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Art. 25 - Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e abuso d'ufficio [10] [10-bis]

1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321, 322, commi primo e terzo, e 346-bis del codice penale, si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote. La medesima sanzione si applica, quando il fatto offende gli interessi finanziari dell'Unione europea, in relazione ai delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316 e 323 del codice penale.  [11-bis] [11-ter] [11-quinquies]

2. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 319, 319-ter, comma 1, 321, 322, commi 2 e 4, del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote.

3. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 317, 319, aggravato ai sensi dell’articolo 319-bis quando dal fatto l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, 319-ter, comma 2, 319-quater e 321 del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote. [11]

4. Le sanzioni pecuniarie previste per i delitti di cui ai commi da 1 a 3, si applicano all’ente anche quando tali delitti sono stati commessi dalle persone indicate negli articoli 320 e 322-bis.

5. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a quattro anni e non superiore a sette anni, se il reato è stato commesso da uno dei soggetti di cui all’art. 5, comma 1, lettera a), e per una durata non inferiore a due anni e non superiore a quattro, se il reato è stato commesso da uno dei soggetti di cui all’art. 5 comma 1, lettera b). [11-ter]

5-bis. Se prima della sentenza di primo grado l’ente si è efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare la prova dei reati e per l’individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite e ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, le sanzioni interdittive hanno la durata stabilita dall’articolo 13, comma 2. [11-quater]

[10] Rubrica così modificata dall’art. 1, comma 77, lett. a), n. 1), L. 6 novembre 2012, n. 190.

[10-bis] Rubrica così sostituita dall’art. 5, lett. b), n. 1), D.Lgs. 75/2020.

[11] Comma così modificato dall’art. 1, comma 77, lett. a), n. 2), L. 6 novembre 2012, n. 190.

[11-bis] Comma così modificato dalla L. 3/2019.

[11-ter] Comma così modificato dalla L. 3/2019 e da ultimo dall'art. 5 del D. Lgs. 75/2020 che ha introdotto la fattispecie prevista dall'art. 314 CP tra i reati presupposto.

[11-quater] Comma introdotto dalla L. 3/2019.

[11-quinquies] Comma così modificato dall’art. 5, lett. b), n. 2), D.Lgs. 75/2020.

Elenco dei reati richiamati dalla norma

Art. 314 CP (Peculato)

Art. 317 CP (Concussione)

Art. 318 CP (Corruzione per l’esercizio della funzione)

Art. 319 CP (Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio)

Art. 319-bis CP (Circostanze aggravanti del delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio)

Art. 319-ter CP (Corruzione in atti giudiziari)

Art. 319-quater CP (Induzione indebita a dare o promettere utilità)

Art. 321 CP (Pene per il corruttore)

Art. 322 CP (Istigazione alla corruzione)

Art. 346-bis CP (Traffico di influenze illecite)

 

Rassegna di giurisprudenza

Corruzione

Il D. Lgs. 231/2001 modella la responsabilità degli enti giuridici sulla figura degli enti singolarmente considerati, senza prendere in considerazione il fenomeno  pure espressamente disciplinato dal diritto societario (artt. 2497 e ss. CC)  dei gruppi, ovvero della concentrazione di una pluralità di società sotto la direzione unificante ed il controllo finanziario di una società capogruppo o holding.

Il fatto che, formalmente, le società facenti parte del gruppo siano giuridicamente autonome e indipendenti, non impedisce che le attività di ciascuna costituiscano espressione di una comune politica d’impresa, generalmente voluta dalla holding partecipante nell’ottica della diversificazione dei rischi.

Il fenomeno ha posto, quindi, una serie di interrogativi in relazione alla configurabilità della responsabilità da reato, cui la dottrina ha cercato inizialmente di rispondere, in attesa dell’intervento della giurisprudenza; tra le plurime questioni pratiche che possono porsi, assume in questa sede rilievo la configurabilità, o meno, della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 della capogruppo in riferimento ad un reato commesso nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata. Il D. Lgs. 231/2001 non contiene un’espressa disciplina in tema di concorso di persone.

