La revoca dell’assessore comunale quale atto di alta amministrazione

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Ph. Sara Caliolo / colori vivaci

La revoca dell’assessore comunale quale atto di alta amministrazione

Abstract

In linea con il consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa[1] il Tar Calabria, con sentenza n. 6 del 3 gennaio 2025, ha confermato il principio di diritto a tenore del quale l'atto di nomina e revoca di un assessore comunale da parte del sindaco non è un atto politico, ma si eleva ad atto di alta amministrazione, in considerazione del fatto che esso non costituisce espressione della libertà politica commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie e indivisibili a questo inerenti, né risulta connotato comunque da libertà nei fini, risultando piuttosto ben sottoposto alle prescrizioni di legge ed eventualmente degli statuti e dei regolamenti.

 

I caratteri dell’atto politico

Prima degli anni ’90 non esisteva nel nostro ordinamento una legislazione di carattere generale che prevedesse l’obbligo di motivare l’atto amministrativo.

La necessità di rendere conoscibile il percorso logico-motivazionale-giuridico che aveva indotto la Pubblica amministrazione ad assumere le proprie decisioni era fortemente avvertito da dottrina e giurisprudenza, le quali, consapevoli della inutilità dei c.d. “ricorsi privi di censure sostanziali” avverso le determinazioni finali delle pubbliche Amministrazioni, avevano tentato di elevare il principio di motivazione a regola di carattere generale dell’ordinamento.

Per porre rimedio a ciò, fu emanata la legge 7 agosto 1990, n. 241 il cui articolo 3 prevede che “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, con l’indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, con esclusione degli atti normativi e degli atti a contenuto generale.

Tutti gli atti amministrativi devono, pertanto, indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche a base dell’atto stesso, sulla base delle risultanze dell’istruttoria.

Riguardo la natura dell’atto politico è, quindi, importante una sua definizione, vista l’insindacabilità dello stesso.

Secondo l’art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo, approvato con decreto legislativo n. 104 del 2010 “non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.

Da ciò si evince che l’atto politico, anche se formalmente amministrativo in quanto emanato da un’autorità amministrativa nell’esercizio della sua attività di indirizzo politico e programmatico, scegliendo i fini da perseguire per la tutela al massimo livello della cosa pubblica, al fine di garantire il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato e preservare l’indipendenza e l’autonomia degli organi politico-costituzionali da eventuali indebite ingerenze dei giudici, è caratterizzato dall’insindacabilità giurisdizionale del giudice amministrativo, non è suscettibile di motivazione ed è sottoposto solo a un controllo politico.

La peculiarietà dell’atto politico risiede nel fatto che l’organo emanante, espressione del potere politico, è libero nel fine ed esercita una discrezionalità piena (ciò avviene con l’emanazione di direttive di carattere generale che difficilmente ledono i diritti dei terzi), essendo democraticamente legittimato a individuare gli obiettivi, i progetti e i programmi che gli organi tecnici dovranno successivamente poi perseguire.

La ratio legis sottesa risiede nella necessità di preservare il potere esecutivo dalle ingerenze del potere giudiziario, in considerazione che l’atto politico, quale espressione della funzione di indirizzo politico dello Stato, afferisce a questioni di carattere generale, con ciò non possedendo, a differenza degli altri atti amministrativi, una immediata e diretta capacità lesiva nei confronti delle sfere soggettive individuali.
 

Atti di alta amministrazione

Gli atti di alta amministrazione costituiscono una particolare specie del più ampio genere degli atti amministrativi e soggiacciono, sul piano sostanziale, alla disciplina prevista dalla legge n. 241/1990, relativo al regime giuridico del provvedimento amministrativo e al rispettivo procedimento di formazione, ivi compreso il sindacato giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi, escluso ogni sindacato sul merito dell’atto.

Gli atti di alta amministrazione, adottati per la designazione degli organi di vertice delle amministrazioni sulla base di criteri prevalentemente fiduciari, si caratterizzano per una maggiore discrezionalità amministrativa e l’impronta fiduciaria che li distingue.

Ciò non toglie, però, che essi siano vincolati al perseguimento di un particolare interesse pubblico individuato dalla legge e che quindi siano sindacabili dal giudice amministrativo; controllo meno penetrante rispetto a quello esercitato nei confronti di qualsiasi atto amministrativo e limitato alla sola individuazione di manifeste illogicità formali e procedurali[2].

La giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 27.07.2011, n. 4502 cit.) spiega che “l’atto di alta amministrazione, di regola adottato dall’organo politico, è il primo momento attuativo, anche se per linee generali, dell’indirizzo politico a livello amministrativo. A differenza dell’atto politico, esso esprime una potestas vincolata nel fine e soggetta al principio di legalità. Gli atti di alta amministrazione sono una species del più ampio genus degli atti amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi. Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e procedurali. La stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intenso ed incisivo”.

Nello specifico, l’attività di alta amministrazione non è altro che “l’anello di congiunzione tra gli indirizzi espressi a livello politico e i provvedimenti di amministrazione attiva”, e si connota per la sua funzione propedeutica alla successiva attività degli uffici dell’Ente, strumentale all’attuazione di quegli indirizzi programmatici propri del potere politico e che vengono poi meglio esplicitati e focalizzati proprio grazie all’atto di alta amministrazione.

