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Cassazione Penale: nuovo orientamento sulla consumazione reato di furto in supermercato

“In tema di furto nei supermercati, costituisce furto consumato e non tentato quello che si commette all'atto del superamento della barriera delle casse con la merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato, incaricato della sorveglianza. Infatti, il momento consumativo si realizza già allorché la merce venga dall'agente nascosta in tasca o nella borsa, in modo da predisporre le condizioni per passare dalla cassa senza pagare, comportando tale condotta, oltre alla sottrazione, anche l'impossessamento della cosa (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi); mentre in questa prospettiva il superamento della barriera delle casse, manifestando la volontà di non pagare, opera più sul piano della prova, che su quello dell'integrazione del reato”.

Con la pronuncia in commento, i Giudici della Suprema Corte – complice l’insistente disordine giurisprudenziale sul punto – si prefiggono un compito ardito: quello di individuare, con esattezza e definitività, il momento in cui si attua la cosiddetta conversione del tentativo (punibile) di reato in sua consumazione.

A tali fini, l’illustre Consesso combina sapientemente parte generale e parte speciale del Codice penale. Grazie alla duttilità e prestanza dello schema delittuoso del furto (articolo 624 Codice Penale), il Collegio può soffermarsi, invero implicitamente, sulla “fisiologia” ed operatività degli istituti del delitto tentato e della consumazione del reato; istituti di cui propone un’immediata applicazione al caso specifico del furto in supermercato.

Ipotesi criminosa di frequente ricorrenza, esso si rivela, infatti, perfettamente in linea con le esigenze interpretative nutrite dalla stessa Corte in quanto caratterizzato dal particolare schema esecutivo di cui si dirà appresso.

SOMMARIO: 1. Il caso concreto. 1.1 L’analisi del delitto di furto (articolo 624 Codice Penale). 2. L’ordine (crono)logico delle micro-condotte integranti il delitto di furto, id est: l’antecedente giurisprudenziale tutt’ora diffuso nelle Corti di merito e tra i giudici di legittimità (Cassazione Penale, Sezione IV, 2 Novembre 2010, n. 38534). 3. Una inaspettata sterzata in controtendenza: Cassazione Penale, Sezione V, 24 Luglio 2012, n. 30283. 3.1. An e quando del delitto tentato. 4. Epilogo – brevi considerazioni.

 

1. Il caso concreto.

Il caso deciso dai giudici di legittimità, lineare nella sua dimensione fenomenologica, riguarda un uomo condannato, sia in primo che in secondo grado, per il delitto di furto aggravato.

Questi, infatti, all’interno di un esercizio commerciale (nella specie un supermercato) ed incurante degli addetti alla sorveglianza che ne monitoravano il comportamento, procedeva, dapprima, alla sottrazione di taluni beni di consumo dagli scaffali del negozio, dunque se ne impossessava e, infine, li celava, abilmente, tra le pieghe del proprio abito e la borsa. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’imputato, così agendo, integrava gli estremi del delitto di cui all’articolo 624 Codice Penale, aggravato ai sensi dell’articolo 625, comma 1, n. 2), Codice Penale; aggravante, peraltro, sulla cui ricorrenza si è, di recente, pronunciata la Suprema Corte nella sua più autorevole composizione (si veda Cassazione Penale, Sezioni Unite, 30 Settembre 2013, n. 40354). Il reo veniva, quindi, condannato alle pene previste.

L’uomo proponeva ricorso in Cassazione. Ivi osservava come proprio quel costante monitoraggio, esercitato dalla vigilanza sulla propria attività, avesse impedito, a monte, la consumazione del reato de quo, dovendosene semmai arrestare la punibilità alla soglia del tentativo.

Alla luce di ciò, la Suprema Corte, chiamata a decidere in via definitiva sul caso in analisi, coglieva l’occasione per dirimere, a proprio modo, un’annosa questione interpretativa: quella inerente alla esatta individuazione del momento consumativo del reato di furto nei grandi magazzini, con specifico riferimento all’ipotesi dell’apprensione di merce da banchi e scaffali del locale ed al successivo – e magari “indenne” – superamento, da parte del reo, delle cosiddette barriere anti-taccheggio all’uopo predisposte.

1.1. L’analisi del delitto di furto (articolo 624 Codice Penale).

Funzionale alla risoluzione dell’interrogativo che gli Ermellini si sono posti all’interno della sentenza che qui si annota, è l’analisi del delitto di cui all’articolo 624 Codice Penale, norma rubricata come “furto”. Si tratta di una delle fattispecie delittuose a più diffusa e preoccupante integrazione. L’elevato allarme sociale che essa desta ha, infatti, imposto al Legislatore del 2001 la revisione, in senso peggiorativo, dei limiti edittali delle sue pene detentive. Queste ultime sono attualmente ricomprese tra il previsto minimo di sei mesi ed il massimo di tre anni, al netto, beninteso, delle circostanze aggravanti comuni e non (articolo 61, n. 7 e articolo 625 del Codice Penale) eventualmente contestabili. Esse, infatti, sarebbero in grado, ove configurabili, di determinare la procedibilità d’ufficio del reato de quo, normalmente procedibile a querela della persona offesa.

Ai sensi dell’articolo 624 Codice Penale, dunque, commette il reato di furto “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”.

La lettera della norma fa balzare, ictu oculi, la natura di reato comune del delitto di furto. Esso può, infatti, essere integrato da un qualsivoglia agente (“chiunque”), non essendo necessario il rivestimento di peculiari qualifiche soggettive per innescarne l’operatività.

Procedendo più approfonditamente nella sua analisi, va messo in risalto il bene giuridico alla cui tutela è posta la norma penale. Esso si identifica, secondo l’opinione maggioritaria, nel generico patrimonio. Secondo altra impostazione (minoritaria), tuttavia, la norma sarebbe, in realtà, posta a tutela di una non meglio definita “situazione di diritto” per taluni identificabile, seccamente, nel diritto di proprietà, per talaltri nei diritti reali in toto considerati, per altri ancora nei cosiddetti diritti reali di godimento.

Quanto ai suoi elementi costitutivi, l’accento va posto sull’elemento oggettivo del delitto di furto poiché protagonista di accese diatribe giurisprudenziali (si veda infra).

Limitandoci ad una sua breve disamina, la condotta che il reo deve porre in essere per integrare il reato è a forma vincolata. Con ciò s’intende che l’agente deve intraprendere un preciso iter criminis atto a concretizzare l’azione “furtiva”.

La norma penale ben evidenzia detto iter e lo scompone, quantomeno dal punto di vista logico, in due fasi esecutive. La prima è la mera sottrazione, da parte del reo, del bene (oggetto materiale del reato) dall’altrui signoria di fatto. La seconda è il suo correlato impossessamento che l’agente realizza esercitandovi, lontano dall’ormai ex titolare, il proprio dominio.

Con riguardo all’elemento soggettivo, invece, la fattispecie è caratterizzata dal dolo specifico. Esso è colorato di una “triplice” volontà: quella che guida il reo alla sottrazione del bene, quella che lo conduce al suo effettivo impossessamento e quella che governa, a monte, dette micro-condotte, ossia il fine di procurare, all’agente o ad altri, un profitto. Il tutto, nonostante egli sia ben consapevole che il bene non gli appartenga.

L’altruità della res è, infatti, l’eloquente fulcro (“cosa mobile  altrui”) attorno a cui ruota la norma penale in analisi. Strettamente collegata ad altro pre-requisito più “dinamico” – quello della detenzione (“sottraendola a chi la detiene”) – l’altruità si erge, all’interno della fattispecie, a spartiacque semantico, determinando non solo la scissione cronologica delle due micro-condotte esecutive (sottrazione e impossessamento), ma anche la rottura di quel legame di appartenenza dominicale che congiungeva il bene al suo proprietario e viceversa.