La possibilità che un soggetto operante (in posizione verticistica od anche subordinata) nella holding istighi o determini un soggetto operante in posizione verticistica in una controllata a commettere un reato nell’interesse od a vantaggio di quest’ultima ha comportato che si discutesse anche sull’applicabilità in tema di responsabilità degli enti dell’art. 110 CP, se inteso quale norma generale.

Parte della dottrina ha, in proposito, osservato che l’ammissibilità del concorso di enti giuridici nell’illecito amministrativo dipendente da reato avrebbe potuto costituire una possibile soluzione del problema della responsabilità degli enti in rapporto al fenomeno dei gruppi di imprese: «va comunque osservato come, anche in caso di riconosciuta natura penale della responsabilità degli enti, non potrebbe ammettersi senz’altro l’operatività, rispetto alle persone giuridiche, dell’art. 110 CP: il carattere di clausola d’incriminazione suppletiva, proprio di tale disposizione, sembra richiedere comunque un’espressa previsione nel sottosistema in esame, del tipo di quella contenuta nell’art. 26 a proposito del tentativo».

Altra dottrina ha anche osservato che «è concreto il rischio che, attraverso una artificiosa gestione della valvola del concorso di persone nel reato, i vertici apicali della controllante vengano ritenuti responsabili di quello commesso nell’ambito della gestione della controllata in quanto ritenuti destinatari di una posizione di garanzia in grado di attribuire rilevanza all’eventuale omessa vigilanza sull’operato di quest’ultima».

La possibile rilevanza dell’interesse di gruppo era già stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità civile, che, prima della riforma del diritto societario, aveva preso atto che determinati atti compiuti in apparente pregiudizio di una delle società appartenenti al gruppo per favorirne un’altra, potessero trovare giustificazione nel conseguimento dell’interesse del gruppo medesimo, inteso come «veicolo di realizzazione mediata dell’oggetto sociale delle sue componenti».

Ed è proprio a quest’ottica “compensativa” che si è da ultimo ispirato anche il legislatore, allorquando, nel riformare il diritto societario, ha con maggior convinzione dimostrato di accettare l’ineluttabile realtà del fenomeno dell’aggregazione d’imprese, e di riconoscere l’enucleabilità di un “interesse di gruppo” idoneo a giustificare anche le scelte di gestione apparentemente svantaggiose per le singole componenti del gruppo.

Si spiega così l’inserimento nel codice civile delle norme di cui agli artt. 2497 (che prevede un espresso limite alla responsabilità degli amministratori della società o dell’ente capogruppo per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento ai soci ed ai creditori delle altre società del gruppo, qualora questi siano per l’appunto compensati «dal risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento») e 2497-ter (che ammette la possibilità che le decisioni assunte dalle società del gruppo vengano influenzate dall’attività di direzione e coordinamento della capogruppo e che dunque siano funzionali alla realizzazione di un interesse esterno alla controllata, imponendo solo che tale ultimo venga esplicitato onde consentire un sindacato sulla sua effettiva corrispondenza al più generale interesse del gruppo, perciò riferibile anche alla stessa controllata e non all’esclusivo interesse della controllante o di altra società del gruppo).

Il legislatore penale, a sua volta, ha fatto riferimento al concetto di gruppo in sede di definizione delle fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 CC), e nell’art. 2634 CC ha escluso l’ingiustizia del profitto, che integra il dolo specifico di quel reato, quando lo svantaggio per la società, cui appartiene l’amministratore infedele, venga compensato da un vantaggio che gli provenga dalle dinamiche di gruppo.

Sia pure in relazione ai reati fallimentari, la giurisprudenza è stata sempre ferma nel ritenere che l’interesse delle singole società non “cede” rispetto all’interesse del gruppo.

Si è, così, ritenuto che integra la distrazione rilevante ex art. 216 e 223, comma 1, Legge Fallimentare (bancarotta fraudolenta impropria) la condotta di colui che trasferisca, senza alcuna contropartita economica, beni di una società in difficoltà economiche – di cui sia socio ed effettivo gestore – ad altra del medesimo gruppo in analoghe difficoltà, considerato che, in tal caso, nessuna prognosi positiva è possibile e che, pur a seguito dell’introduzione nel vigente ordinamento dell’art. 2634, comma 3, CC, la presenza di un gruppo societario non legittima per ciò solo qualsivoglia condotta di asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società imponga all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse, ancorché riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito (Sez. 5, 7326/2008).

