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Art. 13 - Sanzioni interdittive

1. Le sanzioni interdittive si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni:

a) l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;

b) in caso di reiterazione degli illeciti.

2. Fermo restando quanto previsto dall’art. 25, comma 5 [2-bis.1], le sanzioni interdittive hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni.

3. Le sanzioni interdittive non si applicano nei casi previsti dall’articolo 12, comma 1.

[2-bis.1] Le parole iniziali dell’art. 2 sono state aggiunte dalla L. 3/2019.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

6. Le sanzioni interdittive.

Le sanzioni interdittive sono individuate nell’articolo 9, comma 2, e replicano, in larga misura, il catalogo contenuto nella lettera l) dell’articolo 11 della delega.

L’unica, significativa eccezione riguarda la mancata inclusione della sanzione della chiusura dello stabilimento o della sede commerciale che, stante la scelta del Governo (che sarà chiarita nel prosieguo della relazione) di attuare la delega solo con riguardo ai reati che formano oggetto delle Convenzioni PIF e OCSE, si rivela sostanzialmente incompatibile con le finalità del sistema punitivo.

La chiusura dello stabilimento o della sede commerciale, infatti, è una sanzione tipicamente orientata a fronteggiare forme diverse di rischio-reato, segnatamente quegli illeciti che si situano nel cono d’ombra del rischio di impresa: si pensi ai reati in materia ambientale, all’omicidio o alle lesioni derivanti dalla violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero ai reati connessi allo svolgimento di attività pericolose.

Come si vede, si tratta di una sanzione utilmente riferibile solo ai reati indicati nelle lettere b), c) e d) dell’articolo 11, che non sono stati ricompresi nel presente decreto legislativo.

Per fronteggiare la criminalità del profitto, e dunque i reati che formano oggetto delle Convenzioni, sono sufficienti le altre sanzioni interdittive (si pensi all’interdizione dallo svolgimento dell’attività o all’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione), che meglio si adattano a colpire illeciti che, di regola, vengono consumati nel contesto di attività decisionali o negoziali e non già meramente esecutive.

Le sanzioni interdittive si applicano insieme alla sanzione pecuniaria e possono, per un verso, paralizzare lo svolgimento dell’attività dell’ente, per altro verso, condizionarla attraverso la limitazione della sua capacità giuridica ovvero con la sottrazione di risorse finanziarie.

Si tratta dunque di sanzioni particolarmente invasive e temute che, proprio per questo, la legge delega impone di applicare solo nei casi più gravi.

L’opportunità politico-criminale della loro previsione non può essere messa in discussione: la sanzione pecuniaria non deve infatti rappresentare l’unica arma da utilizzare contro la criminalità d’impresa, atteso che per quanto possa essere adeguata al patrimonio dell’ente, finirà comunque per essere annoverata tra i “rischi patrimoniali” inerenti alla gestione.

È un bene, dunque, che essa sia affiancata da sanzioni interdittive, che possiedono in misura superiore la forza di distogliere le società dal compimento di operazioni illecite e da preoccupanti atteggiamenti di disorganizzazione operativa.

Quanto alla loro durata, la delega pone qualche problema interpretativo. Fatta eccezione per la sanzione della revoca delle sovvenzioni o dei finanziamenti, di cui al numero 5 della lettera l) dell’articolo 11, in cui si sancisce inequivocabilmente la durata temporanea della sanzione, in tutti gli altri casi si usa l’espressione, per vero un po’ ambigua, di “previsione anche temporanea di…”.

La locuzione apre il campo a interpretazioni contrapposte. Da un lato, si potrebbe sostenere che il ricorso alla parola “anche” lasci libero il legislatore delegato di optare per un sistema che preveda sanzioni interdittive definitive accanto a sanzioni temporanee o che privilegi le sole sanzioni temporanee.

Dall’altro lato, proprio il riferimento alla durata “anche temporanea” sembrerebbe legittimare pure la tesi secondo la quale debbano necessariamente prevedersi sanzioni interdittive definitive eventualmente affiancate da sanzioni temporanee.

Tesi rafforzata dalla circostanza, indubbiamente evocativa, che quando il legislatore si è voluto limitare alla previsione di sanzioni solo temporanee lo ha chiaramente esplicitato, come è avvenuto nel contesto del richiamato numero 6) della lettera l). 

Il Governo ritiene che l’interpretazione letterale e sistematica della delega non permetta di accordare sicuro privilegio all’una piuttosto che all’altra tesi.

Sta di fatto che l’adeguamento più corretto, salva diverso orientamento delle Camere, sembra propendere in direzione di un sistema che contempli una disciplina generale delle sanzioni interdittive, applicabili di regola in via temporanea e, in casi eccezionali, in via definitiva.”