2. L’ordine (crono)logico delle micro-condotte integranti il delitto di furto, id est: l’antecedente giurisprudenziale tutt’ora diffuso nelle Corti di merito e tra i giudici di legittimità (Cassazione Penale, Sezione IV, 2 Novembre 2010, n. 38534).

La particolare formulazione della fattispecie delittuosa del furto ha ripetutamente interessato la giurisprudenza di merito e di legittimità. Il dato normativo si presta, infatti, ad almeno due differenti interpretazioni, una delle quali è stata fatta propria da un intervento della Cassazione risalente al 2010.

Gli Ermellini, in detta pronuncia (Cassazione Penale, Sezione IV, 2 Novembre 2010, n. 38534), convengono nel ritenere che la condotta caratterizzante il furto possa essere ripartita in due micro-condotte (come visto supra). Detta ripartizione, tuttavia, non ha solo finalità logico-descrittive, ma possiede anche – e soprattutto – una cadenza temporale.

Si vuol dire, cioè, che il frazionamento della (apparentemente) unica azione furtiva nelle sue due fasi di realizzazione (sottrazione ed impossessamento) avrebbe un reale senso solo laddove queste fossero declinate in base ad un preciso ordine di tempo. Quest’ordine vedrebbe, pertanto, come prima fase, quella della sottrazione del bene altrui e, come seconda, quella del suo impossessamento ad opera del trasgressore. Il tutto sarebbe, inoltre, confermato dal posto, mediano e significativo, occupato dalla locuzione “a chi la detiene” all’interno della fattispecie.

Secondo i fautori di quest’orientamento sarebbe, dunque, da escludersi qualsivoglia sovrapposizione tra il momento della cosiddetta amotio del bene e quello dell’impossessamento, dovendosi entrambi realizzare in tempi diversi e scadenzati dal passaggio del bene nelle differenti sfere di signoria (proprietario-ladro).

Ciò comporterebbe, inoltre, un necessitato slittamento in avanti del momento consumativo del reato di furto che potrà dirsi consumato solo ove il reo si sia effettivamente impossessato del bene altrui dopo averlo sottratto “a chi lo deteneva”. Tutto ciò che si sia verificato prima di detto momento non perfezionerà, né tantomeno realizzerà il reato, dovendosi semmai arrestare (ove operino determinate circostanze: la presenza o meno di addetti alla vigilanza) alla soglia del tentativo punibile.

Applicando questo ragionamento al caso del furto in supermercato, la Suprema Corte, nel 2010, ha ritenuto di dover così opinare. Qualora il reo sottragga, inosservato, il bene da banchi o scaffali del negozio, lo nasconda all’interno di borse o nelle tasche dell’abito, riesca persino a rimuovere il dispositivo antitaccheggio e superi, pertanto, indenne le barriere allarmate poste all’uscita del market, il furto potrà dirsi consumato. Non solo perché si sarà realizzato in tutte le sue fasi e pre-fasi esecutive (presupposto dell’altruità della cosa/altrui detenzione – sottrazione – impossessamento), ma anche perché si sarà concretizzato il passaggio tra sfere di dominio: da quella del legittimo titolare a quella del reo. Così assicurando a quest’ultimo quel “profitto” che attualizza il dolo specifico dell’articolo 624 Codice Penale.

Ove, al contrario, il reo ponga ugualmente in essere l’elencata sequenza di azioni sebbene monitorato, inconsapevolmente, dagli addetti alla vigilanza, il reato non potrà dirsi consumato. Infatti, anche qualora il trasgressore superi indenne le barriere allarmate – o anche prima di detto momento – i sorveglianti ben potranno intervenire per fermare l’iter criminis.

Questo, pertanto, varrà – a prescindere da quando si verifichi – ad impedire l’avveramento della seconda porzione di condotta delittuosa: quella dell’effettivo impossessamento della res per la cui realizzazione è necessario, giova ribadirlo, l’esercizio di un dominio del reo sul bene tale da implicare la rottura del legame di appartenenza di questo all’originario titolare.

Detta rottura non potrà dirsi effettiva fintantoché il titolare – o chi per lui – monitori gli spostamenti del bene, con ciò impendendo il suo, addirittura momentaneo, transito nella sfera di afferenza del trasgressore. Così stando le cose, la fattispecie criminosa del furto rimarrà, pertanto, confinata allo stadio del tentativo punibile (su cui ci si soffermerà infra).

 

3. Una inaspettata sterzata in controtendenza: Cassazione Penale, Sezione V, 24 Luglio 2012, n. 30283.

Nel Luglio 2012, tuttavia e a sorpresa, la Suprema Corte rivisita, per mano della sua Quinta Sezione, la problematica del furto in supermercato e ne dà un’altra – più rigorosa – soluzione.

I giudici di legittimità prendono atto dell’esistenza dell’orientamento di cui si è appena dato conto e della sua diffusione presso la stessa Corte di legittimità e presso quelle di merito.

Lo erigono, pertanto, assieme ad altri orientamenti contrari, a presupposto delle proprie argomentazioni, per poi giungere a confutarlo tout court, o quasi.

Secondo la Quinta Sezione, infatti, le micro-condotte esecutive che caratterizzano il furto non vanno ripartite secondo anteriorità e posteriorità temporale.

Le due fasi esecutive, invero, coincidono. Qualora l’agente realizzi la sottrazione del bene (spostandolo dai banchi o dagli scaffali del market) e lo celi all’interno di una borsa o tra le pieghe dell’abito, ne determina un impossessamento anche momentaneo o transitorio.

Questo perché il reo, nel momento in cui ha sottratto e appreso materialmente il bene, ne ha altresì conseguito il possesso, e ciò a prescindere dalla presenza di addetti alla vigilanza, pronti ad intervenire, che ne monitorino l’operato.

Così opinando, il delitto si consuma senza che sia necessario quell’effettivo passaggio tra sfere di dominio, evitando, pertanto, di confinare allo stadio del tentativo condotte che, di per se stesse e per le proprie modalità esecutive, integrano un reato già perfetto dal punto di vista fenomenico.

Il nodo interpretativo da sciogliere resta il superamento delle barriere anti-taccheggio, alla luce della funzione di discrimen dalle stesse svolta in talune pronunce giurisprudenziali (cfr. ex multis: Cassazione Penale, Sezione II, 5 Febbraio 2013, n. 8445) ed alla luce, altresì, della rilevanza che queste rivestono nell’architettura della sentenza in commento.

Il superamento delle barriere, infatti, varrebbe esclusivamente a rendere manifesta – anche all’esterno – l’avvenuta consumazione del delitto. Con il superamento, dunque, si attualizzerebbe e concretizzerebbe un evento già definito e penalmente rilevante nella sua dimensione interna, a cui manca, tuttavia, una dimensione “corale” di inconfutabile evidenza.

La conversione da rilevanza interna ad esterna del delitto si realizzerebbe, pertanto, con il semplice attraversamento, da parte del reo, delle barriere allarmate, fermo restando il ruolo non fondamentale svolto dalla presenza o assenza della vigilanza. Determinante ai fini della punibilità del furto è, infatti, l’aver predisposto tutte le condizioni necessarie alla realizzazione del delitto. In questo caso: l’aver rimosso il bene dagli scaffali del negozio, l’averlo celato in una borsa o altrove e l’averne, quindi, istantaneamente, conseguito il materiale impossessamento, rappresentano condizioni di per sé sufficienti perché il trasgressore integri il reato in discorso. Esse, nella propria intrinsecità ed univocità, convogliano la volontà del reo verso l’apprensione di quel profitto (per sé o per altri) che incarna il dolo specifico tipico di questo reato.