Si è, inoltre, ritenuto che, per escludere la natura distrattiva di un’operazione infragruppo, non è sufficiente allegare tale natura intrinseca, dovendo invece l’interessato fornire l’ulteriore dimostrazione del vantaggio compensativo ritratto dalla società che subisce il depauperamento in favore degli interessi complessivi del gruppo societario cui essa appartiene (Sez. 5, 48518/2011), e che, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l’interessato a dover fornire la prova di tale circostanza (Sez. 5, 29036/2012).

Questa Corte (Sez. 5, 24583/2011) ha inizialmente ritenuto che, in tema di responsabilità degli enti, la società capogruppo (la c.d. holding) o altre società facenti parte di un “gruppo” possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purché nella consumazione del reato presupposto concorra anche almeno una persona fisica che agisca per conto della “holding” stessa o dell’altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime, non essendo sufficiente – per legittimare un’affermazione di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001 della holding o di altra società appartenente ad un medesimo gruppo – l’enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero ad un c.d. generale «interesse di gruppo».

La Corte di cassazione si era trovata ad esaminare la questione in relazione ad una fattispecie nella quale occorreva, in particolare, valutare se fosse possibile estendere a tutte le società controllate facenti parte di un gruppo la responsabilità da reato configurabile in capo alla capogruppo e ad altre controllate.

Nell’ambito di un più ampio procedimento, con plurimi imputati e plurime imputazioni, riguardanti una serie di operazioni corruttive intervenute nell’esercizio di attività d’impresa nel settore sanitario, e le conseguenti ipotesi di responsabilità da reato degli enti operanti, il GUP aveva ritenuto che per alcune società, organiche ad un gruppo facente capo ad un soggetto rinviato a giudizio, fosse necessario il giudizio dibattimentale (risultando ex actis che esse avevano tratto vantaggio dalle operazioni di corruzione poste in essere dal predetto soggetto), mentre aveva deliberato il proscioglimento di altre quattro società controllate, facenti parte dello stesso gruppo, osservando che esse non operavano nel settore sanitario e non avevano ricevuto vantaggi dalla corruzione.

Il PM aveva presentato ricorso, deducendo che «il vantaggio, e quindi l’interesse» delle quattro società prosciolte sarebbe emerso proprio nella fase dibattimentale, e che comunque esso era già desumibile, considerando che il predetto soggetto “leader” era l’amministratore di fatto di tutte le società del gruppo, sia di quelle rinviate a giudizio che di quelle prosciolte. Il collegio ha rigettato il ricorso, ricordando che i presupposti per la configurabilità della responsabilità da reato degli enti sono plurimi, occorrendo: a) la commissione di uno dei reati-presupposto indicati dal D. Lgs. 231/2001: questa condizione ricorreva nel caso di specie, poiché, secondo l’ipotesi accusatoria, il reato-presupposto era la corruzione; b) la commissione del reato-presupposto da parte di «una persona fisica che abbia con l’ente rapporti di tipo organizzativo-funzionale (...) rivesta una posizione qualificata all’interno dell’ente»: nella specie, peraltro, i legali rappresentanti delle società prosciolte erano, a loro volta, stati prosciolti dalle accuse di corruzione (e finanziamento illecito dei partiti politici), con decisione che la Corte di cassazione, con la stessa sentenza in commento, aveva confermato.

E la Corte ha evidenziato che «la holding o altre società del gruppo possono rispondere ai sensi della legge 231, ma è necessario che il soggetto che agisce per conto delle stesse concorra con il soggetto che commette il reato»: non è, pertanto, sufficiente un generico riferimento al gruppo per legittimare l’affermazione della responsabilità da reato (commesso da una delle controllate) della società capogruppo o delle altre controllate.

Nella specie, in fatto, si è, inoltre, ritenuto che correttamente il GUP avesse escluso l’esistenza di elementi atti a corroborare l’ipotesi che il presunto amministratore di fatto dell’intero gruppo (rinviato a giudizio per corruzione) avesse agito, oltre che nell’interesse proprio o di terzi, anche nell’interesse concorrente dei predetti enti; c) la commissione del reato-presupposto nell’interesse od a vantaggio del singolo ente della cui responsabilità da reato si discuta, «interesse e vantaggio che devono essere verificati in concreto, nel senso che la società deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto».