 

Rassegna di giurisprudenza

In generale

In tema di responsabilità da reato degli enti, le sanzioni interdittive sono sanzioni "principali" e non "accessorie", per cui, in caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al tipo e alla durata e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell'accordo medesimo (Sez. 3, 32885/2021).

Gli artt. 12, comma 1 e 13 che, rispettivamente, prevedono una diminuzione delle sanzioni pecuniarie e l’inapplicabilità di quelle interdittive nell’ipotesi in cui il reato presupposto venga commesso nel prevalente interesse del suo autore o di terzi e l’ente non ne abbia ricavato alcun vantaggio ovvero un vantaggio minimo, confermano che, nel sistema delineato dal legislatore delegato, il reato presupposto può essere funzionale al soddisfacimento dell’interesse concorrente di una pluralità di soggetti e può, pertanto, essere un interesse “misto” (Sez. 5, 38243/2018).

Il commissariamento giudiziale è una misura finalizzata ad evitare che, in determinate situazioni, l’accertamento della responsabilità dell’ente si risolva in un pregiudizio per la collettività: al posto della sanzione o della misura cautelare interdittiva, idonea ad interrompere l’attività dell’ente, si prevede, per un periodo temporaneo, una sorta di “espropriazione” dei poteri direttivi e gestionali che sono assunti dal commissario, sulla base delle indicazioni impartite dall’autorità giurisdizionale. In questo senso, si giustifica anche l’onere del commissario di attuare i MOG, in quanto la sostituzione trova la sua ragione d’essere anche nel far recuperare una situazione di legalità organizzativa all’ente, evitando che si possano ripetere gli stessi illeciti.

Peraltro, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, 43108/2011), in occasione della nomina in sede cautelare del commissario giudiziale, il giudice deve indicare i “compiti ed i poteri” dello stesso, tenendo conto della specifica attività svolta dall’ente e della situazione in cui si trovava il vertice della società.

Si tratta di indicazioni funzionali per la corretta gestione dell’ente nella delicata fase cautelare, ma che acquistano un rilievo particolare anche in relazione alla valutazione di adeguatezza della misura sostitutiva in questione: dinanzi alla forte invasività delle misure interdittive nella vita dell’ente il legislatore ha voluto che il giudice tenga conto della realtà organizzativa dell’ente sia per “neutralizzare il luogo nel quale si è originato l’illecito”, sia per applicare la misura valorizzandone l’adeguatezza e la proporzionalità, nel rispetto del criterio dell’extrema ratio, limitando, ove possibile, la misura solo ad alcuni settori dell’attività dell’ente.

Ed è quindi alla luce del ruolo e dei poteri conferiti al commissario nominato nella fase cautelare che va verificato il perimetro esatto della sua attività, con l’individuazione degli organi societari che devono essere sostituiti (Sez. 6, 54036/2017).

In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, è sempre possibile l’applicazione contestuale di misure cautelari interdittive e reali, atteso che il divieto di cumulabilità delle misure cautelari contenuto nell’art. 46, comma 4, riguarda esclusivamente le prime e non anche le seconde, disciplinate in maniera esaustiva ed autonoma dagli artt. 53 e 54 (SU, 26654/2008).

 

Presupposti applicativi delle misure interdittive

In tema di responsabilità da reato degli enti, l’applicazione in via cautelare delle sanzioni interdittive è subordinata, alternativamente e non congiuntamente, al conseguimento da parte dell’ente di un profitto di rilevante entità ovvero alla reiterazione nel tempo dell’illecito (Sez. 2, 4703/2012).

L’art. 13 subordina l’applicazione delle sanzioni interdittive all’esistenza di almeno una delle due condizioni indicate nelle lett. a) e b), relative, la prima, alla circostanza che l’ente abbia tratto dall’illecito un profitto di rilevante entità e la seconda al dato obiettivo della reiterazione degli illeciti.

Ciò significa che dal punto di vista cautelare il giudice deve accertare, sempre sul piano indiziario, la presenza di una delle due condizioni per poter applicare una misura cautelare, assicurando il collegamento tra sanzione definitiva e misura cautelare, che caratterizza l’intero D. Lgs. 231/2001. Il ricorso alla misura cautelare trova infatti una sua legittimazione solo attraverso una valutazione prognostica sulla possibile, futura applicazione della sanzione interdittiva.

Il profitto menzionato dall’art. 13 non corrisponde alla nozione di profitto cui si riferiscono le disposizioni in materia di confisca, quali, ad esempio, gli artt. 19, 15 comma 4, 17 comma 1, lett. c).