 

La revoca degli assessori comunali

Il riferimento normativo è l’art. 46, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 il quale dispone che “Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio”.

Dal testo si evince incontrovertibilmente che la revoca di un assessore deve (obbligo) essere motivata (non è richiesta una particolare motivazione che potrà essere analitica e meno incisiva), e può fondarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità di natura politico-amministrativa che hanno fatto venir meno il rapporto di piena fiducia tra assessore e sindaco[3].

E’ ius receptum che l’atto di revoca dell’assessore comunale è un atto di alta amministrazione e non un atto politico, con suo conseguente assoggettamento al sindacato del Giudice amministrativo e all’obbligo di motivazione.

È peraltro da ritenere che, sempre in conformità con consolidata giurisprudenza, la revoca degli assessori comunali rientri nella piena scelta discrezionale del Sindaco, caratterizzandosi per il rapporto di fiducia fra il Sindaco medesimo e le persone degli assessori, destinati a collaborare con lui nell’amministrazione dell’ente locale anche come delegati, preposti ai vari assessorati.

Pur non avendo natura politica, in quanto sottoposto alle prescrizioni di legge ed eventualmente degli statuti e dei regolamenti, la valutazione degli interessi coinvolti nella revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al Sindaco[4].

Spetta in particolare al Sindaco l’incombenza di valutare la sussistenza di esigenze di carattere generale, che investano anche i rapporti tra le forze politiche, quelle relative all’efficienza dell’azione amministrativa e, non ultime, quelle che investono l’indebolimento del rapporto fiduciario tra il vertice dell’amministrazione e uno degli assessori.

Tuttavia, in fase di scrutinio giudiziale dell’atto di esercizio della discrezionalità del Sindaco, il Giudice amministrativo non può spingersi oltre un controllo estrinseco e formale, né può tanto meno sindacare le ragioni di opportunità politico-amministrativa.

Non si tratta, infatti, di un tipico provvedimento sanzionatorio bensì della revoca di un incarico fiduciario (cfr. Cons. St., Sez. V, n. 209/2007; n. 803/2012).

Da tale presupposto consegue che la revoca degli assessori non può essere assoggettata alle regole sostanziali e procedimentali che caratterizzano la generalità degli atti amministrativi; in particolare, non devono essere soddisfatti requisiti particolarmente severi e analitici nella motivazione dell’atto: il provvedimento di revoca dell’incarico di un singolo assessore può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa rimesse in via esclusiva al sindaco, e segnatamente anche su ragioni afferenti ai rapporti politici all’interno della maggioranza consiliare e sulle sue ripercussioni sul rapporto fiduciario che deve sempre permanere tra il capo dell’amministrazione e il singolo assessore. (si veda TAR Piemonte, sez. II, n. 743/2021).

Per quanto ampia possa presentarsi negli atti in esame la discrezionalità amministrativa, quest’ultima rimane sempre vincolata dal necessario perseguimento delle finalità pubbliche e dal fondamento sostanziale del potere amministrativo consistente nell’impossibilità di utilizzare lo stesso per fini diversi da quelli che ne giustificano l’attribuzione.

Per questo, è ben sindacabile, rispetto a tali tipologie di atti, il vizio di eccesso di potere “nelle particolari figure sintomatiche dell’inadeguatezza del procedimento istruttorio, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà, irragionevolezza della scelta adottata o mancanza di motivazione”, ma il sindacato giurisdizionale rimane precluso rispetto alle (ben diverse) ipotesi di “diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero [di sostituzione de] la volontà dell’organo giudicante [...] a quella dell’Amministrazione, così esercitando una giurisdizione di merito in situazioni che avrebbero potuto dare ingresso soltanto a una giurisdizione di legittimità (dunque, all’esercizio di poteri cognitivi e non anche esecutivi) o esclusiva o che comunque ad essa non avrebbero potuto dare ingresso”[5].

Con la recentissima sentenza[6] i giudici di prime cure, aderendo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, pronunciandosi sulla legittimità o meno della revoca della carica di Assessore comunale, hanno espresso il principio di diritto secondo il quale “è immune da vizi il decreto sindacale di revoca di un assessore comunale basato sul disinteresse alla vita politico-amministrativa manifestato durante il suo mandato assessorile ovvero sul disinteresse concretizzatosi nella scarsa partecipazione alla programmazione e alle attività e finalizzate al raggiungimento degli obiettivi fissati nel programma elettorale”.

In sostanza la sentenza in commento ha ribadito la legittimità – in quanto recante una motivazione lineare, logica e del tutto ragionevole, in merito all’avvenuta compromissione della coesione necessaria a perseguire il programma di mandato – del decreto del Sindaco di revoca dell’incarico di assessore, ove il fondamento logico-giuridico della determinazione sindacale consista nella esplicita enunciazione delle ragioni determinanti l’incrinatura del rapporto di fiducia sotteso al conferimento del mandato assessorile.