A fronte di un quadro così composito, ma anche così completo (l’elemento oggettivo e soggettivo del reato appaiono perfettamente delineati, integrati e soddisfatti), il delitto di furto non potrà non dirsi consumato.

Gli Ermellini della Quinta Sezione, dunque, in modo sicuramente rigoroso, ma al contempo logico e attento a non snaturare la struttura del delitto di furto e la sua ratio, hanno posto l’accento sulle micro-condotte esecutive di quell’attività criminosa, esaltandone la portata di unicum e non quella di frazionamento temporale, poco affine all’indagine che si sono proposti di condurre.

Così opinando i Giudici, consci, altresì, dell’allarme sociale che certi modus agendi accendono nel nostro ordinamento, hanno rinvenuto un’agevole via – supportata dal punto di vista scientifico – attraverso cui condannare seccamente, e senza inopportuni sconti di pena o scappatoie processuali, crimini di frequente ricorrenza, spesso additati dalla comunità solo verbalmente e non sanzionati in modo “esemplare”.

3.1. An e quando del delitto tentato.

I Giudici della Quinta Sezione oltre a dirimere, a proprio modo, una questione interpretativa che si è più volte proposta negli anni, hanno implicitamente ridefinito o, per meglio dire, puntualizzato i confini operativi di due fondamentali istituti di diritto penale: il delitto tentato e la consumazione del reato.

Infatti, con la propria attività ermeneutica gli Ermellini, come visto nei paragrafi precedenti, hanno precisamente individuato il momento di consumazione del delitto di furto in esercizio commerciale dimodoché, procedendo ad excludendum, tutto ciò che non fosse ricompreso nella consumazione, confluisse ope juris (o judicis?) nell’alveo del tentativo punibile.

Il delitto tentato è un antecedente logico-temporale. È una fattispecie che precede, di fatto, il momento in cui il delitto può dirsi integrato nei suoi elementi costitutivi e, pertanto, consumato: venuto, cioè, a compimento. Con ciò s’intende che la condotta posta in essere dal reo – dolosa o colposa a seconda delle esigenze normativo/sociali –  dovrà coincidere con quella descritta, nella fattispecie, dallo stesso Legislatore. Pertanto, se esiste un momento finale di realizzazione dell’iter criminis che culmina nell’integrazione del reato e nella sua completa punibilità, deve a fortiori esistere un momento in cui nonostante l’azione sia “costitutivamente” imperfetta, desti comunque allarme sociale: si pensi, infatti, ai casi in cui “l’evento delittuoso non si compie o l’azione non si verifica” per ragioni indipendenti dalla volontà del reo (fatta esclusione per le ipotesi di cosiddetta desistenza volontaria e recesso attivo: articolo 56, comma 3 e 4, Codice Penale). Qualora ciò accada, la condotta del trasgressore non potrà andare esente da pena e dovrà, quindi, essere ugualmente sanzionata in quanto ha comunque causato un’esposizione a pericolo del bene tutelato dalla norma penale.

L’individuazione del momento di punibilità, oltre a fungere da cartina al tornasole con cui l’interprete accerta la non avvenuta consumazione di un delitto, determina la sua qualificazione alla stregua di tentativo ex articolo 56 Codice Penale: istituto che costituisce, come si vedrà, un autonomo titolo di reato, non potendo essere degradato a mera circostanza attenuante di un delitto già consumato.

Il delitto tentato, pertanto, si atteggia a filtro. Se ne rinviene, non a caso, la sua allocazione all’interno della parte generale del Codice. Il delitto tentato è, infatti, in grado di anteporsi a qualsivoglia fattispecie di parte speciale, convertendola nella corrispondente ipotesi non consumata e, dunque, tentata. In questi termini, svolge una funzione molto simile a quella adempiuta dal concorso ex articolo 110 Codice Penale sebbene, in quest’ultimo caso, la conversione riguardi le fattispecie mono-soggettive che si “trasforma no” nelle speculari corrispondenze pluri-soggettive proprio ad opera del richiamato istituto.

Com’è ovvio, perché il delitto tentato possa essere sanzionato all’interno del nostro ordinamento, è necessario che rispetti quei parametri che lo stesso Legislatore ha ritenuto necessari per la sua punibilità, sulla scorta del noto – ed interpretato estensivamente – principio costituzionale “nulla poena, nullum crimen sine lege”.

Quei parametri si riconoscono nella idoneità, in-equivocità ed univocità degli atti posti in essere dal reo nella prospettiva di commettere un reato.

Il requisito dell’idoneità inerisce alla fisiologia dell’atto posto in essere. Si vuol dire, cioè, che, almeno potenzialmente, esso dovrà rivestire un grado di offensività tale da arrecare una lesione ad un bene giuridico meritevole di tutela.

L’aspetto dell’idoneità dell’atto è rilevante poiché il delitto tentato rappresenta, nel nostro sistema penale, l’ipotesi speculare del cosiddetto reato impossibile (articolo 49, comma 2, Codice Penale) che si configura ove difetti, a monte, la potenzialità lesiva della condotta perpetrata dal reo.

Alla luce di ciò, è necessario che l’interprete valuti attentamente la possibile offensività dell’operato del soggetto agente. Per farlo, usufruirà di una variante del cosiddetto criterio della prognosi postuma.

Il giudice, infatti, si collocherà, dal punto di vista psichico, al momento in cui l’agente poneva in essere l’attività criminosa. Produrrà così una prima, ma incompleta, valutazione ex ante della sua condotta e del contesto situazionale in cui ha agito. Procederà, quindi, ad una ulteriore ma più profonda analisi: terrà, infatti, conto di tutte le circostanze in concreto conosciute o conoscibili dall’agente secondo il parametro cognitivo dell’uomo medio, eventualmente arricchito del bagaglio di conoscenze di cui disponeva il reo al momento dell’azione (criterio della parzialità).

È tollerata, e pertanto scusata ex articolo 5 Codice Penale, l’ignoranza delle sole circostanze eccezionali. Dall’unione di queste due fasi di elaborazione del giudizio finale nasce il cosiddetto criterio della prognosi postuma condotto in concreto e su base parziale; criterio che ben si attaglia alle dinamiche del delitto tentato e che taluna ardita giurisprudenza ha ritenuto di dover applicare anche al caso del concorso anomalo ex articolo 116 Codice Penale (si veda, ex multis: Cassazione Penale, Sezione II, 21 Dicembre 2011, n. 47652).

Per ciò che concerne il requisito dell’inequivocità (spesso analizzato congiuntamente, ed invero sovrapposto, a quello dell’univocità degli atti), l’accento si colloca sul fine perseguito, a monte, dal reo; fine che caratterizza, in modo marcato, la sua azione. A seconda del target avuto di mira dall’agente, questi predisporrà il proprio operato di guisa che possa soddisfarlo.

Pertanto, il modus agendi del reo sarà ispirato da quell’obiettivo, nonché costruito per assicurarne il precipuo raggiungimento. Dall’analisi della condotta criminosa dovrà, quindi, risultare inequivocabile per il giudice che, ove fosse stata compiutamente portata a termine (cosiddetto tentativo compiuto), l’evento voluto dal reo si sarebbe verificato ed avrebbe, altresì, comportato quella lesione che il rispetto della legge penale avrebbe, al contrario, scongiurato.

Diversamente, non solo la condotta del reo non godrebbe di rilevanza penale (ex articolo 49, comma 2, Codice Penale), ma laddove non sia stata costruita in modo da appalesare concretamente l’antigiuridicità del fine perseguito, non potrebbe comunque essere rimproverabile poiché assorbita nel noto brocardo nemo cogitationis poenam patitur.

Alla luce di queste considerazioni, il requisito dell’inequivocità permette di aprire una breve parentesi sull’elemento soggettivo che caratterizza il delitto tentato.

