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Brina

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Brina

A quel punto, al punto in cui era arrivata, le sembrava di non capire più nulla.
Le sembrava che tutte le sue credenze si fossero sgretolate, valori per i quali solo qualche anno prima si sarebbe immolata in trincea e di cui ora non ricordava nemmeno il volto, la definizione. E non aveva avuto il tempo, davvero non aveva avuto il tempo necessario per sostituirli con altri, per dare credito a qualcosa di altrettanto forte.

Guardò il sentiero bianco di brina gelata, i corti fili d’erba sembravano setole di cristallo e ognuno di essi inanellava rigide, minuscole perline ghiacciate che tra non molto il sole impietoso avrebbe disciolto, rompendo la magia. Si avvicinò con la faccia a un millimetro da quegli steli: un microcosmo nel cosmo, un altro mondo piccolo e infinito. E chissà quanti microcosmi c’erano in lei. Brandelli sparpagliati di un universo che non riusciva a contenere e che fuoriusciva da tutte le parti, senza finzioni, germinava ovunque in modo non chiaro, bizzarro. L’ordine che aveva avuto in mente per tutta la vita non si sarebbe più ripristinato.

Non riusciva a coprirsi nemmeno volendo, tutto di lei era così potentemente esplicito da sovrastarla, mentre le energie si disperdevano nell’etere senza direzione.  E il tempo poi non ne voleva sapere di darle tempo, di fermarsi ad aspettarla un attimo e il solo pensiero di una felicità futura svaniva nel momento stesso in cui le attraversava la mente.

“Qui e ora, qui e ora” continuava a ripetersi come un mantra, ma mentre era nel qui e ora, con i semi di quel presente lei aveva già coltivato un giardino regale, pronto a bruciarsi come sterpaglia in una torrida estate. Appena toccava la realtà, già mutava nella sua immaginazione, una lente potente che vedeva l’invisibile.

Si alzò per guardare l’acqua del fiume e quella nebbia gelida che lo accarezzava. I rami di un albero piegato toccavano la superficie e come dita di una mano restavano immersi senza un lamento.

Pensò che anche lei non faceva altro che lambire la vita, senza viverla. Almeno l’albero era certo in quella posizione voluta dal fato, non poteva andarsene da lì, da quella condizione precisa di acqua e freddo. Ma lei si muoveva nello spazio e nel tempo, affannata nella ricerca di una corrispondenza che le desse un po’ di requie. Un riposo che tardava ad arrivare e che, se anche ci fosse stato, non avrebbe cambiato la sua condizione di mendicante. Era solo una mendicante.

Si accarezzò le mani per scaldarle, soffiò un alito caldo su di esse.  L’unico tepore se lo dava lei stessa. Uscì ancora un soffio caldo a combattere quel gelo e poi un altro e un altro ancora. Fissando quel prato di brina preziosa, ipnotizzata da quella bellezza, prese coscienza che una certezza l’aveva: in lei c’era un nucleo caldo inestinguibile perché aveva sperimentato l’amore, da piccola aveva respirato l’amore.

“Dammi un bacino sulla guancia destra, poi uno a sinistra, poi a destra, poi a sinistra e su una guancia e sull’altra” Girava tra le mani il grande faccione del papà che si prestava e rideva di quella dolcezza giocosa, lei sorrideva a sua volta, perché a quattro anni aveva tutto. E quel tutto era il suo sguardo costruttivo sulla vita, era il suo coraggio nella vita. Riprese, dunque, a camminare.