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Art. 161 - Effetti della sospensione e della interruzione

1. L’interruzione della prescrizione ha effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. La sospensione della prescrizione ha effetto limitatamente agli imputati nei cui confronti si sta procedendo (1).

2. Salvo che si proceda per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, della metà per i reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322-bis, limitatamente ai delitti richiamati dal presente comma, e 640-bis, nonché nei casi di cui all’articolo 99, secondo comma, di due terzi nel caso di cui all’articolo 99, quarto comma, e del doppio nei casi di cui agli articoli 102, 103 e 105 (2).

(1) Comma così sostituito dall’art. 1, comma 13, L. 103/2017.

(2) Comma sostituito dal comma 5 dell’art. 6, L. 5 dicembre 2005, n. 251 e, successivamente, così modificato dall’art. 1, comma 14, L. 103/2017, a decorrere dal 3 agosto 2017.

Rassegna di giurisprudenza

Come è noto, la CGUE (Grande Sezione), con sentenza resa in data 8 settembre 2015 (in causa C-105/14), ha affermato che il combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, come modificato dalla L. 251/2005, e dell’articolo 161 e, nella parte in cui prevedono che un atto interruttivo della prescrizione verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA, comporti il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale, è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, nell’ipotesi in cui tali disposizioni nazionali impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’UE, o in cui prevedano, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’UE.

In questa prospettiva, il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dalle menzionate disposizioni normative. Investita della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della L. 130/2008, sulla ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona, nella parte in cui, imponendo di applicare l’articolo 325 TFUE, come interpretato dalla sentenza "Taricco", determina la disapplicazione, in alcuni casi, del disposto degli articoli 160, terzo comma, e 161, secondo comma, c.p., in relazione ai reati in materia di IVA, che costituiscono frode in danno degli interessi finanziari dell’UE, la Corte costituzionale, con ordinanza 24/2017, disponeva un rinvio pregiudiziale alla CGUE per l’interpretazione relativa al significato da attribuire all’art. 325 TFUE ed ai principi affermati nella sentenza "Taricco".

Secondo la Corte costituzionale, l’eventuale applicazione della "regola Taricco" nel nostro ordinamento potrebbe condurre alla violazione del contenuto degli articoli 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, non consentita neppure alla luce del primato del diritto UE.

In particolare, il giudice delle leggi si soffermava sul profilo di un’eventuale violazione del principio di legalità dei reati e delle pene che potrebbe derivare dall’obbligo, enunciato dalla "sentenza Taricco", di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, in considerazione, da un lato, della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione stabilite nell’ordinamento giuridico italiano, la quale implica che dette norme siano ragionevolmente prevedibili per i soggetti dell’ordinamento al momento della commissione dei reati contestati senza poter essere modificate retroattivamente in peius; dall’altro, della necessità che qualunque normativa nazionale relativa al regime di punibilità si fondi su una base giuridica sufficientemente determinata, al fine di poter delimitare e orientare la valutazione del giudice nazionale.

Nell’affrontare le questioni poste dalla Corte costituzionale, la Grande Sezione della CGUE, con sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, ha, innanzitutto, riconosciuto che i requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività inerenti al principio di legalità dei reati e delle pene si applicano, nell’ordinamento giuridico italiano, anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA.

Ne discende, da un lato, l’affermazione secondo cui spetta al giudice nazionale verificare se la condizione richiesta dalla "sentenza Taricco", secondo cui le disposizioni del codice penale in questione impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’UE, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano, quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile, per cui, se così effettivamente fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161.

Dall’altro, il principio che i menzionati requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività, ostano a che, nei procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della  pronuncia della "sentenza Taricco", ovvero anteriormente all’8 settembre 2015, il giudice nazionale possa disapplicare le disposizioni del codice penale in precedenza indicate, in quanto tali persone verrebbero ad essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.

Alla luce di tali considerazioni, il giudice europeo ha risolto la questione pregiudiziale posta dalla Corte Costituzionale dichiarando che «l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE deve essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».