La colpa, nella configurazione del tentativo, non è ammessa. L’istituto di cui all’articolo 56 Codice Penale è, infatti plasmato, come appena visto, sulla volontà, da parte del reo, di sferrare una lesione ad un bene giuridico normativamente tutelato. Pertanto, in virtù della sua caratterizzazione ontologica, la colpa (che esclude la volontarietà dell’azione lesiva e la correla, piuttosto, ad una imprudente, imperita o negligente violazione di norme cautelari) non verrà a rilevare, essendo appieno sostituita dal dolo; un dolo pregno di quella stessa intensità che avrebbe caratterizzato il delitto consumato.

Per concludere, va analizzato il requisito dell’univocità degli atti. Dovendolo differenziare dall’inequivocità, esso può considerarsene una specificazione di tipo meramente qualitativo.

Si vuol dire, cioè, che entrambi condividono la finalizzazione delittuosa della condotta con un’unica differenza: se l’inequivocità mira ad individuare spie, in concreto, di quella finalizzazione, l’univocità appalesa la convergenza di ciascuno di quegli atti – quand’anche preparatori e non “prettamente” esecutivi purché godano dei requisiti già visti – verso un target criminoso comune (si veda, in questo senso: Cassazione Penale, Sezione II, 13 Marzo 2012, n. 12175).

Certa dottrina, a tal proposito, è incline a sostituire il lemma inequivocità con il più adeguato “uni-direzionalità” degli atti; lemma che meglio si presta ad esaltare la convergenza verso l’obiettivo delittuoso comune e che sottolinea come il reo-agente versi, ormai, in una situazione di non ritorno dall’imminente e programmato delitto.

Resta esclusa, infine, l’ammissibilità del tentativo con riguardo alle contravvenzioni e ai delitti a consumazione anticipata. In entrambi i casi, difetta quell’iter criminis il cui svolgimento permetterebbe di frazionare in più porzioni la condotta criminosa e di individuare, pertanto, micro-condotte (esecutive o meno) in grado di enucleare i requisiti fisiologici di cui si compone il delitto tentato.

4. Epilogo – brevi considerazioni personali.

La sentenza annotata, che si distingue per l’originalità delle argomentazioni addotte a sostegno della tesi condivisa dalla Suprema Corte, si caratterizza, altresì, per il rigore con cui gli stessi Giudici hanno “applicato” gli istituti del tentativo e della consumazione al delitto di furto all’interno di un esercizio commerciale con cosiddetta formula self-service.

Privando, infatti, di autonomia temporale le micro-condotte esecutive del reato e sussumendole in un unicum cronologico, la Corte di legittimità ha ridisegnato i confini operativi dell’articolo 624 Codice Penale e ne ha, così, arretrato la soglia di punibilità (rectius: consumazione), ancorandola al momento in cui si realizza la semplice amotio del bene rubato. In tal modo, il passaggio del bene in differenti sfere di dominio non definisce più la consumazione del delitto essendosi, quest’ultimo, già integrato con la mera sottrazione della res dall’area di vigilanza del suo proprietario.

Tuttavia, e a ben guardare, il proposito criminoso prima ideato e, in seguito, attuato dal reo prende vigore e si irrobustisce proprio attraverso il passaggio del bene in sfere di afferenza distinte.

Il legame di appartenenza reale può effettivamente imputarsi all’uno (titolare) o all’altro soggetto (reo) solo a seguito della rimozione di ideali paletti che ne misurano il perimetro.

Ciò posto, concorre a incarnare taluno di detti paletti quel processo, massimamente psichico, in virtù del quale il reo, sottratto il bene dai banchi o scaffali del supermercato ed ivi trattenendosi il tempo necessario ad uscirne, non percepisca come effettivo quel legame “reale” – nonostante abbia (apparentemente) conseguito il materiale possesso del bene – e ne differisca l’effettività ad un secondo momento, magari coincidente con il varco delle barriere allarmate e l’eventuale, indisturbato, allontanamento dal locale commerciale.

La funzione delle barriere anti-taccheggio, del resto, è quella di individuare, attraverso un sistema di rilevazione elettromagnetica, gli utenti che escano dal negozio senza aver pagato il corrispettivo dovuto per l’acquisto del bene. L’immediata identificazione del (potenziale) trasgressore, segnalata dall’innesco di un segnale d’allarme, impedisce all’utente l’effettivo conseguimento della refurtiva e garantisce al titolare del negozio il subitaneo recupero del bene sottratto. Inoltre, la collocazione strategica di dette barriere (entrata/uscita del locale), nonché la loro immediata visibilità e riconoscibilità attestano, altresì, la funzione di deterrente cui assolvono: distogliere potenziali rei dal compimento di condotte criminose che, grazie al funzionamento di quei varchi, verranno prontamente arginate dagli addetti alla sorveglianza.

Alla luce, pertanto, della funzione “sociale” dispiegata dalle barriere anti-taccheggio e della rilevanza da queste rivestita anche nell’architettura della sentenza in commento, la loro degradazione a mero, e corale, banco di prova della effettiva responsabilità del reo (anziché dell’avvenuta integrazione del reato) risulta un po’ riduttivo.

La ragione di ciò, tuttavia, è da rinvenire nella necessità, avvertita dai Giudici, di contrastare l’attuale, preoccupante incidenza dei reati contro il patrimonio, “anticipandone” la soglia di consumazione e, di fatto, quasi azzerando gli spazi di operatività del tentativo ex articolo 56 Codice Penale, ivi identificabili negli atti preparatori penalmente rilevanti (sulla cui “riscoperta” importanza ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte in un recente arresto: Cassazione Penale, Sezione II, 13 Marzo 2012, n. 12175).

Un giro di vite ermeneutico, questo, che ben si sposa con l’odierno panorama normativo il quale, come dimostra la nuovissima cosiddetta legge sul femminicidio (Decreto Legislativo 14 Agosto 2013, n. 93 convertito in Legge, 15 Ottobre 2013, n. 119), è sempre più improntato alla somministrazione di adeguate garanzie e sicurezza nei confronti dei cittadini attraverso la repressione delle più barbare ed acri forme di violenza. Necessità, quest’ultima, già avvertita dapprima dal Legislatore del 2006 (Legge 13 Febbraio 2006, n. 59), indi da quello del cosiddetto pacchetto sicurezza del 2008 e, più recentemente, dal Legislatore del 2009, padre del cosiddetto reato di stalking e, di certo, antesignano della novella sul femminicidio.

 

*Note bibliografiche:

- Garofoli R., Manuale di Diritto penale, parte generale, 2012, Nel Diritto Edit., pp. 574-576; 582-586; 1114-1123; 1124-1134; 1307-1310;

- Garofoli R., Manuale di Diritto penale, parte speciale, 2013, tomo III, Nel Diritto Edit., pp. 5-38;

- Garofoli R. Memo Manuale: schemi e tavole sinottiche di Penale, 2013, IV ediz., Nel Diritto Edit., pp. 379-382.

- Giangiolini M., Primo B., 40 questioni di Civile e Penale, 2013, Nel Diritto Edit., pp. 335-342; 369-377.

*Note giurisprudenziali.

- Cassazione Penale, sez. IV, 2 Novembre 2010, n. 38534;

- Cassazione Penale, sez. V, 6 Maggio 2010, n. 21937;

- Cassazione Penale, sez. V, 13 Luglio 2010, 37242;

- Cassazione Penale, sez. II, 21 Dicembre 2011, n. 47652;

- Cassazione Penale, sez. V, 24 Luglio 2012, n. 30283;

- Cassazione Penale, sez. II, 5 Febbraio 2013, dep. 21 Febbraio 2013, n. 8445;

- Cassazione Penale, SS. UU., 30 Settembre 2013, n. 40354.

