un c.d., bando pubblico, ai sensi del comma 10 dell’articolo 50 del Tuel.

Benché le designazioni degli organi di vertice delle amministrazioni si configurino come provvedimenti da adottare sulla base di criteri fondamentalmente fiduciari, riconducibili, in quanto espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle amministrazioni stesse, al novero degli atti di alta amministrazione, i provvedimenti di nomina devono contenere a pena di illegittimità le ragioni della nomina tra candidati in possesso di titoli specifici e alla luce di una valutazione complessiva del prescelto. 

Motivazione che deve coordinarsi con l’elevata discrezionalità che sottende alla individuazione del personale che si colloca in una posizione elevata nel quadro organizzativo della Pubblica Amministrazione, al fine di dimostrare la ragionevolezza della scelta effettuata per il buon esito dell’intero procedimento, che non deve limitarsi al mero riscontro dei soli requisiti oggettivi ma, prevenire, per quanto possibile, l’insorgenza di controversie spesso risolte nelle aule dei tribunali con conseguenze onerose per la finanza pubblica e deleterie dal punto di vista dell’efficienza della macchina amministrativa.

Oggi si registra un significativo calo del contenzioso rispetto a un recente passato, segno inequivocabile che listituto ha raggiunto un suo equilibrio.


Sommario

  1. Evoluzione dell’istituto
  2. Presupposti, motivazione, durata
  3. Indicazioni della Corte dei conti


1. Evoluzione dell’istituto

1.1 La dirigenza statale – Cenno

In ambito statale, la prima regolamentazione specifica della dirigenza pubblica si è avuta con l’adozione del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748 con lo scopo di creare un ceto dirigenziale dotato di autonomi poteri propulsivi, di coordinamento, di indirizzo e di gestione” rappresentativo verso i terzi relativamente agli atti di propria competenza, con correlata responsabilità per i risultati negativi del proprio operato, sganciandosi dal modello di rapporto tra organi politici ed amministrativi cristallizzato nel decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3.

In tal modo si poneva rimedio alla situazione previgente contraddistinta dall’accentramento, in capo al ministro, della più gran parte dei poteri decisionali concernenti anche la gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in attuazione del principio di responsabilità ministeriale sancito dall’articolo 95, comma 2 della Costituzione. Da tale situazione discendeva, infatti, una sostanziale deresponsabilizzazione della dirigenza amministrativa, che, di converso, nel disegno del legislatore delegato del 1972 andava rinforzata e svincolata il più possibile dall’ingerenza della classe politica.

Decisamente il decreto del Presidente della Repubblica n. 748 del 1972 ha accresciuto i margini di autonomia del ceto dirigenziale amministrativo rispetto alla classe politica al governo, trasformando il rapporto da relazione organizzata su basi gerarchiche a relazione di direzione, diversificata dalla chiara predeterminazione legislativa delle funzioni spettanti, in via esclusiva, alla dirigenza professionale, i cui provvedimenti assumono, pertanto, carattere definitivo, non essendo più impugnabili in via gerarchica dinanzi all’organo politico posto al vertice del dicastero.

Con tale provvedimento normativo la carriera dirigenziale è sganciata da quella direttiva ed articolata in un ruolo costruito su tre qualifiche funzionali, nell’ordine dirigente generale, dirigente superiore e primo dirigente. I dirigenti generali si distinguevano per un rapporto di stretta collaborazione con il ministro, essendo coinvolti nelle scelte politico-amministrative, i dirigenti superiori ed i primi dirigenti presentavano, di converso, una propria autonomia funzionale dall’autorità politica, assolvendo i primi a mansioni di carattere prevalentemente ispettivo ed i secondi a compiti tipicamente gestionali di uffici o divisioni sprovvisti di rilevanza strategica all’interno dell’amministrazione.

La riforma del 1972, però, non produsse i risultati sperati dal legislatore, non riuscendo nel tentativo né di creare un rapporto nuovo tra politica, in un quadro di rapporti improntati non sulla separazione dei poteri funzionali bensì sullo schema gerarchico, e amministrazione, nuovamente ancorata ad un “cedevole” ruolo, sia della classe politica, né di delineare una nuova figura di dirigente pubblico.