Queste ultime disposizioni, sebbene in maniera diversa, si preoccupano di assicurare allo Stato quanto illecitamente e concretamente conseguito dalla società attraverso la commissione degli illeciti, e oggetto del provvedimento ablativo non può che essere il profitto inteso in senso stretto, cioè come immediata ed effettiva conseguenza economica dell’azione criminosa, corrispondente tendenzialmente all’utile netto ricavato.

Nell’art. 13, invece, il riferimento al profitto del reato non è direttamente collegato ad una ipotesi di confisca, ma rappresenta un presupposto applicativo delle sanzioni interdittive temporanee. Può essere utile ricordare che la disposizione in esame ha tradotto il criterio di delega contenuto nella direttiva di cui alla L. 300/2000, art. 11, lett. 1) che prevedeva l’applicazione delle sanzioni interdittive, in aggiunta a quella pecuniaria, solo nei “casi di particolare gravità”, secondo una di quelle clausole generali con cui il legislatore spesso individua le ipotesi di maggior disvalore dell’illecito. Il richiamo al profitto di cui all’art. 13 costituisce, quindi, l’attuazione di quel criterio di delega, reso sicuramente più determinato, al quale deve essere riconosciuta l’originaria funzione di selezionare i casi più gravi da punire con le sanzioni maggiormente afflittive per l’ente.

Se questa è la funzione attribuita alla condizione applicativa contenuta nell’art. 13, allora appare estranea a questi fini una nozione di profitto intesa come utile netto effettivo, dovendo optarsi per un concetto di profitto dinamico, più ampio, che arrivi a ricomprendere vantaggi economici ulteriori, comunque conseguenti alla realizzazione dell’illecito.

Nella fase cautelare, poi, in cui l’imputazione è ancora in fieri e gli accertamenti hanno natura provvisoria, pretendere di riferirsi all’utile netto lucrato, cioè ad un valore che richiede calcoli e verifiche precisi in un raffronto tra ricavi e costi, appare oltremodo difficoltoso e contrario alla stessa funzione del procedimento incidentale volto all’emissione di provvedimenti temporanei (Sez. 6, 13061/2013).

 

Profitto di rilevante entità

La nozione di profitto di rilevante entità non può limitarsi ad un mero dato numerico, ma ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito.

Sotto il profilo qualitativo, si è chiarito come l’entità del profitto rilevante non possa essere riferita al solo profitto inteso come margine netto di guadagno, in quanto la valutazione che il giudice è chiamato a compiere non va operata alla stregua di criteri strettamente economico-aziendalistici, ma deve tenere conto di tutti gli elementi che connotano in termini di valore economico l’operazione negoziale (Sez. 6, 32627/2006, richiamata da Sez. 2, 11209/2016).

In tema di responsabilità da reato degli enti, la nozione di profitto la cui rilevante gravità legittima l’applicazione, anche a titolo cautelare, delle sanzioni interdittive ha un contenuto più ampio di quella di profitto del reato destinato alla confisca, ma comunque si riferisce ad un profitto effettivamente conseguito dalla persona giuridica, il quale non può ritenersi costituito dall’insorgere di meri crediti a favore della medesima (Sez. 6, 13061/2013 e Sez. 2, 51151/2013).

La nozione di profitto rilevante ai sensi dell’art. 13 va intesa innanzitutto come entità comprensiva dell’intero importo del contratto di appalto, anche se tale valore  certamente indicativo ed esaustivo laddove già di per sé di rilevante entità  non esaurisce l’ambito di tale nozione, dovendosi avere riguardo anche ad altri “indicatori” quali ad esempio il fatturato ottenuto a seguito del reato.

Inoltre, pure discusso è se il profitto vada limitato al vantaggio economico attuale, immediatamente conseguito dal reato o se debba ricomprendere anche l’utile potenziale (si pensi all’acquisizione di una posizione di mercato foriera di ulteriori vantaggi).

Sulla praticabilità di un’ampia accezione di profitto, ad ogni modo, si sono pronunziate  obiter dictum  le Sezioni unite secondo cui il profitto di rilevante entità richiamato nell’art. 13 evoca un concetto di profitto “dinamico” che è rapportato alla natura ed al volume dell’attività di impresa e comprende vantaggi economici anche non immediati, ma per così dire, di prospettiva, in relazione alla posizione di privilegio che l’ente collettivo può acquistare sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di questi (SU, 26654/2008).

Un’accezione ampia, dunque, di profitto che consente al giudice di valutare in tutta la sua portata il disvalore del reato e dell’illecito amministrativo, ancorata ad un giudizio di tipo quantitativo e a contenuto “economico-patrimoniale” che, alla stregua dei criteri che guidano analoghe valutazioni sul terreno penalistico, evita sfasature sul piano della determinatezza.