 

 

 

“In tema di furto nei supermercati, costituisce furto consumato e non tentato quello che si commette all'atto del superamento della barriera delle casse con la merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato, incaricato della sorveglianza. Infatti, il momento consumativo si realizza già allorché la merce venga dall'agente nascosta in tasca o nella borsa, in modo da predisporre le condizioni per passare dalla cassa senza pagare, comportando tale condotta, oltre alla sottrazione, anche l'impossessamento della cosa (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi); mentre in questa prospettiva il superamento della barriera delle casse, manifestando la volontà di non pagare, opera più sul piano della prova, che su quello dell'integrazione del reato”.

Con la pronuncia in commento, i Giudici della Suprema Corte – complice l’insistente disordine giurisprudenziale sul punto – si prefiggono un compito ardito: quello di individuare, con esattezza e definitività, il momento in cui si attua la cosiddetta conversione del tentativo (punibile) di reato in sua consumazione.

A tali fini, l’illustre Consesso combina sapientemente parte generale e parte speciale del Codice penale. Grazie alla duttilità e prestanza dello schema delittuoso del furto (articolo 624 Codice Penale), il Collegio può soffermarsi, invero implicitamente, sulla “fisiologia” ed operatività degli istituti del delitto tentato e della consumazione del reato; istituti di cui propone un’immediata applicazione al caso specifico del furto in supermercato.

Ipotesi criminosa di frequente ricorrenza, esso si rivela, infatti, perfettamente in linea con le esigenze interpretative nutrite dalla stessa Corte in quanto caratterizzato dal particolare schema esecutivo di cui si dirà appresso.

SOMMARIO: 1. Il caso concreto. 1.1 L’analisi del delitto di furto (articolo 624 Codice Penale). 2. L’ordine (crono)logico delle micro-condotte integranti il delitto di furto, id est: l’antecedente giurisprudenziale tutt’ora diffuso nelle Corti di merito e tra i giudici di legittimità (Cassazione Penale, Sezione IV, 2 Novembre 2010, n. 38534). 3. Una inaspettata sterzata in controtendenza: Cassazione Penale, Sezione V, 24 Luglio 2012, n. 30283. 3.1. An e quando del delitto tentato. 4. Epilogo – brevi considerazioni.

 

1. Il caso concreto.

Il caso deciso dai giudici di legittimità, lineare nella sua dimensione fenomenologica, riguarda un uomo condannato, sia in primo che in secondo grado, per il delitto di furto aggravato.

Questi, infatti, all’interno di un esercizio commerciale (nella specie un supermercato) ed incurante degli addetti alla sorveglianza che ne monitoravano il comportamento, procedeva, dapprima, alla sottrazione di taluni beni di consumo dagli scaffali del negozio, dunque se ne impossessava e, infine, li celava, abilmente, tra le pieghe del proprio abito e la borsa. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’imputato, così agendo, integrava gli estremi del delitto di cui all’articolo 624 Codice Penale, aggravato ai sensi dell’articolo 625, comma 1, n. 2), Codice Penale; aggravante, peraltro, sulla cui ricorrenza si è, di recente, pronunciata la Suprema Corte nella sua più autorevole composizione (si veda Cassazione Penale, Sezioni Unite, 30 Settembre 2013, n. 40354). Il reo veniva, quindi, condannato alle pene previste.

L’uomo proponeva ricorso in Cassazione. Ivi osservava come proprio quel costante monitoraggio, esercitato dalla vigilanza sulla propria attività, avesse impedito, a monte, la consumazione del reato de quo, dovendosene semmai arrestare la punibilità alla soglia del tentativo.

Alla luce di ciò, la Suprema Corte, chiamata a decidere in via definitiva sul caso in analisi, coglieva l’occasione per dirimere, a proprio modo, un’annosa questione interpretativa: quella inerente alla esatta individuazione del momento consumativo del reato di furto nei grandi magazzini, con specifico riferimento all’ipotesi dell’apprensione di merce da banchi e scaffali del locale ed al successivo – e magari “indenne” – superamento, da parte del reo, delle cosiddette barriere anti-taccheggio all’uopo predisposte.

1.1. L’analisi del delitto di furto (articolo 624 Codice Penale).

Funzionale alla risoluzione dell’interrogativo che gli Ermellini si sono posti all’interno della sentenza che qui si annota, è l’analisi del delitto di cui all’articolo 624 Codice Penale, norma rubricata come “furto”. Si tratta di una delle fattispecie delittuose a più diffusa e preoccupante integrazione. L’elevato allarme sociale che essa desta ha, infatti, imposto al Legislatore del 2001 la revisione, in senso peggiorativo, dei limiti edittali delle sue pene detentive. Queste ultime sono attualmente ricomprese tra il previsto minimo di sei mesi ed il massimo di tre anni, al netto, beninteso, delle circostanze aggravanti comuni e non (articolo 61, n. 7 e articolo 625 del Codice Penale) eventualmente contestabili. Esse, infatti, sarebbero in grado, ove configurabili, di determinare la procedibilità d’ufficio del reato de quo, normalmente procedibile a querela della persona offesa.

Ai sensi dell’articolo 624 Codice Penale, dunque, commette il reato di furto “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”.

La lettera della norma fa balzare, ictu oculi, la natura di reato comune del delitto di furto. Esso può, infatti, essere integrato da un qualsivoglia agente (“chiunque”), non essendo necessario il rivestimento di peculiari qualifiche soggettive per innescarne l’operatività.

Procedendo più approfonditamente nella sua analisi, va messo in risalto il bene giuridico alla cui tutela è posta la norma penale. Esso si identifica, secondo l’opinione maggioritaria, nel generico patrimonio. Secondo altra impostazione (minoritaria), tuttavia, la norma sarebbe, in realtà, posta a tutela di una non meglio definita “situazione di diritto” per taluni identificabile, seccamente, nel diritto di proprietà, per talaltri nei diritti reali in toto considerati, per altri ancora nei cosiddetti diritti reali di godimento.

Quanto ai suoi elementi costitutivi, l’accento va posto sull’elemento oggettivo del delitto di furto poiché protagonista di accese diatribe giurisprudenziali (si veda infra).

Limitandoci ad una sua breve disamina, la condotta che il reo deve porre in essere per integrare il reato è a forma vincolata. Con ciò s’intende che l’agente deve intraprendere un preciso iter criminis atto a concretizzare l’azione “furtiva”.

La norma penale ben evidenzia detto iter e lo scompone, quantomeno dal punto di vista logico, in due fasi esecutive. La prima è la mera sottrazione, da parte del reo, del bene (oggetto materiale del reato) dall’altrui signoria di fatto. La seconda è il suo correlato impossessamento che l’agente realizza esercitandovi, lontano dall’ormai ex titolare, il proprio dominio.

Con riguardo all’elemento soggettivo, invece, la fattispecie è caratterizzata dal dolo specifico. Esso è colorato di una “triplice” volontà: quella che guida il reo alla sottrazione del bene, quella che lo conduce al suo effettivo impossessamento e quella che governa, a monte, dette micro-condotte, ossia il fine di procurare, all’agente o ad altri, un profitto. Il tutto, nonostante egli sia ben consapevole che il bene non gli appartenga.

L’altruità della res è, infatti, l’eloquente fulcro (“cosa mobile  altrui”) attorno a cui ruota la norma penale in analisi. Strettamente collegata ad altro pre-requisito più “dinamico” – quello della detenzione (“sottraendola a chi la detiene”) – l’altruità si erge, all’interno della fattispecie, a spartiacque semantico, determinando non solo la scissione cronologica delle due micro-condotte esecutive (sottrazione e impossessamento), ma anche la rottura di quel legame di appartenenza dominicale che congiungeva il bene al suo proprietario e viceversa.