Le ragioni dell’insuccesso possono riassumersi, da un lato, come l’autorità politica (il ministro) abbia saldamente conservato nelle proprie mani il potere di annullamento dei provvedimenti amministrativi dirigenziali ritenuti inficiati sotto il profilo della legittimità, oltre che quelli di revoca, riforma ed addirittura di avocazione del potere di amministrazione attiva; dall’altro, nella palese riluttanza della classe burocratica le cui competenze burocratico-amministrative risultavano estremamente polverizzate tra le tre fasce dirigenziali.

Dal quadro così delineato ne discende, in tal modo, che la dirigenza rimaneva, in concreto, sottoposta all’ingerenza della politica, non beneficiando di una reale autonomia gestionale, con conseguente deresponsabilizzazione in relazione all’attività posta in essere.

Seguirono significative importanti riforme amministrative, attuate con il decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio 1993 e con la quale si è attuata, tra l’altro, la c.d., “prima” privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici. 

Prima ancora che si completasse la fase transitoria della prima privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, furono varati i decreti legislativi nn. 80 e 387 del 1998 (la c.d., “seconda” privatizzazione della dirigenza pubblica).

Infine la legge n. 145 del 2002, modificando profondamente il sistema previgente, ha riscritto la normativa in materia di dirigenza pubblica statale, realizzando una vera “controriforma” della dirigenza statale individuando due obiettivi di base: l'introduzione di maggiore flessibilità e di nuove forme di mobilità, da un lato, la determinazione di un nuovo equilibrio tra politica e amministrazione, dall’altro.


1.2 La dirigenza locale

Negli Enti locali la dirigenza fu introdotta con il decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347, avente il compito di realizzare i progetti e i programmi di sviluppo economico-sociale in conformità degli indirizzi politico-amministrativi formulati dai competenti organi istituzionali, ed erano ritenuti responsabili dell'espletamento delle funzioni loro attribuite nonché del buon andamento e della imparzialità dell'azione degli uffici o delle attività cui sono preposti.

In realtà ad essi non vengono assegnate competenze proprie ed esclusive, ma semplicemente delegate dall’organo politico, che con l’atto di delega individua ruolo e competenza della dirigenza.

Il citato intervento normativo fu il tentativo di introdurre negli Enti locali due profili del personale con qualifica dirigenziale, contraddistinti da esclusive competenze e responsabilità ma, che di fatto, non comportavano innovazioni di tipo sostanziale.

Successivamente la funzione dirigenziale fu ulteriormente riformata con il decreto del Presidente della Repubblica n. 268/1987 e, poi, con il decreto del Presidente della Repubblica n. 333/1990.

Nessuno dei tre decreti citati è riuscito, però, a definire e contestualmente istituire, in maniera compiuta, la figura dirigenziale per arrivare a distinguerla con precisione dalla figura dell’impiegato direttivo, avendo gli stessi, solo provveduto, ad una mera definizione delle competenze, delle funzioni e delle responsabilità.

Con la legge 8 giugno 1990, n. 142, trasfusa poi nel Tuel n. 267/2000, il legislatore, dopo aver preso atto dell’insuccesso del modello posto a fondamento del decreto del Presidente della Repubblica n. 748 del 1972, ha avvertito l’esigenza di una riqualificazione in termini manageriali del ruolo dirigenziale in vista del perseguimento di logiche aziendalistiche di efficienza, efficacia, economicità e buon andamento dell’organizzazione e dell’azione amministrativa.

In tale logica, il provvedimento legislativo aveva, espressamente, previsto, all’articolo 51, che “spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti”, aggiungendo che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell’ente”, oltre che “tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dall’organo politico”, con la conseguenza che i dirigenti erano “direttamente responsabili in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa e dell’efficienza della gestione”.

La citata legge n. 142/1990 mette dunque in risalto la figura del dirigente, assegnandogli un ruolo centrale nella gestione dell’Ente locale passando così da un sistema che vedeva concentrate tutte le competenze in capo agli organi politici, all’affermazione del principio di separazione tra competenze in tema di indirizzo e controllo sull’attuazione degli indirizzi, di competenza degli organi politici, e quelle di attuazione, proprie ed esclusive della dirigenza.

