Art. 25-septies - Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro [42]
1. In relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell’articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
3. In relazione al delitto di cui all’articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi.
[42] Articolo inserito dall’art. 9, comma 1, L. 3 agosto 2007, n. 123 e, successivamente, così sostituito dall’art. 300, comma 1, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
Elenco dei reati richiamati dalla norma
Art. 589 CP (Omicidio colposo)
Art. 590 CP (Lesioni personali colpose)
Art. 55 TUSL (Sanzioni per il datore di lavoro e il dirigente)
Rassegna di giurisprudenza
Responsabilità degli organi apicali
Allorché gli imputati persone fisiche rivestono al momento del fatto ruoli apicali all’interno della società, rientranti tra quelli previsti dall’art. 5 comma 1 lett. a), l’ente, a norma del successivo art. 6, per andare esente da responsabilità, deve provare che: a) sono stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del fatto, MOG idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei MOG e di curare il loro aggiornamento è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo; c) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b.
In altri termini, la responsabilità dell’ente per i reati di omicidio colposo o lesioni colpose commessi da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro può essere esclusa soltanto dimostrando l’adozione ed efficace attuazione dei MOG e l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei MOG (Sez. 4, 2544/2016).
Fattispecie colpose. Nozione di interesse e vantaggio
Onde impedire un'applicazione automatica della norma di cui all’art. 5 che ne dilati a dismisura l'ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione (che implica quasi sempre un risparmio di spesa il quale può, però, non essere rilevante) - ove il giudice di merito accerti l'esiguità del risparmio di spesa derivante dall'omissione delle cautele dovute, in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro (ed in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare tali cautele, abbia agito proprio allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica, e - quindi - in una situazione in cui l'omessa adozione delle cautele dovute sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un'errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori), ai fini del riconoscimento del requisito del vantaggio occorre la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse: la prova, cioè, dell'effettivo, apprezzabile (cioè non irrisorio) vantaggio non desumibile, sic et simpliciter, dall'omessa adozione della misura di prevenzione dovuta (Sez. 1. 23236/2021).
L’art. 5 pone il problema della compatibilità tra fattispecie di reato caratterizzate dalla non volontarietà dell’evento (i delitti colposi di evento) e il finalismo della condotta da cui scaturisce la responsabilità dell’ente, nel cui interesse o vantaggio quei reati devono essere stati commessi.
Le Sezioni unite nella decisione Thyssen Krupp (SU, 38343/2014), dopo aver rilevato che l’introduzione della responsabilità dell’ente con il D. Lgs. 231/2001 ha costituito una grande innovazione nella sfera del diritto punitivo ed ha alimentato una letteratura ormai vastissima; e che non meno rilevante e significativo appare lo sforzo giurisprudenziale volto a concretizzare l’applicazione della nuova normativa si sono soffermate sulla natura del nuovo sistema sanzionatorio e sui profili di legittimità costituzionale dello stesso per poi affermare, quanto al criterio di imputazione oggettiva, che: “L’art. 5 detta la regola d’imputazione oggettiva dei reati all’ente: si richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio. (...) Secondo l’impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al decreto legislativo, i due criteri d’imputazione dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione.
Si ritiene che il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologica del reato, apprezzabile a priori, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”.
La tesi dualistica trova accoglimento anche in giurisprudenza (Sez. 2, 3615/2006, Sez. 5, 10265/2014; Sez. 6, 24559/2013), quanto al fatto che l’art. 25-septies ha segnato l’ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati costituenti presupposto della responsabilità degli enti, senza tuttavia modificare il criterio d’imputazione oggettiva, per adattarlo alla diversa struttura di tale categoria di illeciti, che è insorto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell’evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso all’idea di interesse.
D’altra parte, nei reati colposi di evento sembra ben difficilmente ipotizzabile un caso in cui l’evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell’ente. Tale singolare situazione ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile.
Tali dubbi e le estreme conseguenze che se ne desumono sono infondati.
Essi condurrebbero alla radicale caducazione di un’innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal D. Lgs. 121/2011, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l’art. 25-undecies che ha esteso la responsabilità dell’ente a diversi reati ambientali.
Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.
Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. L’adeguamento riguarda solo l’oggetto della valutazione che, coglie non più l’evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell’ordinamento penale.
Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente».
Successivamente alla predetta sentenza delle Sezioni unite, la Corte di cassazione (Sez. 4, 31003/2015) ha riaffermato il principio in detta sentenza affermato (secondo il quale, in materia di responsabilità amministrativa ai sensi del D. Lgs. 231/2001, ex art. 25-septies, l’interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale), precisando che nei reati colposi l’interesse/vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione sub specie, dell’aumento di produttività che ne può derivare sempre per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa “favorita” dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe “rallentato” quantomeno nei tempi.