In proposito, la Corte ha ritenuto che correttamente il GUP avesse escluso la ravvisabilità di un vantaggio delle quattro società prosciolte, che non operavano nel settore sanitario (nell’ambito del quale soltanto si erano estrinsecate le condotte corruttive ipotizzate) e non risultavano avere instaurato rapporti economici pur indirettamente riconducibili alle predette attività corruttive.

Il principio affermato dalla sentenza 24583/2011 è stato successivamente ribadito, almeno in apparenza, da Sez. 5, 4324/2013, relativa ad un caso nel quale, peraltro, è stata ritenuta la responsabilità amministrativa della società controllata in conseguenza della commissione di un reato presupposto immediatamente posto in essere nell’interesse della controllante.

La prima SPA, società controllata nell’ambito del gruppo de quo, era stata ritenuta dalla Corte di appello responsabile di illecito amministrativo dipendente dal reato di cui sopra e condannata alla sanzione (meno afflittiva di quella applicata in primo grado) ritenuta di giustizia.

L’affermazione di responsabilità della predetta SPA era stata motivata richiamando l’interesse della stessa a far assegnare ad un proprio titolo un valore superiore a quello di mercato, con condotta peraltro riverberatasi anche a vantaggio della SPA controllante. Detto ente aveva presentato ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e difetto di motivazione, in particolare osservando che: - la condotta era stata realizzata nell’ambito della funzione di gestione del portafoglio titoli affidata all’imputato dalla seconda SPA; - la società emittente di un titolo non ha interesse diretto al valore dello stesso; - era irrilevante l’eventuale interesse della quarta SPA, controllante, non estendendosi la responsabilità degli enti per illecito amministrativo derivante da reato all’interno dei gruppi di società. Il ricorso è stato rigettato perché ritenuto infondato.

Premesso che, ai fini dell’affermazione di responsabilità degli enti, è sufficiente che il soggetto autore del reato abbia agito per un interesse non esclusivamente proprio o di terzi, ma riconducibile anche alla società della quale lo stesso è esponente (Sez. 6, 3608/2009), si è, in questo caso, osservato, sulla scia del preesistente e dichiaratamente condiviso orientamento di questa Corte (Sez. 5, 24583/2011), che, «contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, siffatto titolo di responsabilità è individuabile anche all’interno di un gruppo di società, potendo la società capogruppo rispondere per il reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata laddove il soggetto agente abbia perseguito anche un interesse riconducibile alla prima». Nella fattispecie concreta in esame si discuteva, peraltro, del fenomeno opposto, ovvero della possibilità o meno di estendere alla controllata la responsabilità da reato ex D. Lgs. 231/2001 configurabile nei confronti della capogruppo.

E’ stata poi ritenuta irrilevante la circostanza dell’avere l’imputato agito nell’ambito di un incarico affidatogli dalla seconda SPA, laddove tale azione potesse essere ricollegata ad un interesse della prima SPA, della cui responsabilità da reato si discuteva, evidenziando che «la ravvisabilità di tale interesse veniva adeguatamente motivata nella sentenza impugnata con riferimento non, come lamentato dalla ricorrente, all’emissione da parte della [prima SPA] del titolo oggetto delle contrattazioni contestate, ma alla posizione della società all’interno del gruppo ed al vantaggio che per la stessa ne derivava dall’incremento del valore del titolo».

Il vantaggio conseguente alla commissione del reato presupposto accertato era stato, pertanto, immediatamente conseguito dalla società controllante, ma doveva ritenersi congrua la motivazione dei giudici di merito, secondo i quali anche la controllata aveva tratto vantaggio dall’incremento di valore del proprio titolo – direttamente e materialmente rivoltosi a vantaggio della controllante – in considerazione della propria posizione all’interno del gruppo interessato, potendo quindi ritenersi che il soggetto-persona fisica autore del reato presupposto avesse agito anche nell’interesse della controllata de qua.

Nonostante le premesse teoriche dalle quali la sentenza 4324/2013 ha dichiarato di voler partire, sembrerebbe, in realtà, in tal modo avere implicitamente riassunto vigore e rilevanza quel concetto di “interesse di gruppo” che la dottrina più recente e la stessa giurisprudenza di questa Corte (il riferimento è sempre alla sentenza 24583/2011) avevano mostrato di voler ridimensionare.