Il “nuovo” dirigente è inserito all’interno di un rinnovato contesto organizzativo orientato alla cosiddetta aziendalizzazione dell’Ente locale ovvero alla cultura del risultato più che a quella della procedimentalizzazione dell’attività amministrativa, che tiene in debito conto i principi amministrativi di efficienza, efficacia ed economicità nell'erogazione di servizi offerti ai cittadini e alle imprese.

Svolgono un’opera di raccordo fra la funzione di governo e la funzione amministrativa e rappresentano il primo grado di attuazione dell’indirizzo politico nel campo amministrativo; essi costituiscono manifestazioni d’impulso all’adozione di atti amministrativi, funzionali all’attuazione dei fini della legge e sono pacificamente ritenuti soggetti al regime giuridico dei provvedimenti amministrativi che vede l’applicazione, in primo luogo, degli articoli 24, 97 e 113 della Costituzione, non potendo soffrire alcun vuoto di tutela giurisdizionale. 

Successivamente viene varato il Tuel n. 267/2000, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, il quale conferma il ruolo primario del dirigente nell’Ente locale secondo il quadro delineato dal legislatore con l’emanazione della legge n. 142/1990. 

L’ordinamento rappresenta in questo modo la figura del dirigente-manager, la cui azione è rivolta, più che al rispetto della legittimità, alla cultura del risultato, strettamente connessa al conseguimento degli obiettivi stabiliti dall’Ente locale.

Tale bipartizione, indirizzo e controllo da un lato e gestione amministrativa dall’altra, consente il superamento nell’ente locale del c.d., modello gerarchico, a tutto beneficio del modello direzionale, dove il dirigente sceglie il percorso amministrativo ritenuto più idoneo al raggiungimento degli obiettivi che gli sono stati assegnati con il piano esecutivo di gestione, previsto dall'articolo 169 del Tuel n. 267/2000.

Divisioni delle competenze politico amministrative e gestionali, a volte più formali che sostanziali, vista la frequente preminenza della politica sulla gestione; fatto che spesso è fonte di conflitto tra amministratori locali e dirigenti, a tutto detrimento dell'efficacia dell’azione amministrativa nel suo complesso che sovente produce diseconomie e disagi nei confronti del sistema delle imprese e dei cittadini.

La riforma “Brunetta” (decreto legislativo n. 150/2009), ha riconfermato l’abbandono del modello del ruolo unico, decretando una vera e propria responsabilità dei dirigenti in merito all’attribuzione dei trattamenti economici accessori in quanto ad essi compete la valutazione della performance individuale dei sottoposti e ha previsto nuove procedure per l’accesso all’incarico.Tuttavia la riforma “Madia”, avvenuta con legge delega n. 124/2015, ha ripristinato il modello del ruolo unico che, nell’intento di riorganizzare ulteriormente la disciplina, ha previsto una delega al Governo, inducendolo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia. L’articolo 11 della legge ripristina il ruolo unico della dirigenza statale, regionale e degli Enti Locali.

In attuazione dei principi contenuti nella legge delega, il Consiglio dei Ministri ha approvato uno schema di decreto legislativo recante “Disciplina della dirigenza pubblica della Repubblica” che non è mai entrato in vigore, in quanto nel frattempo è intervenuta la Consulta con la sentenza n. 251 del 2016, dichiarando incostituzionale, tra gli altri, anche l’articolo 11 della legge Madia, nella parte in cui, nel disciplinare la dirigenza regionale, prevedeva solo il parere, e non l’intesa, con le Regioni. Di conseguenza la delega legislativa è scaduta e la riforma della dirigenza è naufragata.

Oggi negli Enti locali i dirigenti sono inquadrati in un ruolo unico, fatto che supera la precedente distinzione delle figure dirigenziali articolate in due livelli e consente una gestione più fluida, una maggiore dinamicità nella gestione di tali risorse umane, potendo comunque lEnte locale graduare il peso di ogni funzione dirigenziale a seconda della complessità dell'incarico dirigenziale assegnato.