In tale ambito, potranno pertanto assumere valore, quali parametri rivelatori del profitto di rilevante entità: a) gli ulteriori lavori direttamente acquisiti dall’impresa in occasione della pregressa aggiudicazione illecita (ad es. a seguito di una variante in corso d’opera o quali addizioni al progetto approvato); b) l’assunzione dei requisiti per la qualificazione dell’impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici (cosiddetta attestazione SOA).

Ciò in quanto l’acquisizione e l’esecuzione di appalti a seguito di condotte illecite comporta un aumento della cifra di affari realizzata dall’impresa, idonea e necessaria per vedersi riconosciuta o accresciuta la propria “classifica” di valore, così incrementando la capacità di acquisire appalti di importo più elevato; c) l’incremento del merito di credito dell’impresa presso gli istituti bancari e/o finanziari.

L’aumento del fatturato e dell’utile aziendale in seguito all’acquisizione di appalti di natura illecita consente all’impresa di innalzare il proprio merito di credito al cospetto del sistema finanziario e di acquisire maggiori finanziamenti e a condizioni favorevoli.

È noto, infatti, che con l’avvio e la progressiva crescita del fatturato dell’impresa, il sistema bancario, posto che appaiono positive le prospettive reddituali, si mostra propenso ad accordare finanziamenti a titolo di credito.

Il volume di affari ascrivibile all’impresa costituisce, poi, uno dei requisiti (unitamente ad altri, quali quelli di stabilità patrimoniale, di innovazione tecnologica, di tenuta finanziaria, di propensione all’investimento, della tipologia di mercato di appartenenza, ecc.) del processo di valutazione dei fidi che incide sullo specifico segmento creditizio attribuibile alla clientela di impresa; d) l’aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori e subappaltatori.

L’acquisizione ed esecuzione degli appalti illeciti determina un incremento degli ordini emessi dalle imprese aggiudicatarie verso i propri fornitori e subappaltatori con aumento del potere contrattuale e della capacità di ottenere, anche in vista di appalti futuri, condizioni economiche favorevoli in termini di prezzi, qualità e tempi delle forniture, migliori condizioni di pagamento, ecc.; e) l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse aziendali.

Con l’aumento del volume di affari conseguente alle aggiudicazioni illecite, le imprese conseguono anche un aumento dell’efficienza derivante dal maggior sfruttamento delle risorse aziendali. In termini di bilancio ciò si traduce in una minore incidenza sul fatturato delle spese fisse (stipendi del personale, ammortamenti, costi fissi, oneri di sede, ecc.) e in un aumento dell’utile aziendale in termini percentuali, oltre che assoluti (ne deriva una maggiore redditività operativa); f) un maggiore accesso ad altri appalti, concorrendo in proprio, o acquisendo, in virtù delle aggiudicazioni illecite, una specializzazione di settore o attestazioni di lavori eseguiti anche ai fini di ipotesi consorziali.

Trattasi, all’evidenza, di elementi espressivi di utilità economiche che causalmente ed ordinariamente sono ricollegabili, anche in via mediata, all’aggiudicazione illecita, idonei a configurare il profitto di rilevante entità che l’impresa ha tratto dal reato. Altrimenti del tutto “riduttivo” sarebbe il ricorso ad una nozione meramente contabile di profitto che si porrebbe in contrasto con gli obiettivi di tutela che la disposizione di cui all’art. 13 mira a soddisfare.

Il riferimento alla “rilevanza” del profitto se da un lato tende ad evitare che l’ente sia esposto ad aggressioni eccessive, dall’altro, soprattutto con l’assenza di qualsiasi riferimento al parametro dell’ingiustizia, tende proprio ad impedire che movimentazioni di denaro o spostamenti di ricchezza siano tali da ledere la par condicio che deve esistere nel mercato, alterata in modo significativo da condotte riprovevoli ascrivibili a specifiche figure di reato, quale in primis quella di natura corruttiva.

Spetta, poi, al giudice del merito verificare in concreto quali siano gli indici rivelatori della “rilevante entità” del profitto.

Tale giudizio deve essere però condotto attraverso una valutazione globale dei fatti, con la presa in considerazione di tutti gli elementi dai quali sia possibile trarre l’esistenza di vantaggi economici ricollegabili causalmente al reato presupposto (o ai reati) per cui si procede (e che hanno formato oggetto di contestazione), sulla base di specifici e puntuali accertamenti (ed essendo anche possibile il ricorso a massime di esperienza), con motivazione che se congruamente e logicamente motivata è incensurabile in cassazione (Sez. 2, 11209/2016).