2. L’ordine (crono)logico delle micro-condotte integranti il delitto di furto, id est: l’antecedente giurisprudenziale tutt’ora diffuso nelle Corti di merito e tra i giudici di legittimità (Cassazione Penale, Sezione IV, 2 Novembre 2010, n. 38534).

La particolare formulazione della fattispecie delittuosa del furto ha ripetutamente interessato la giurisprudenza di merito e di legittimità. Il dato normativo si presta, infatti, ad almeno due differenti interpretazioni, una delle quali è stata fatta propria da un intervento della Cassazione risalente al 2010.

Gli Ermellini, in detta pronuncia (Cassazione Penale, Sezione IV, 2 Novembre 2010, n. 38534), convengono nel ritenere che la condotta caratterizzante il furto possa essere ripartita in due micro-condotte (come visto supra). Detta ripartizione, tuttavia, non ha solo finalità logico-descrittive, ma possiede anche – e soprattutto – una cadenza temporale.

Si vuol dire, cioè, che il frazionamento della (apparentemente) unica azione furtiva nelle sue due fasi di realizzazione (sottrazione ed impossessamento) avrebbe un reale senso solo laddove queste fossero declinate in base ad un preciso ordine di tempo. Quest’ordine vedrebbe, pertanto, come prima fase, quella della sottrazione del bene altrui e, come seconda, quella del suo impossessamento ad opera del trasgressore. Il tutto sarebbe, inoltre, confermato dal posto, mediano e significativo, occupato dalla locuzione “a chi la detiene” all’interno della fattispecie.

Secondo i fautori di quest’orientamento sarebbe, dunque, da escludersi qualsivoglia sovrapposizione tra il momento della cosiddetta amotio del bene e quello dell’impossessamento, dovendosi entrambi realizzare in tempi diversi e scadenzati dal passaggio del bene nelle differenti sfere di signoria (proprietario-ladro).

Ciò comporterebbe, inoltre, un necessitato slittamento in avanti del momento consumativo del reato di furto che potrà dirsi consumato solo ove il reo si sia effettivamente impossessato del bene altrui dopo averlo sottratto “a chi lo deteneva”. Tutto ciò che si sia verificato prima di detto momento non perfezionerà, né tantomeno realizzerà il reato, dovendosi semmai arrestare (ove operino determinate circostanze: la presenza o meno di addetti alla vigilanza) alla soglia del tentativo punibile.

Applicando questo ragionamento al caso del furto in supermercato, la Suprema Corte, nel 2010, ha ritenuto di dover così opinare. Qualora il reo sottragga, inosservato, il bene da banchi o scaffali del negozio, lo nasconda all’interno di borse o nelle tasche dell’abito, riesca persino a rimuovere il dispositivo antitaccheggio e superi, pertanto, indenne le barriere allarmate poste all’uscita del market, il furto potrà dirsi consumato. Non solo perché si sarà realizzato in tutte le sue fasi e pre-fasi esecutive (presupposto dell’altruità della cosa/altrui detenzione – sottrazione – impossessamento), ma anche perché si sarà concretizzato il passaggio tra sfere di dominio: da quella del legittimo titolare a quella del reo. Così assicurando a quest’ultimo quel “profitto” che attualizza il dolo specifico dell’articolo 624 Codice Penale.

Ove, al contrario, il reo ponga ugualmente in essere l’elencata sequenza di azioni sebbene monitorato, inconsapevolmente, dagli addetti alla vigilanza, il reato non potrà dirsi consumato. Infatti, anche qualora il trasgressore superi indenne le barriere allarmate – o anche prima di detto momento – i sorveglianti ben potranno intervenire per fermare l’iter criminis.

Questo, pertanto, varrà – a prescindere da quando si verifichi – ad impedire l’avveramento della seconda porzione di condotta delittuosa: quella dell’effettivo impossessamento della res per la cui realizzazione è necessario, giova ribadirlo, l’esercizio di un dominio del reo sul bene tale da implicare la rottura del legame di appartenenza di questo all’originario titolare.

Detta rottura non potrà dirsi effettiva fintantoché il titolare – o chi per lui – monitori gli spostamenti del bene, con ciò impendendo il suo, addirittura momentaneo, transito nella sfera di afferenza del trasgressore. Così stando le cose, la fattispecie criminosa del furto rimarrà, pertanto, confinata allo stadio del tentativo punibile (su cui ci si soffermerà infra).

 

3. Una inaspettata sterzata in controtendenza: Cassazione Penale, Sezione V, 24 Luglio 2012, n. 30283.

Nel Luglio 2012, tuttavia e a sorpresa, la Suprema Corte rivisita, per mano della sua Quinta Sezione, la problematica del furto in supermercato e ne dà un’altra – più rigorosa – soluzione.

I giudici di legittimità prendono atto dell’esistenza dell’orientamento di cui si è appena dato conto e della sua diffusione presso la stessa Corte di legittimità e presso quelle di merito.

Lo erigono, pertanto, assieme ad altri orientamenti contrari, a presupposto delle proprie argomentazioni, per poi giungere a confutarlo tout court, o quasi.

Secondo la Quinta Sezione, infatti, le micro-condotte esecutive che caratterizzano il furto non vanno ripartite secondo anteriorità e posteriorità temporale.

Le due fasi esecutive, invero, coincidono. Qualora l’agente realizzi la sottrazione del bene (spostandolo dai banchi o dagli scaffali del market) e lo celi all’interno di una borsa o tra le pieghe dell’abito, ne determina un impossessamento anche momentaneo o transitorio.

Questo perché il reo, nel momento in cui ha sottratto e appreso materialmente il bene, ne ha altresì conseguito il possesso, e ciò a prescindere dalla presenza di addetti alla vigilanza, pronti ad intervenire, che ne monitorino l’operato.

Così opinando, il delitto si consuma senza che sia necessario quell’effettivo passaggio tra sfere di dominio, evitando, pertanto, di confinare allo stadio del tentativo condotte che, di per se stesse e per le proprie modalità esecutive, integrano un reato già perfetto dal punto di vista fenomenico.

Il nodo interpretativo da sciogliere resta il superamento delle barriere anti-taccheggio, alla luce della funzione di discrimen dalle stesse svolta in talune pronunce giurisprudenziali (cfr. ex multis: Cassazione Penale, Sezione II, 5 Febbraio 2013, n. 8445) ed alla luce, altresì, della rilevanza che queste rivestono nell’architettura della sentenza in commento.

Il superamento delle barriere, infatti, varrebbe esclusivamente a rendere manifesta – anche all’esterno – l’avvenuta consumazione del delitto. Con il superamento, dunque, si attualizzerebbe e concretizzerebbe un evento già definito e penalmente rilevante nella sua dimensione interna, a cui manca, tuttavia, una dimensione “corale” di inconfutabile evidenza.

La conversione da rilevanza interna ad esterna del delitto si realizzerebbe, pertanto, con il semplice attraversamento, da parte del reo, delle barriere allarmate, fermo restando il ruolo non fondamentale svolto dalla presenza o assenza della vigilanza. Determinante ai fini della punibilità del furto è, infatti, l’aver predisposto tutte le condizioni necessarie alla realizzazione del delitto. In questo caso: l’aver rimosso il bene dagli scaffali del negozio, l’averlo celato in una borsa o altrove e l’averne, quindi, istantaneamente, conseguito il materiale impossessamento, rappresentano condizioni di per sé sufficienti perché il trasgressore integri il reato in discorso. Esse, nella propria intrinsecità ed univocità, convogliano la volontà del reo verso l’apprensione di quel profitto (per sé o per altri) che incarna il dolo specifico tipico di questo reato.