2. Presupposti, motivazione, durata

La procedura di cui allarticolo 110 del Tuel n. 267/2000 è meramente idoneativa, caratterizzata da incarico a contratto di natura temporanea, temporalmente legata al mandato elettivo del Sindaco o del Presidente della Provincia, automatica risoluzione in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie, possibilità di formalizzare in via eccezionale contratti “di diritto privato”, mancata previsione della nomina di una commissione giudicatrice, non necessario svolgimento di prove e formazione di graduatorie. Elementi che “contribuiscono ad evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specificità e fiduciari età che caratterizza la procedura in questione, che, per tali motivi, deve ritenersi selettiva ma non concorsuale”.

Ma cosa s’intende per concorso?

Il Consiglio di Stato (Sezione quinta, sentenza n. 5298 del 10 settembre 2018) ha fornito la seguente definizione di un “concorso”: “una procedura preordinata alla selezione concorrenziale nellambito di una platea indeterminata di potenziali candidati, mediante il programmatico svolgimento di prove rimesse allapprezzamento comparativo di apposita commissione giudicatrice, destinato alla trasfusione in apposita graduatoria, inclusiva dei soggetti ritenuti idonei e di quelli dichiarati vincitori”; in particolare, nellalveo delle procedure “selettive” rientrano tanto il “concorso pubblico” vecchio stampo quanto le procedure “idoneative” che, indipendentemente dalla prefigurazione e dall'esperimento di apposite procedure si caratterizzano per la valutazione meramente fiduciaria dei candidati, con esclusione della formazione di una definitiva graduatoria di merito, che secondo il Consiglio di stato rappresenta “il vero e proprio elemento scriminante tra luna e laltra vicenda”.

Una distinzione indispensabile per decidere sul riparto della giurisdizione, conferita al giudice amministrativo solo per le procedure propriamente concorsuali, in cui la posizione soggettiva di ciascuno dei candidati assume la consistenza dell’interesse legittimo.

Lungi dal consistere in una scelta meramente intuitu personae, è stata definita dai giudici di palazzo Spada (Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza del 29.5.2017), come procedura avente natura non concorsuale, ma comunque di tipo selettivo: L’articolo 110, comma 1, del Tuel n. 267/2000,  regolante la procedura, prevede che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato, previa selezione pubblica volta ad. accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico”.

Per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima partecipazione e selezione effettiva dei candidati, la procedura in questione non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente delle “procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”.

Può avvenire mediante contratto a tempo determinato previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dellincarico.

Si riporta di seguito un passaggio nodale della sentenza esaminata, che circoscrive i contorni della “selezione”:

“(…) Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame, ritenersi quella prevista all’art. 110 del Tuel n. 267/2000, per la copertura, autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di “posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione”: la natura di mero “incarico a contratto”; la natura necessariamente temporanea dello stesso; il collegamento temporale ne ultra quem al “mandato elettivo del Sindaco o del Presidente della provincia”; l’automatica risoluzione anticipata in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie; la possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di contratto propriamente “di diritto privato”; la mancata previsione della nomina di una commissione giudicatrice, del necessario svolgimento di prove e della connessa formazione di formali graduatorie, concorrono ad evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà che caratterizza la procedura in questione, che – per tal via – deve ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non concorsuale (…)”.

In base all'articolo 63, comma 4, del Testo Unico sul Pubblico Impiego (TUPI), approvato con decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nellambito del pubblico impiego “privatizzato solo queste procedure radicano la giurisdizione amministrativa. Viceversa la procedura selettiva di cui all’articolo 110, comma 1, del Tuel n. 267/2000 non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove di finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le altre) attraverso criteri predeterminati, attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi.

Tale procedura è invece finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dallesterno dellincarico dirigenziale. Di ciò si trae conferma dagli atti di conferimento dellincarico a favore del controinteressato nei quali non compare alcuna graduatoria, ma solo un giudizio finale di maggiore idoneità del candidato selezionato dallAmministrazione. Del resto, anche il Tribunale amministrativo ha rilevato questa circostanza, laddove ha affermato che la procedura selettiva prevista dallarticolo 110 del Tuel n. 267/2000 non può essere identificata in una vera e propria procedura concorsuale”, ma ha tuttavia ritenuto la propria giurisdizione in base allassunto che essa si contraddistingue per una valutazione di tipo comparativo e procedimentalizzata.

