Cassazione SU Penali: regime consenso informato e rilevanza penale
La pronuncia delle Sezioni Unite è stata richiesta dalla Quinta Sezione Penale che ha ravvisato un contrasto giurisprudenziale in merito alla risoluzione del quesito "se abbia o meno rilevanza penale, e, nel caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa configuri la condotta del sanitario che in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle “regole dell’arte” e con esito fausto".
Secondo la Quinta Sezione, si registrano due diversi orientamenti, senza contare alcune tesi intermedie. Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico, con la conseguenza che la mancanza di un consenso opportunamente “informato” del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di necessità ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dell’art. 32 Cost. Secondo altro orientamento, invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico in particolare, la volontà del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma negativa, essendo il medico – allo stato del quadro normativo attuale – “legittimato” a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto è da escludere “in radice” che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato. Quanto, poi, al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, secondo una prima interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando l’esito dell’intervento sia favorevole. Ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia di cui all’art. 582 cod. pen.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva dovrà essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso. Secondo altro indirizzo, invece, l’arbitrarietà dell’intervento – che non potrà mai realizzare il delitto di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a cagionare una malattia – può assumere rilevanza penale solo come attentato alla libertà individuale del paziente e rendere perciò configurabile esclusivamente il delitto di violenza privata".
Secondo la Cassazione "L’attività sanitaria proprio perchè destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare – in tal modo – la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall’art. 2 della Carta, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come “costituzionalmente imposta”), direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo. D’altra parte, non è senza significato la circostanza che l’art. 359 cod. pen. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, rendendo dunque davvero incoerente l’ipotesi che una professione ritenuta, in sè, “di pubblica necessità», abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico, ancorchè attuate secondo le regole dell’arte e con esito favorevole per il paziente. Se di scriminante si vuol parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di “scriminante costituzionale”, tale essendo, per quel che si è detto, la fonte che “giustifica” l’attività sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, fatte salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (è il caso, come è noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica). Come, quindi, l’attività del giudice che adotti, secondo legge, una misura cautelare personale non potrà integrare il delitto di sequestro di persona, e ciò non perchè la sua condotta è “scriminata” “semplicemente” dall’art. 51 cod. pen., ma in quanto direttamente “coperta” dall’art.13 Cost., allo stesso modo può dirsi “garantita” dalla stessa Carta l’attività sanitaria, sempre che ne siano rispettate le regole ed i presupposti".
Proseguendo nell’esame degli orientamenti, la Cassazione ha rilevato che "una significativa parte della giurisprudenza e della dottrina, è concorde nel mettere in luce un dato assolutamente incontestabile: vale a dire la sostanziale incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico-chirurgica in specie, e l’elemento soggettivo che deve sussistere perchè possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie. Una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel “male”. Ciò non esclude, però, che l’atto chirurgico integri – ove isolato dal contesto del trattamento medico-terapeutico - la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale l’antigiuridicità non può che ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente: in una parola, al consenso informato, che compone la “istituzionalità” della condotta “strumentale” del chirurgo, costretto a “ledere” per “curare”. Il versante problematico si sposta, dunque, dalla antigiutidicità, derivante dal mancato consenso al diverso tipo di intervento chirurgico in origine assentito, alla “tipicità” delle lesioni dell’intervento in sè e delle conseguenze che da tale intervento sono scaturite: giacchè, se l’atto operatorio ha in definitiva prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del fatto, sub specie di conformità al modello delineato dall’art. 582 cod. pen., a venire seriamente in discussione".
La Sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali, Sentenza 21 gennaio 2009, n.2437: Consenso informato - Trattamento chirurgico - Difformità - Rispettp protocolli e leges artis - Esito fausto - Rilevanza penale - Esclusione).
La pronuncia delle Sezioni Unite è stata richiesta dalla Quinta Sezione Penale che ha ravvisato un contrasto giurisprudenziale in merito alla risoluzione del quesito "se abbia o meno rilevanza penale, e, nel caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa configuri la condotta del sanitario che in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle “regole dell’arte” e con esito fausto".
Secondo la Quinta Sezione, si registrano due diversi orientamenti, senza contare alcune tesi intermedie. Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico, con la conseguenza che la mancanza di un consenso opportunamente “informato” del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di necessità ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dell’art. 32 Cost. Secondo altro orientamento, invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico in particolare, la volontà del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma negativa, essendo il medico – allo stato del quadro normativo attuale – “legittimato” a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto è da escludere “in radice” che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato. Quanto, poi, al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, secondo una prima interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando l’esito dell’intervento sia favorevole. Ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia di cui all’art. 582 cod. pen.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva dovrà essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso. Secondo altro indirizzo, invece, l’arbitrarietà dell’intervento – che non potrà mai realizzare il delitto di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a cagionare una malattia – può assumere rilevanza penale solo come attentato alla libertà individuale del paziente e rendere perciò configurabile esclusivamente il delitto di violenza privata".
Secondo la Cassazione "L’attività sanitaria proprio perchè destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare – in tal modo – la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall’art. 2 della Carta, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come “costituzionalmente imposta”), direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo. D’altra parte, non è senza significato la circostanza che l’art. 359 cod. pen. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, rendendo dunque davvero incoerente l’ipotesi che una professione ritenuta, in sè, “di pubblica necessità», abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico, ancorchè attuate secondo le regole dell’arte e con esito favorevole per il paziente. Se di scriminante si vuol parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di “scriminante costituzionale”, tale essendo, per quel che si è detto, la fonte che “giustifica” l’attività sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, fatte salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (è il caso, come è noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica). Come, quindi, l’attività del giudice che adotti, secondo legge, una misura cautelare personale non potrà integrare il delitto di sequestro di persona, e ciò non perchè la sua condotta è “scriminata” “semplicemente” dall’art. 51 cod. pen., ma in quanto direttamente “coperta” dall’art.13 Cost., allo stesso modo può dirsi “garantita” dalla stessa Carta l’attività sanitaria, sempre che ne siano rispettate le regole ed i presupposti".
Proseguendo nell’esame degli orientamenti, la Cassazione ha rilevato che "una significativa parte della giurisprudenza e della dottrina, è concorde nel mettere in luce un dato assolutamente incontestabile: vale a dire la sostanziale incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico-chirurgica in specie, e l’elemento soggettivo che deve sussistere perchè possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie. Una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel “male”. Ciò non esclude, però, che l’atto chirurgico integri – ove isolato dal contesto del trattamento medico-terapeutico - la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale l’antigiuridicità non può che ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente: in una parola, al consenso informato, che compone la “istituzionalità” della condotta “strumentale” del chirurgo, costretto a “ledere” per “curare”. Il versante problematico si sposta, dunque, dalla antigiutidicità, derivante dal mancato consenso al diverso tipo di intervento chirurgico in origine assentito, alla “tipicità” delle lesioni dell’intervento in sè e delle conseguenze che da tale intervento sono scaturite: giacchè, se l’atto operatorio ha in definitiva prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del fatto, sub specie di conformità al modello delineato dall’art. 582 cod. pen., a venire seriamente in discussione".
La Sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.
(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali, Sentenza 21 gennaio 2009, n.2437: Consenso informato - Trattamento chirurgico - Difformità - Rispettp protocolli e leges artis - Esito fausto - Rilevanza penale - Esclusione).