Il collegio condivide e ribadisce l’orientamento espresso da Sez. 5, 24583/2011, ovvero che, in tema di responsabilità da reato od altro illecito degli enti, la società capogruppo (la c.d. holding) o altre società facenti parte di un “gruppo” possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purché nella consumazione del reato presupposto concorra anche almeno una persona fisica che agisca per conto della “holding” stessa o dell’altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime, non essendo sufficiente – per legittimare un’affermazione di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001 della holding o di altra società appartenente ad un medesimo gruppo – l’enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero ad un c.d. generale «interesse di gruppo».

Invero, l’affermata necessità di prendere in considerazione i rapporti concretamente sussistenti tra più società e le effettive ricadute – in favore di una o più di esse – della commissione di un reato formalmente nell’interesse od a vantaggio di una soltanto di esse risponde all’interrogativo in esame, quanto alla configurabilità, o meno, della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 della capogruppo in riferimento ad un reato commesso nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata.

L’orientamento accolto non restringe (alle sole imprese facenti formalmente parte del gruppo, in presenza di un «interesse di gruppo»), bensì amplia (anche fuori dai casi in cui sia formalmente configurabile la sussistenza del fenomeno del gruppo di imprese, civilisticamente inteso) l’ambito della responsabilità da reato alle società anche solo sostanzialmente collegate, in tutti i casi nei quali – in concreto – all’interesse o vantaggio di una società si accompagni anche quello concorrente di altra (od altre) società, ed il soggetto-persona fisica autore del reato presupposto sia in possesso della qualifica soggettiva necessaria, ex art. 5, ai fini della comune imputazione dell’illecito amministrativo da reato de quo.

Invero, il riferimento al c.d. “interesse di gruppo” può risultare fuorviante: come correttamente osservato dalla dottrina, «è sufficiente evidenziare che in una situazione di aggregazione di imprese (indipendentemente dalla natura dei rapporti che la caratterizzano, che potrebbero anche risultare diversi da quelli presi in considerazione dalle norme in precedenza passate in rassegna) una di queste può attraverso la consumazione del reato perseguire un proprio interesse anche quando il risultato si traduca in un vantaggio per un’altra componente dell’aggregato o, nell’immediato, nel soddisfacimento di un interesse particolare di quest’ultima.

Ma la fattispecie descritta è tutt’altro che sconosciuta alla normativa sulla responsabilità degli enti, identificandosi proprio con quell’interesse “misto” (...) identificabile attraverso il combinato disposto degli artt. 5 comma 2, 12 comma 1 lett. a) e 13 ultimo comma.

Non dunque un indistinto “interesse di gruppo”, ma un coacervo di interessi che trovano semmai nella dinamica del gruppo una attuazione unitaria attraverso la consumazione del reato». A ben vedere, la soluzione del problema non potrebbe essere diversa. Nulla, infatti, legittima la presunzione della coincidenza dell’interesse di gruppo con quello immediato delle singole società controllate: al contrario, all’uopo occorre sempre una attenta disamina delle circostanze del caso concreto, onde verificare se, effettivamente, la controllante abbia avuto interesse o tratto vantaggio dall’azione della singola controllata.

Richiamata la natura della responsabilità da reato degli enti (se non formalmente penale, quanto meno costituente tertium genus caratterizzato da accenti di afflittività di natura inequivocabilmente penale), nessun automatismo (in termini di ineludibile riferibilità alla holding dei reati-presupposto commessi nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata) sarebbe ipotizzabile in difetto di una espressa previsione di legge, ostandovi i principi dettati dalla Costituzione in tema di responsabilità penale, ed in particolare la non configurabilità di ipotesi di responsabilità per fatto altrui.

Non appare inutile, a tal proposito, ricordare che questa Corte (Sez. 6, 27735/2010) ha già dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sollevata proprio con riferimento all’art. 27 Cost., evidenziando che l’ente non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, bensì proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda (la riassunzione si deve a Sez.  2, 52316/2016).