Ciò non è tuttavia sufficiente a radicare la giurisdizione amministrativa in una materia, quella del pubblico impiego privatizzato, in cui vige una generale giurisdizione del giudice ordinario, salvo le materie specificamente ad esso sottratte dal testo unico sul pubblico impiego. E tra queste materie vi è appunto quella del concorso pubblico, con le sue peculiari caratteristiche sopra descritte, in assenza delle quali si deve applicare la regola generale della giurisdizione ordinaria.

Per i giudici ermellini è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dallimpugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema lindividuazione del soggetto cui conferire lincarico invece costituisce lesito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette allamministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi (da ultimo: Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza 8 giugno 2016, n. 11711, 30 settembre 2014, n. 20571).

In particolare, in base a questo indirizzo giurisprudenziale le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicanti lassunzione a termine di soggetti esterni, sono di pertinenza del giudice ordinario, in applicazione dellarticolo 63, comma 1, del decreto legislativo n. 165/2001 e ss.mm.ii., mentre esulano dalla nozione di procedure concorsuali per lassunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni prevista dal citato comma 4 della medesima disposizione. Pertanto, solo laddove la selezione si manifesti nelle forme tipiche del concorso vengono in rilievo, in base alla scelta del legislatore, posizioni di interesse legittimo contrapposte alle superiori scelte di interesse pubblico dellamministrazione, espresse attraverso forme procedimentalizzate ed una motivazione finale ritraibile dai criteri di valutazione dei titoli e delle prove e dalla relativa graduatoria.

Quando invece la selezione, pur aperta, non si esprima in queste forme tipiche, la stessa mantiene i connotati della scelta fiduciaria, attinente al potere privatistico dellamministrazione pubblica in materia di personale dipendente. Per completezza, va ricordato che le stesse Sezioni unite della Cassazione attribuiscono invece nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie nelle quali, pur chiedendosi la rimozione del provvedimento di conferimento di un incarico dirigenziale (e del relativo contratto di lavoro), previa disapplicazione degli atti presupposti, la contestazione operata dal ricorrente investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo che si assume non essere conforme a legge, perché non lo sono a loro volta gli atti di macro-organizzazione mediante i quali le amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici e i modi di conferimento della titolarità degli stessi (Cass., SS.UU., 27 febbraio 2017, n. 4881; Cons. Stato, Sez. V, 27/3/2017, n. 1367 e 12/5/2016, n. 1888).

In subiecta materia è intervenuta la sezione giurisdizionale del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana del 16 marzo 2020, n. 171, la quale ha confermato l’orientamento che affida al giudice ordinario le controversie per il conferimento di incarichi di natura direttiva “avendo l’articolo 63 del decreto legislativo n. 165/2001 e ss.mm.ii., espressamente attribuito alla giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie in tema di conferimento e revoca di incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni”, dovendosi considerare tali atti “come mere determinazioni negoziali e non più atti di alta amministrazione, venendo in tal caso in considerazione come atti di gestione del rapporto di lavoro rispetto ai quali l’amministrazione stessa opera con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.

In conclusione, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario il potere di verificare della legittimità degli atti di individuazione della dirigenza mediante i meccanismi di individuazione sopra indicati, qualora, appunto, il giudizio verta direttamente su pretese attinenti al rapporto di lavoro e riguardi posizioni di diritto soggettivo del lavoratore in relazione alle quali i suddetti provvedimenti costituiscono solamente atti presupposti: si tratta di modalità non di accesso al posto ma di verifica dell’idoneità che presuppone il possesso della qualifica, e non determina una graduatoria tra coloro che presentano i requisiti. Fattispecie decisamente diversa da quella annoverata al comma 4 dell’articolo 63 del decreto legislativo n. 165/2001 con riguardo alle procedure concorsuali per l’assunzione, ove si collocano tra l’altro gli atti di macro-organizzazione, nel cui perimetro possono essere ricondotte, tra l’altro, le determinazioni attinenti alle linee fondamentali di organizzazione degli uffici e alle dotazioni organiche complessive.