A fronte di un quadro così composito, ma anche così completo (l’elemento oggettivo e soggettivo del reato appaiono perfettamente delineati, integrati e soddisfatti), il delitto di furto non potrà non dirsi consumato.

Gli Ermellini della Quinta Sezione, dunque, in modo sicuramente rigoroso, ma al contempo logico e attento a non snaturare la struttura del delitto di furto e la sua ratio, hanno posto l’accento sulle micro-condotte esecutive di quell’attività criminosa, esaltandone la portata di unicum e non quella di frazionamento temporale, poco affine all’indagine che si sono proposti di condurre.

Così opinando i Giudici, consci, altresì, dell’allarme sociale che certi modus agendi accendono nel nostro ordinamento, hanno rinvenuto un’agevole via – supportata dal punto di vista scientifico – attraverso cui condannare seccamente, e senza inopportuni sconti di pena o scappatoie processuali, crimini di frequente ricorrenza, spesso additati dalla comunità solo verbalmente e non sanzionati in modo “esemplare”.

3.1. An e quando del delitto tentato.

I Giudici della Quinta Sezione oltre a dirimere, a proprio modo, una questione interpretativa che si è più volte proposta negli anni, hanno implicitamente ridefinito o, per meglio dire, puntualizzato i confini operativi di due fondamentali istituti di diritto penale: il delitto tentato e la consumazione del reato.

Infatti, con la propria attività ermeneutica gli Ermellini, come visto nei paragrafi precedenti, hanno precisamente individuato il momento di consumazione del delitto di furto in esercizio commerciale dimodoché, procedendo ad excludendum, tutto ciò che non fosse ricompreso nella consumazione, confluisse ope juris (o judicis?) nell’alveo del tentativo punibile.

Il delitto tentato è un antecedente logico-temporale. È una fattispecie che precede, di fatto, il momento in cui il delitto può dirsi integrato nei suoi elementi costitutivi e, pertanto, consumato: venuto, cioè, a compimento. Con ciò s’intende che la condotta posta in essere dal reo – dolosa o colposa a seconda delle esigenze normativo/sociali –  dovrà coincidere con quella descritta, nella fattispecie, dallo stesso Legislatore. Pertanto, se esiste un momento finale di realizzazione dell’iter criminis che culmina nell’integrazione del reato e nella sua completa punibilità, deve a fortiori esistere un momento in cui nonostante l’azione sia “costitutivamente” imperfetta, desti comunque allarme sociale: si pensi, infatti, ai casi in cui “l’evento delittuoso non si compie o l’azione non si verifica” per ragioni indipendenti dalla volontà del reo (fatta esclusione per le ipotesi di cosiddetta desistenza volontaria e recesso attivo: articolo 56, comma 3 e 4, Codice Penale). Qualora ciò accada, la condotta del trasgressore non potrà andare esente da pena e dovrà, quindi, essere ugualmente sanzionata in quanto ha comunque causato un’esposizione a pericolo del bene tutelato dalla norma penale.

L’individuazione del momento di punibilità, oltre a fungere da cartina al tornasole con cui l’interprete accerta la non avvenuta consumazione di un delitto, determina la sua qualificazione alla stregua di tentativo ex articolo 56 Codice Penale: istituto che costituisce, come si vedrà, un autonomo titolo di reato, non potendo essere degradato a mera circostanza attenuante di un delitto già consumato.

Il delitto tentato, pertanto, si atteggia a filtro. Se ne rinviene, non a caso, la sua allocazione all’interno della parte generale del Codice. Il delitto tentato è, infatti, in grado di anteporsi a qualsivoglia fattispecie di parte speciale, convertendola nella corrispondente ipotesi non consumata e, dunque, tentata. In questi termini, svolge una funzione molto simile a quella adempiuta dal concorso ex articolo 110 Codice Penale sebbene, in quest’ultimo caso, la conversione riguardi le fattispecie mono-soggettive che si “trasforma no” nelle speculari corrispondenze pluri-soggettive proprio ad opera del richiamato istituto.

Com’è ovvio, perché il delitto tentato possa essere sanzionato all’interno del nostro ordinamento, è necessario che rispetti quei parametri che lo stesso Legislatore ha ritenuto necessari per la sua punibilità, sulla scorta del noto – ed interpretato estensivamente – principio costituzionale “nulla poena, nullum crimen sine lege”.

Quei parametri si riconoscono nella idoneità, in-equivocità ed univocità degli atti posti in essere dal reo nella prospettiva di commettere un reato.

Il requisito dell’idoneità inerisce alla fisiologia dell’atto posto in essere. Si vuol dire, cioè, che, almeno potenzialmente, esso dovrà rivestire un grado di offensività tale da arrecare una lesione ad un bene giuridico meritevole di tutela.

L’aspetto dell’idoneità dell’atto è rilevante poiché il delitto tentato rappresenta, nel nostro sistema penale, l’ipotesi speculare del cosiddetto reato impossibile (articolo 49, comma 2, Codice Penale) che si configura ove difetti, a monte, la potenzialità lesiva della condotta perpetrata dal reo.

Alla luce di ciò, è necessario che l’interprete valuti attentamente la possibile offensività dell’operato del soggetto agente. Per farlo, usufruirà di una variante del cosiddetto criterio della prognosi postuma.

Il giudice, infatti, si collocherà, dal punto di vista psichico, al momento in cui l’agente poneva in essere l’attività criminosa. Produrrà così una prima, ma incompleta, valutazione ex ante della sua condotta e del contesto situazionale in cui ha agito. Procederà, quindi, ad una ulteriore ma più profonda analisi: terrà, infatti, conto di tutte le circostanze in concreto conosciute o conoscibili dall’agente secondo il parametro cognitivo dell’uomo medio, eventualmente arricchito del bagaglio di conoscenze di cui disponeva il reo al momento dell’azione (criterio della parzialità).

È tollerata, e pertanto scusata ex articolo 5 Codice Penale, l’ignoranza delle sole circostanze eccezionali. Dall’unione di queste due fasi di elaborazione del giudizio finale nasce il cosiddetto criterio della prognosi postuma condotto in concreto e su base parziale; criterio che ben si attaglia alle dinamiche del delitto tentato e che taluna ardita giurisprudenza ha ritenuto di dover applicare anche al caso del concorso anomalo ex articolo 116 Codice Penale (si veda, ex multis: Cassazione Penale, Sezione II, 21 Dicembre 2011, n. 47652).

Per ciò che concerne il requisito dell’inequivocità (spesso analizzato congiuntamente, ed invero sovrapposto, a quello dell’univocità degli atti), l’accento si colloca sul fine perseguito, a monte, dal reo; fine che caratterizza, in modo marcato, la sua azione. A seconda del target avuto di mira dall’agente, questi predisporrà il proprio operato di guisa che possa soddisfarlo.

Pertanto, il modus agendi del reo sarà ispirato da quell’obiettivo, nonché costruito per assicurarne il precipuo raggiungimento. Dall’analisi della condotta criminosa dovrà, quindi, risultare inequivocabile per il giudice che, ove fosse stata compiutamente portata a termine (cosiddetto tentativo compiuto), l’evento voluto dal reo si sarebbe verificato ed avrebbe, altresì, comportato quella lesione che il rispetto della legge penale avrebbe, al contrario, scongiurato.

Diversamente, non solo la condotta del reo non godrebbe di rilevanza penale (ex articolo 49, comma 2, Codice Penale), ma laddove non sia stata costruita in modo da appalesare concretamente l’antigiuridicità del fine perseguito, non potrebbe comunque essere rimproverabile poiché assorbita nel noto brocardo nemo cogitationis poenam patitur.

Alla luce di queste considerazioni, il requisito dell’inequivocità permette di aprire una breve parentesi sull’elemento soggettivo che caratterizza il delitto tentato.