In tema di responsabilità degli enti dipendente dal reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, l’ente può essere ritenuto responsabile, senza che vi sia una violazione del principio di irretroattività stabilito dall’art. 2, se all’accordo corruttivo, risalente ad un periodo antecedente l’entrata in vigore del Decreto 231, seguano una o più dazioni di denaro in un periodo successivo a quello suddetto.

Infatti, sebbene il delitto di corruzione si perfezioni anche solo con l’accettazione della promessa di denaro, ove segua l’effettiva dazione del denaro il momento consumativo si sposta in avanti fino a coincidere con la dazione medesima.

E nel caso di plurimi pagamenti detto momento non può che protrarsi sino all’ultimo, in quanto le singole dazioni, pur trovando la loro origine nell’accordo iniziale, tacitamente confermano ogni volta quell’accordo e, lungi dal costituire un “post factum” non punibile, integrano la fattispecie delittuosa (Tribunale di Milano, Sez. 10, 3300/2007).

Ai fini della configurazione del delitto di corruzione propria, pur non dovendosi ritenere necessario individuare lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, occorre che dal suo comportamento emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli, poiché solo in tal modo può ritenersi integrata la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (fattispecie in cui una società farmaceutica aveva istituito un’apposita struttura al fine di sostenere ed incrementare la vendita dei medicinali prodotti, attraverso elargizioni di liberalità in denaro o di altri “benefits” in favore di medici e farmacisti, o dei relativi enti di appartenenza, è stata esclusa la sussistenza dell’ipotizzato delitto di corruzione) (Sez. 6, 34417/2008).

In materia di responsabilità amministrativa degli enti, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca (art. 53 in relazione all’art. 19) è prodromico all’applicazione di una sanzione principale, che, al pari delle altre sanzioni previste dall’art. 9 dello stesso decreto legislativo, può essere applicato solo a seguito dell’accertamento della responsabilità dell’ente.

Proprio dalla natura di sanzione principale della confisca discende che il “fumus delicti” richiesto per l’adozione del sequestro non può che coincidere con i “gravi indizi di responsabilità” dell’ente richiesti per l’applicazione della sanzione.

Per l’effetto, i gravi indizi che consentono di disporre il sequestro devono coincidere con quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, anche indiretti, che sebbene non valgano di per sé a dimostrare “oltre ogni dubbio” l’attribuibilità dell’illecito all’ente con la certezza propria del giudizio di cognizione, tuttavia globalmente apprezzati nella loro consistenza e nella loro concatenazione logica, consentono di fondare, allo stato e tenuto conto della peculiarità della fase cautelare, una qualificata probabilità di colpevolezza dell’ente per l’illecito amministrativo contestato.

Solo dopo la verifica della sussistenza dei gravi indizi, il giudice potrà poi procedere ad accertare il requisito del “periculum”, che riguarda esclusivamente l’individuazione e la quantificazione del profitto (o del prezzo) assoggettabile a confisca (nella fattispecie, relativa a ricorso avverso la decisione del TDR che, accogliendo l’appello del PM, aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto a carico dell’ente indagato per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25, in relazione al reato di corruzione commesso nel suo interesse da parte dei vertici societari, la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione, evidenziando come il tribunale non avesse proceduto ad accertare la sussistenza dei gravi indizi sulla responsabilità dell’ente e si fosse, invece, limitato a effettuare l’accertamento del “fumus” in base al criterio dell’astratta sussumibilità della fattispecie concreta in quella legale) (Sez. 6, 34505/2012).

 

Corruzione internazionale

Anche all’ente indagato per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 derivante dal reato di cui all’art. 322-bis CP (corruzione internazionale) si applicano le misure cautelari interdittive. Il comma 4 dell’art. 25 ha la funzione di estendere l’ambito soggettivo di quegli stessi delitti richiamati nei primi tre commi.

Pertanto, il richiamo contenuto nel comma 5 dell’art. 25 deve considerarsi rivolto alle ipotesi base di corruzione indicate nei commi 2 e 3, comprensive anche delle estensioni soggettive contemplate nel comma 4 (Sez. 6, 42701/2010).

Nel caso di corruzione internazionale (art. 322-bis CP), vi è la giurisdizione del giudice italiano in presenza dell’esecuzione in Italia di parti rilevanti della condotta contestata (Sez. 6, 42701/2010).