In questo senso, il quid decisum esclude che “le selezioni pubbliche per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, ex articolo 110, comma 1 del Tuel n. 267/2000  possa avere il carattere concorsuale di assunzione di cui all’articolo 63, comma 4, del decreto legislativo n. 165/2001, poiché, solo in tal caso, verrebbe a radicarsi la giurisdizione amministrativa.
A sostenere il pronunciamento della distinzione tra concorso pubblico e selezione pubblica secondo gli insegnamenti offerti dal Consiglio di Stato, dove per un caso analogo è stato ribadito che tale procedura selettivanon consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le altre) attraverso criteri predeterminati, attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi, essendo piuttosto finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall’esterno dell’incarico dirigenziale”.

Resta,  comunque, ferma ed imprescindibile l’esigenza di operare scelte discrezionali ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili e, di conseguenza, l’opportunità che le Amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l’affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi. Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso. Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza della Corte Costituzionale (Sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 e n. 161/2008) che ha espresso un chiaro orientamento volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di fiducia”  e dunque la possibilità di un’interpretazione della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’Ente cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una procedimentalizzazione dell’iter da seguire.

In dipendenza di ciò, si può dedurre che nell’impiego pubblico il conferimento di posizioni organizzative o dirigenziali esula dall’ambito delle procedure concorsuali, di cui all’articolo 63 comma 4, del decreto legislativo n. 165/2001, in quanto il posto da ricoprire non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato (né un mutamento di area), ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell’incarico.

Lo status di dirigente pubblico esprime, in questi termini, l’idoneità professionale del dipendente a svolgere mansioni implicanti un certo grado di responsabilità, e non il diritto soggettivo a mantenere o conservare un determinato incarico, sicché si può giustificare anche su questo profilo il contratto a termine che assegna la funzione ad tempus, con conseguente devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l’affidamento del contratto.


2.1 Articolo 110, commi 1 e 2. Differenze

L’art. 110 del Tuel n. 267/2000, al primo comma, dispone che “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato”: detta disposizione riguarda la copertura di posti previsti dalle dotazioni organiche.

Il comma 2, concerne, invece, la stipula, al di fuori della dotazione organica, di contratti a tempo determinato per funzionari dell’area direttiva e le alte specializzazioni, rimettendo al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi la previsione dei limiti, dei criteri e delle modalità con cui possono essere stipulati detti contratti; in particolare, detto comma specifica che per gli enti in cui non è prevista la dirigenza, “il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire.”

L'assunzione ai sensi del comma 1 del decreto legislativo n. 267/2000 è, a tutti gli effetti, sostitutiva di un’assunzione a tempo indeterminato, quindi per un posto “di ruolo”, cioè per una posizione che l’amministrazione ritiene strettamente necessaria per la conduzione degli ordinari servizi dell’ente. Di conseguenza i dirigenti/responsabili a tempo determinato delle strutture di massima dimensione dell’organigramma dell’ente non possono che essere assunti ai sensi del comma 1.

Recentemente il TAR Campania (Napoli, sez. II, nella sentenza 13 dicembre 2021, n. 7979) ha  evidenziato che la differenza tra il comma 1 e il comma 2 del medesimo articolo riguarda, dunque, la circostanza che ai sensi del comma 2 possono essere stipulati contratti a tempo determinato al di fuori della dotazione organica, purché in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’ente. I giudici hanno, altresì, rimarcato il carattere eccezionale dell’istituto in esame rispetto alle ordinarie modalità di reclutamento del personale della Pubblica Amministrazione, ribadendo il principio in base al quale gli incarichi esterni devono far fronte a esigenze eccezionali e temporanee, che non possono in alcun modo coprire i fabbisogni ordinari e le esigenze di carattere duraturo, cui gli enti sono tenuti a dare risposta attraverso la programmazione triennale del fabbisogno del personale, o attraverso la riqualificazione professionale del personale interno, secondo il noto principio di autosufficienza organizzativa”.

Non è superfluo osservare che per molte amministrazioni locali la differenza che intercorre tra il comma 1 e il comma 2 dell'articolo 110 non è chiara; col risultato di considerare le due distinte tipologie di incarico come equivalenti tra loro.