La colpa, nella configurazione del tentativo, non è ammessa. L’istituto di cui all’articolo 56 Codice Penale è, infatti plasmato, come appena visto, sulla volontà, da parte del reo, di sferrare una lesione ad un bene giuridico normativamente tutelato. Pertanto, in virtù della sua caratterizzazione ontologica, la colpa (che esclude la volontarietà dell’azione lesiva e la correla, piuttosto, ad una imprudente, imperita o negligente violazione di norme cautelari) non verrà a rilevare, essendo appieno sostituita dal dolo; un dolo pregno di quella stessa intensità che avrebbe caratterizzato il delitto consumato.

Per concludere, va analizzato il requisito dell’univocità degli atti. Dovendolo differenziare dall’inequivocità, esso può considerarsene una specificazione di tipo meramente qualitativo.

Si vuol dire, cioè, che entrambi condividono la finalizzazione delittuosa della condotta con un’unica differenza: se l’inequivocità mira ad individuare spie, in concreto, di quella finalizzazione, l’univocità appalesa la convergenza di ciascuno di quegli atti – quand’anche preparatori e non “prettamente” esecutivi purché godano dei requisiti già visti – verso un target criminoso comune (si veda, in questo senso: Cassazione Penale, Sezione II, 13 Marzo 2012, n. 12175).

Certa dottrina, a tal proposito, è incline a sostituire il lemma inequivocità con il più adeguato “uni-direzionalità” degli atti; lemma che meglio si presta ad esaltare la convergenza verso l’obiettivo delittuoso comune e che sottolinea come il reo-agente versi, ormai, in una situazione di non ritorno dall’imminente e programmato delitto.

Resta esclusa, infine, l’ammissibilità del tentativo con riguardo alle contravvenzioni e ai delitti a consumazione anticipata. In entrambi i casi, difetta quell’iter criminis il cui svolgimento permetterebbe di frazionare in più porzioni la condotta criminosa e di individuare, pertanto, micro-condotte (esecutive o meno) in grado di enucleare i requisiti fisiologici di cui si compone il delitto tentato.

4. Epilogo – brevi considerazioni personali.

La sentenza annotata, che si distingue per l’originalità delle argomentazioni addotte a sostegno della tesi condivisa dalla Suprema Corte, si caratterizza, altresì, per il rigore con cui gli stessi Giudici hanno “applicato” gli istituti del tentativo e della consumazione al delitto di furto all’interno di un esercizio commerciale con cosiddetta formula self-service.

Privando, infatti, di autonomia temporale le micro-condotte esecutive del reato e sussumendole in un unicum cronologico, la Corte di legittimità ha ridisegnato i confini operativi dell’articolo 624 Codice Penale e ne ha, così, arretrato la soglia di punibilità (rectius: consumazione), ancorandola al momento in cui si realizza la semplice amotio del bene rubato. In tal modo, il passaggio del bene in differenti sfere di dominio non definisce più la consumazione del delitto essendosi, quest’ultimo, già integrato con la mera sottrazione della res dall’area di vigilanza del suo proprietario.

Tuttavia, e a ben guardare, il proposito criminoso prima ideato e, in seguito, attuato dal reo prende vigore e si irrobustisce proprio attraverso il passaggio del bene in sfere di afferenza distinte.

Il legame di appartenenza reale può effettivamente imputarsi all’uno (titolare) o all’altro soggetto (reo) solo a seguito della rimozione di ideali paletti che ne misurano il perimetro.

Ciò posto, concorre a incarnare taluno di detti paletti quel processo, massimamente psichico, in virtù del quale il reo, sottratto il bene dai banchi o scaffali del supermercato ed ivi trattenendosi il tempo necessario ad uscirne, non percepisca come effettivo quel legame “reale” – nonostante abbia (apparentemente) conseguito il materiale possesso del bene – e ne differisca l’effettività ad un secondo momento, magari coincidente con il varco delle barriere allarmate e l’eventuale, indisturbato, allontanamento dal locale commerciale.

La funzione delle barriere anti-taccheggio, del resto, è quella di individuare, attraverso un sistema di rilevazione elettromagnetica, gli utenti che escano dal negozio senza aver pagato il corrispettivo dovuto per l’acquisto del bene. L’immediata identificazione del (potenziale) trasgressore, segnalata dall’innesco di un segnale d’allarme, impedisce all’utente l’effettivo conseguimento della refurtiva e garantisce al titolare del negozio il subitaneo recupero del bene sottratto. Inoltre, la collocazione strategica di dette barriere (entrata/uscita del locale), nonché la loro immediata visibilità e riconoscibilità attestano, altresì, la funzione di deterrente cui assolvono: distogliere potenziali rei dal compimento di condotte criminose che, grazie al funzionamento di quei varchi, verranno prontamente arginate dagli addetti alla sorveglianza.

Alla luce, pertanto, della funzione “sociale” dispiegata dalle barriere anti-taccheggio e della rilevanza da queste rivestita anche nell’architettura della sentenza in commento, la loro degradazione a mero, e corale, banco di prova della effettiva responsabilità del reo (anziché dell’avvenuta integrazione del reato) risulta un po’ riduttivo.

La ragione di ciò, tuttavia, è da rinvenire nella necessità, avvertita dai Giudici, di contrastare l’attuale, preoccupante incidenza dei reati contro il patrimonio, “anticipandone” la soglia di consumazione e, di fatto, quasi azzerando gli spazi di operatività del tentativo ex articolo 56 Codice Penale, ivi identificabili negli atti preparatori penalmente rilevanti (sulla cui “riscoperta” importanza ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte in un recente arresto: Cassazione Penale, Sezione II, 13 Marzo 2012, n. 12175).

Un giro di vite ermeneutico, questo, che ben si sposa con l’odierno panorama normativo il quale, come dimostra la nuovissima cosiddetta legge sul femminicidio (Decreto Legislativo 14 Agosto 2013, n. 93 convertito in Legge, 15 Ottobre 2013, n. 119), è sempre più improntato alla somministrazione di adeguate garanzie e sicurezza nei confronti dei cittadini attraverso la repressione delle più barbare ed acri forme di violenza. Necessità, quest’ultima, già avvertita dapprima dal Legislatore del 2006 (Legge 13 Febbraio 2006, n. 59), indi da quello del cosiddetto pacchetto sicurezza del 2008 e, più recentemente, dal Legislatore del 2009, padre del cosiddetto reato di stalking e, di certo, antesignano della novella sul femminicidio.

 

*Note bibliografiche:

- Garofoli R., Manuale di Diritto penale, parte generale, 2012, Nel Diritto Edit., pp. 574-576; 582-586; 1114-1123; 1124-1134; 1307-1310;

- Garofoli R., Manuale di Diritto penale, parte speciale, 2013, tomo III, Nel Diritto Edit., pp. 5-38;

- Garofoli R. Memo Manuale: schemi e tavole sinottiche di Penale, 2013, IV ediz., Nel Diritto Edit., pp. 379-382.

- Giangiolini M., Primo B., 40 questioni di Civile e Penale, 2013, Nel Diritto Edit., pp. 335-342; 369-377.

*Note giurisprudenziali.

- Cassazione Penale, sez. IV, 2 Novembre 2010, n. 38534;

- Cassazione Penale, sez. V, 6 Maggio 2010, n. 21937;

- Cassazione Penale, sez. V, 13 Luglio 2010, 37242;

- Cassazione Penale, sez. II, 21 Dicembre 2011, n. 47652;

- Cassazione Penale, sez. V, 24 Luglio 2012, n. 30283;

- Cassazione Penale, sez. II, 5 Febbraio 2013, dep. 21 Febbraio 2013, n. 8445;

- Cassazione Penale, SS. UU., 30 Settembre 2013, n. 40354.