Alla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza cd. "Taricco-bis"  che, nella sostanza, ha ribadito i contorni della "regola Taricco", ma ha confermato che essa può trovare applicazione solo se è rispettosa del principio di legalità in materia penale, nella duplice componente della determinatezza e del divieto di retroattività  la Corte costituzionale, con sentenza 115/2018 del 31 maggio 2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale (sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Milano) dell’articolo 2 della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona (L. 130/2008), là dove dà esecuzione all’articolo 325 del TFUE, come interpretato dalla Corte di Giustizia con la "sentenza Taricco", ritenendo che i giudici non siano tenuti ad applicare la "regola Taricco" sul calcolo della prescrizione, stabilita dalla CGUE con la sentenza dell’8 settembre 2015 per i reati in materia di IVA.

Ad avviso della Consulta, in particolare, indipendentemente dalla collocazione del momento di consumazione dei reati, prima o dopo l’8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare la "regola Taricco", perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione.

Un istituto, infatti, che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza, sicché appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la "regola Taricco"), sia la "regola Taricco" in sé.

Quest’ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell’art. 325 TFUE, risulta irrimediabilmente indeterminata nella definizione del «numero considerevole di casi» in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.).

Nella prospettiva fatta propria dalla Corte costituzionale, peraltro, indeterminato appare il contenuto normativo dell’art. l’art. 325 TFUE, in punto di prevedibilità, non consentendo ai consociati di prospettarsi la vigenza della "regola Taricco".

Sotto tale profilo il giudice delle leggi ribadisce che il principio di determinatezza ha una duplice direzione, non limitandosi a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell’attività giurisdizionale, mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma (e verrebbe da dire soprattutto) anche assicurando a chiunque «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (sentenze 327/2008 e 5/2004; nello stesso senso, sentenza 185/1992).

Pertanto, quand’anche la "regola Taricco" potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a «colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale» (sentenza 327/2008). Infatti, se è vero che anche «la più certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed interpretazioni sistematiche» (sentenza 364/1988), resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone «la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione» (sentenza 364/1988).

Fermo restando, dunque, che compete alla sola CGUE interpretare con uniformità il diritto UE, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la "sentenza Taricco-bis", un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento.

L’inapplicabilità della "regola Taricco", peraltro, ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto UE, sicché non vi è, ad avviso del giudice delle leggi, alcuna ragione di contrasto. Ciò comporta la non fondatezza di tutte le questioni sollevate, perché, a prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti, la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della "regola Taricco" nel nostro ordinamento.

Nel solco interpretativo sinteticamente riassunto, si colloca un recente e condivisibile arresto di legittimità, in cui, partendo proprio dai principi affermati nella sentenza della CGUE "Taricco-bis" e nella ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, si afferma che in tema di reati tributari commessi antecedentemente alla sentenza della Grande Sezione della CGUE, pronunciata l’8/09/2015 in causa C105/14, Taricco, continua ad applicarsi integralmente la normativa sulla prescrizione, non potendo il giudice nazionale disapplicarla stante il divieto di irretroattività, ai sensi dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, così come interpretato dalla CGUE (Grande Sezione) con sentenza del 05/12/2017, in causa C- 42/17 (Sez. 2, 9494/2018) (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 5, 41419/2018).

La recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale incide sul calcolo del tempo necessario a prescrivere l’ex art. 157 comma 2, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, e sull’entità della proroga di detto tempo, in presenza di atti interruttivi ex art. 161 comma 2 (Sez. 2, 57755/2018).

Al fine di valutare il tempo necessario per l’«affievolimento progressivo dell’interesse della comunità alla punizione del comportamento penalmente illecito» (tra le tante, Corte costituzionale, 23/2013), il legislatore ha considerato il maggior allarme sociale provocato dal comportamento del recidivo che, con il suo agire, dimostra un alto e persistente grado di antisocialità, mettendo maggiormente a rischio la sicurezza pubblica (Sez. 6, 51049/2015). Identiche esigenze si rinvengono anche nelle modifiche effettuate nel 2005 dal legislatore per la disciplina dell’interruzione della prescrizione di cui all’art. 161, nella parte in cui prevede la maggior durata dei termini prescrizionali, in caso di atti interruttivi, determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva ivi richiamate.

La recidiva, di cui al secondo e al quarto comma dell’art. 99, rileva contemporaneamente, in presenza di atti interruttivi, anche per determinare il termine massimo di prescrizione (Sez. 2, 13463/2016).