Giova, in tal senso, citare  la Cassazione Sezione Lavoro, che con sentenza 26 gennaio 2015, n. 849 ha spiegato come gli incarichi regolati dal comma 1 riguardano “funzioni stabili dell’ente, previste nell'organigramma e nel funzionigramma”; mentre gli incarichi regolati dal comma 2 riguardano, invece, “esigenze gestionali straordinarie, che giustificano la necessità di affidare temporaneamente funzioni, anche dirigenziali, oltre la previsione della pianta organica”.

Le due fattispecie, quindi, non sono affatto equivalenti. Il comma 1 consente di coprire (purché ricorrano tutti gli altri presupposti indicati anche dall’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165/2001 e ss.mm.ii.) il vertice di una struttura organizzativa stabile, che svolga ordinariamente le funzioni specifiche dell’ente. Il comma 2, viceversa, permette di creare strutture organizzative temporanee, non connesse alle ordinarie funzioni, e di conseguenza di preporre un dirigente o responsabile di servizio ulteriore (nei limiti percentuali previsti) rispetto a quelli indicati dai fabbisogni.

Ad esempio, con l'articolo 110, comma 2, del Tuel n. 267/2000 non è legittimo assegnare incarichi come quello di responsabile degli uffici finanziari, oppure di comandante del corpo di polizia municipale o, ancora, di vertice di uffici tecnici competenti in tema di urbanistica, lavori pubblici o ambiente.

In conlcusione, l'articolo 110, comma 2, può essere evocato solo laddove l’ente possa gestire funzioni non tipiche e temporanee: un esempio potrebbe essere la direzione di una struttura gestionale chiamata a svolgere funzioni connesse ad un progetto finanziato dai Fondi strutturali Ue o da norme speciali (Finanziamenti Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, giusto per citare un esempio di calzante attualità) chiamato a cogliere specifici risultati e ad essere chiuso, una volta concluse e rendicontate le attività.


3. Indicazioni della Corte dei Conti

Anche la Magistratura contabile ha avuto modo di pronunciarsi sul tema degli incarichi dirigenziali a contratto di cui si sta trattando in questa sede.

Secondo la Corte dei conti le Amministrazioni, quando procedono con l’affidamento di tali incarichi, non sono libere nella scelta ma devono darsi dei rigorosi e predeterminati criteri per l’individuazione del candidato idoneo. In particolare gli Enti, nel redigere i relativi avvisi pubblici, sono tenuti a specificare i criteri di conferimento in modo più idoneo ad una adeguata selezione della professionalità, nonché ad operare scelte discrezionali ancorate a parametri quanto più possibile oggettivi e riscontrabili a tutela non solo delle aspettative degli aspiranti all’incarico, ma anche a garanzia dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento.

L’atto di conferimento riveste natura duale privata e pubblica allo stesso tempo, essendo da un lato la promanazione dei poteri privatistici che anche la P.A. può e deve esercitare come datore di lavoro e dall’altro per la natura pubblica del soggetto nominante, cui è necessariamente demandata la cura del “pubblico interesse”.

Particolare rilevanza deve poi assumere la motivazione del provvedimento di conferimento dell’incarico a contratto mediante l’indicazione degli elementi di valutazione e comparazione adottati dall’amministrazione. Il caso di conferimento di incarichi senza avere preventivamente fissato i criteri per la selezione e valutazione dei curricula dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità ma effettuando tale scelta sulla base di una valutazione personale ampiamente discrezionale è illegittimo ed espone gli Amministratori a responsabilità erariale per colpa grave.

Nella quantificazione del danno erariale occorre, quindi, tener conto dei vantaggi ottenuti dall’Amministrazione in conseguenza degli incarichi illegittimi e delle retribuzioni che in ogni caso il Comune avrebbe dovuto erogare in favore del funzionario destinato a svolgere quelle mansioni.

Nell’individuazione dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi dell’articolo 110 del Tuel n. 267/2000 sono, inoltre, insuperabili i fondamentali canoni di legittimità, imparzialità e buon andamento, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le Amministrazioni assumano la relativa determinazione con trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni meramente soggettive, ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze oggettive.