Il Sindaco ha espressamente dato atto del “disinteresse alla vita politico-amministrativa” manifestato dall’amministratore interessato durante il suo mandato; disinteresse concretizzatosi, in particolare, nella scarsa partecipazione alla programmazione ed alle attività poste in essere e finalizzate al raggiungimento degli obiettivi fissati nel programma elettorale. E ciò a più forte ragione, nel caso in cui, nel provvedimento sindacale risulti altresì evidenziata la valenza “particolarmente significativa” di tale assenza alla luce delle numerose, e assai importati, deleghe conferite all’interessato, afferenti a funzioni amministrative di primaria importanza per l’ordinario funzionamento dell’Ente.

Il Collegio ha richiamato, a sostegno della tesi, l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “l’atto di nomina e revoca di un assessore comunale da parte del sindaco configura non un atto <politico> bensì di “alta amministrazione”, in considerazione del fatto che “esso non costituisce espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti” né risulta connotato comunque da libertà nei fini, risultando piuttosto ben “sottoposto alle prescrizioni di legge ed eventualmente degli statuti e dei regolamenti”.

Rientrano invero tra gli atti di alta amministrazione quelli aventi ad oggetto la nomina di organi di vertice di amministrazioni e enti pubblici, rispetto a cui ben “sono configurabili posizioni giuridiche soggettive per la tutela delle quali è ammesso il diritto di azione”.

Quanto al perimetro del sindacato giurisdizionale sugli atti di alta amministrazione, per pacifica giurisprudenza, tali atti sono “una species del più ampio genus degli atti amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi. Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma si appalesa meno inteso e circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e sostanziali. La stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intenso ed incisivo”.

In ordine, poi, alle condizioni necessarie per l’esercizio del potere di revoca dell’assessore comunale, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che “La nomina e la revoca degli assessori comunali dipende esclusivamente dall’esistenza di un rapporto fiduciario con il Sindaco, divenuto, dopo la riforma elettorale che ha riguardato gli Enti locali, soggetto titolare di una sorta di primazia nell’ambito dell’Ente che rappresenta, ragion per cui la revoca può senz’altro sorreggersi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico amministrativa rimesse in via esclusiva al Sindaco, che può valorizzare sia esigenze di carattere generale – quali, ad esempio, rapporti con l’opposizione o relazioni interne alla maggioranza consiliare – sia particolari necessità di maggiore operosità ed efficienza in specifici settori dell’amministrazione, ovvero l’affievolirsi del rapporto fiduciario, senza che occorra specificare i singoli comportamenti addebitati all’interessato, mentre è sufficiente che le motivazioni di opportunità politica poste alla base della scelta si rivelino immuni da irragionevolezza” (TAR Calabria, Sez. I, n. 2202/2021).
 

Conclusioni

La distinzione tra atto politico e di alta amministrazione non è sempre così chiara e netta, in quanto nella pratica non mancano atti di alta amministrazione spesso connotati da generalità (e quindi non immediatamente lesivi dei diritti e degli interessi dei singoli cittadini); come altrettanto spesso ci si trova di fronte ad atti di alta amministrazione idonei a incidere direttamente sulla sfera dei singoli (ad esempio, atti di nomina e revoca di alcune cariche).

Potrebbe applicarsi un criterio distintivo oggettivo, basato sulla diversa natura degli interessi curati dai due atti; mentre infatti l’atto politico realizza una sintesi di tutti gli interessi della collettività (trascendendo la gestione di settori determinati della pubblica Amministrazione, e prescindendo dalla scelta di determinati soggetti), l’atto di alta amministrazione è caratterizzato dalla settorialità degli interessi presi in considerazione dall’organo preposto al coordinamento, la cui attività è vincolata nel fine e soggetta al principio di legalità.

Il criterio è comunque spesso inidoneo a consentire una corretta distinzione, in particolare per quegli atti di alta amministrazione dal contenuto estremamente sfumato e generico.

Nel caso di revoca di un assessore comunale l’inquadramento dell’atto sindacale, in considerazione dell’alto contenuto discrezionale che caratterizza le valutazioni di opportunità e libertà di scelta nella nomina dei componenti della giunta comunale, a causa del rapporto fiduciario che si instaura tra gli assessori e il sindaco, rende semplice l’inquadramento dell’atto di nomina dell’organo di giunta tra quelli di alta amministrazione.

Si tratta quindi di un atto non svincolato dal raggiungimento di obiettivi predeterminati con l’eventuale sottoposizione al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo sotto il profilo dell’osservanza delle disposizioni che attribuiscono il relativo potere al sindaco e quindi con riferimento ai canoni della ragionevolezza, coerenza ed adeguatezza della motivazione.

 

[1] Ex multis, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 8449 del 20/12/2021

[2] Cons. St., sez. V, 27.07.2011, n. 4502

[3] cfr. Consiglio di Stato, Sezione Prima, Parere n. 3161 del 2019

[4] Tar Lazio, sezione II, sentenza n. 11143 del 10/08/2022

[5] Tar Puglia, sezione I, sentenza n. 717 del 03/05/2023

[6] Tar Calabria – Reggio Calabria, sentenza n. 6 del 03/01/2025