Cassazione Lavoro: tra diritto alla difesa e diritto alla privacy prevale il primo

"Nelle controversie in cui configura una contrapposizione tra due diritti, aventi ciascuno di essi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il c.d. criterio di <gerarchia mobile>, dovendo il giudice procedere di volta in volta ed in considerazione dello specifico "thema decidendum" alla individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritto, in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Ne consegue che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto (suo o di un terzo) alla "privacy" - cui il legislatore assicura in ogni sede adeguati strumenti di garanzia - non può legittimare una violazione del diritto di difesa che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (articolo 24, comma 2, Cost.), non può incontrare nel suo esercizio ostacoli ed impedimenti nell’accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla controparte in termini di un irreparabile "vulnus" alla sua onorabilità e, talvolta anche alla perdita di altri diritti fondamentali, come quello del posto di lavoro".

La Cassazione ha elaborato questo principio di diritto nella sentenza con la quale ha confermato la pronuncia di secondo grado (e quella di primo grado) che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente per pretese molestie sessuali verso una collega, in quanto "la lettera di contestazione era assolutamente vaga e priva di importanti e necessari elementi specificativi ed identificativi, con riguardo alle modalità della condotta tenuta dal ricorrente nei confronti dell’ignota collega, della quale non si evidenziava alcuna reazione. Né veniva indicato il tempo trascorso nella stanza chiusa, dove si sarebbe verificato l’episodio, né si precisava se il dipendente avesse desistito dalle profferte nei confronti della collega, se fossero presenti altri colleghi e se fossero intervenuti terzi".

Prosegue la Cassazione: "La stessa corte territoriale ha osservato che le giustificazioni dell’appellante circa la presunta tutela della "riservatezza" della dipendente coinvolta non avrebbero potuto prevalere sul diritto di difesa del ricorrente di conoscere il nominativo della persona offesa dal comportamento attribuito al dipendente".

La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 5 agosto 2010, n.18279: Licenzialemento del lavoratore - Tutela del diritto di difesa)

"Nelle controversie in cui configura una contrapposizione tra due diritti, aventi ciascuno di essi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il c.d. criterio di <gerarchia mobile>, dovendo il giudice procedere di volta in volta ed in considerazione dello specifico "thema decidendum" alla individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritto, in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Ne consegue che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto (suo o di un terzo) alla "privacy" - cui il legislatore assicura in ogni sede adeguati strumenti di garanzia - non può legittimare una violazione del diritto di difesa che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (articolo 24, comma 2, Cost.), non può incontrare nel suo esercizio ostacoli ed impedimenti nell’accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla controparte in termini di un irreparabile "vulnus" alla sua onorabilità e, talvolta anche alla perdita di altri diritti fondamentali, come quello del posto di lavoro".

La Cassazione ha elaborato questo principio di diritto nella sentenza con la quale ha confermato la pronuncia di secondo grado (e quella di primo grado) che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente per pretese molestie sessuali verso una collega, in quanto "la lettera di contestazione era assolutamente vaga e priva di importanti e necessari elementi specificativi ed identificativi, con riguardo alle modalità della condotta tenuta dal ricorrente nei confronti dell’ignota collega, della quale non si evidenziava alcuna reazione. Né veniva indicato il tempo trascorso nella stanza chiusa, dove si sarebbe verificato l’episodio, né si precisava se il dipendente avesse desistito dalle profferte nei confronti della collega, se fossero presenti altri colleghi e se fossero intervenuti terzi".

Prosegue la Cassazione: "La stessa corte territoriale ha osservato che le giustificazioni dell’appellante circa la presunta tutela della "riservatezza" della dipendente coinvolta non avrebbero potuto prevalere sul diritto di difesa del ricorrente di conoscere il nominativo della persona offesa dal comportamento attribuito al dipendente".

La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 5 agosto 2010, n.18279: Licenzialemento del lavoratore - Tutela del diritto di difesa)