Si tratta di un orientamento tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza di legittimità (tra tante, Sez. 2, 19565/2008) e implicitamente anche da quella costituzionale (cfr. Corte costituzionale, ordinanza 24/2009; sentenza 324/2008), che ha trovato, peraltro, un unico, isolato, precedente difforme che, facendo leva sul principio del ne bis in idem sostanziale, ha ritenuto non consentita la contemporanea rilevanza della recidiva qualificata (nella specie reiterata) al fine dell’individuazione del termine prescrizionale-base, ai sensi dell’art. 157, secondo comma, e del termine massimo, ai sensi dell’art. 161, secondo comma (Sez. 6, 47269/2015).

Quest’ultima interpretazione delle citate norme codicistiche non può essere accolta alla luce delle condivisili osservazioni già espresse dalla giurisprudenza di legittimità in un recente arresto (Sez. 2, 13463/2016). Invero, la soluzione che ritiene possibile applicare una sola volta l’aumento del termine prescrizionale a causa di talune forme di recidiva rimette in definitiva all’interprete e in modo arbitrario  in difetto di espliciti riferimenti normativi  la determinazione della rilevanza da attribuire ad esse caso per caso; mentre, nei casi esemplificativamente menzionati dalla citata sentenza, quali applicazioni del principio del ne bis in idem sostanziale (artt. 15, 61, 62, 68, 301, 581 comma 2), è pur sempre il legislatore ad indicare i criteri per applicare l’elemento in astratto suscettibile di assumere doppia valenza. Nel caso del combinato disposto degli artt. 157 e 161 emerge al contrario la chiara volontà del legislatore di conferire alla recidiva qualificata una duplice valenza.

A ciò deve aggiungersi che la dedotta violazione del ne bis in idem sostanziale appare non cogliere le peculiarità della disciplina dell’interruzione della prescrizione. Quest’ultima, come è noto, determina l’effetto di rendere privo di conseguenze giuridiche il tempo precedentemente trascorso e far decorrere ex novo i termini della prescrizione, con il temperamento previsto dal terzo comma dell’art. 160 (fatta eccezione per i reati di cui all’art. 51-bis e quater CPP), che richiama appunto i termini indicati nel citato art. 161, secondo comma.

È evidente che il limite posto dal comma terzo dell’art 160 è previsto nell’interesse dell’indagato/imputato, che non può vedere rimandato, quasi all’infinito, il momento iniziale del decorso della prescrizione e, quindi, il momento del suo maturare. Infatti l’istituto della interruzione della prescrizione contempera due esigenze: quella dello Stato, che, attraverso l’atto interruttivo, manifesta il permanere del suo interesse al perseguimento del reato, e quello dell’indagato o imputato, al quale deve essere riconosciuto il diritto di vedere estinto, entro un ragionevole lasso temporale, il reato, con conseguente cessazione della possibilità che egli sia giudizialmente perseguito (Sez. 5, 1018/2000).

E proprio nel dettare le regole volte a mitigare l’automatico effetto «riespansivo» degli atti interruttivi, il legislatore del 2005 ha ritenuto, coerentemente con le modalità di calcolo del termine «base» della prescrizione, di considerare talune situazioni che giustificassero un diverso trattamento. Quindi in definitiva è proprio il meccanismo dell’interruzione della prescrizione, fondato sulla regola della tendenziale elisione del tempo precedentemente trascorso, a consentire, ai fini del calcolo «mitigato» dell’ulteriore termine di prescrizione, di tener conto nuovamente del fattore «recidiva» (Sez. 6, 48954/2016) (la riassunzione è dovuta a Sez. 6, 42640/2018).

L’interrogatorio reso da uno dei concorrenti è idoneo a interrompere i termini di prescrizione anche per gli altri soggetti che abbiano commesso il fatto. Si è osservato, infatti, che l’interrogatorio svolto dal PM nei confronti di uno soltanto dei concorrenti nel reato interrompe il corso della prescrizione nei confronti di tutti, sempre che abbia ad oggetto il medesimo fatto "sub iudice", nella sua consistenza naturalistica e nella sua qualificazione giuridica (Sez. 1. 37304/2018).

Deve considerarsi inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione del PM avverso la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione, ove con esso si denunci l’erroneità del calcolo del tempo necessario al prodursi di tale vicenda, quando il termine di legge, come indicato nell’atto di impugnazione, è comunque spirato in data precedente a quella della decisione della Corte di cassazione (Sez. 2, 30276/2017).