Sviluppando questo ordine di considerazioni, occorre qui ribadire che i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.
È questa l’unica interpretazione che non svuota di contenuto la previsione normativa e che risponde alla ratio dell’inserimento dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose nell’elenco dei reati fondanti la responsabilità dell’ente, in ottemperanza ai principi contenuti nella legge delega: indubbiamente, non rispondono all’interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l’ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro.
I termini “interesse” e “vantaggio” esprimono concetti giuridicamente diversi e possono essere alternativi: ciò emerge dall’uso della congiunzione “o” da parte del legislatore nella formulazione della norma in questione e, da un punto di vista sistematico, dalla norma di cui all’art. 12, che al comma 1 lett. a) prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, ma non procurargli in concreto alcun vantaggio.
Ne consegue che (Sez. 2, 3615/2006) il concetto di “interesse” attiene ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di “vantaggio” implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (e, dunque, una valutazione ex post).
Nei reati colposi d’evento, il finalismo della condotta prevista dall’art. 5 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo.
Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione).
Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.
Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio.
Tale accertamento, nel caso di specie, risulta essere stato compiuto dai giudici di entrambi i gradi di merito che hanno ritenuto il vantaggio economico indiretto, costituito dal risparmio dei costi non sostenuti, che la società ha tratto dalla mancata adozione delle misure di sicurezza richieste dalla legge per la prevenzione di infortuni sul lavoro (mancata nomina del RSSP, omessa valutazione del rischio specifico, messa in sicurezza del luogo dì lavoro, mancata formazione professionale dei lavoratori addetti ecc.) (Sez. 4, 16173/2018).
Nei reati colposi d’evento, il finalismo della condotta prevista dall’art. 5 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo.
Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione).
Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.
Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio, ad esempio, risparmiando i costi necessari all’acquisto di un’attrezzatura di lavoro più moderna ovvero all’adeguamento e messa a norma di un’attrezzatura vetusta (Sez. 4, 2544/2016).
Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione).
Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto. Il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.
Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio (Sez. 4, 26713/2018).
È possibile correlare l’interesse o il vantaggio dell’ente anche ai reati colposi di evento, collegandoli non all’evento ma alla condotta che abbia violato regole cautelari (a sua volta ispirata dallo scopo di ottenere risparmi dei costi di gestione) e consentito la consumazione del reato (Tribunale di Novara, 1° ottobre 2010).
L’esistenza dell’interesse o del vantaggio dell’ente deve essere accertata in riferimento alla condotta colposa e non all’evento. Questo criterio interpretativo è suggerito dal principio di conservazione per il quale le disposizioni normative devono essere interpretate secondo una prospettiva che ne consente l’applicazione mentre vanno escluse le altre che le svuoterebbero di senso (Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta, 11 gennaio 2010).
Il risparmio di spese derivante dall’omessa adozione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire il reato non integra il requisito dell’interesse o del vantaggio per l’ascrizione di responsabilità all’ente, non essendo obbligatoria l’adozione del “compliance program” da parte della “corporation” stessa (Tribunale di Tolmezzo, 23 gennaio 2012).
È sufficiente, ai fini dell’affermazione della responsabilità ex art. 25-septies, l’interesse ad una rapida realizzazione dell’opera, direttamente collegabile con l’accantonamento dei presidi di sicurezza, necessari ad una operatività idonea ad evitare l’evento colposo (Tribunale di Milano, Sez. 9, sentenza del 15 ottobre 2015).
Questioni sulla causalità (con particolare riferimento alla colpa)
…i principi affermati dalle Sezioni unite nella sentenza Franzese (SU, 30328/2002)
In linea di principio, l’ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità per cui il nesso di condizionamento è escluso solo se, eliminando dalla somma degli antecedenti la condotta umana, si constata che l’evento si sarebbe verificato comunque; nei reati omissivi impropri il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento.
Nei reati omissivi, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non facere. La condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo, ipotetico, fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto.
Alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio (SU, 38343/2014).
Rivelatosi inadeguato un metodo di indagine fondato su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, si è detto che il giudice deve confrontare, avendo chiara l’irripetibilità di ciascun caso concreto, le generalizzazioni approssimate ed incerte, che a volte sono necessariamente connesse all’indagine causale, con le prove disponibili; ciò al fine di verificare, altrettanto concretamente, se in quello specifico caso esse possano costituire un’attendibile chiave di spiegazione dell’evento o se, invece, l’impianto probatorio mostri elementi che pongono in crisi la spiegazione probabile.
Si deve adottare, dunque, un metodo induttivo che tragga spunto dal fatto storico nel suo concreto verificarsi e dalla più probabile ricostruzione di esso secondo lo schema argomentativo dell’abduzione.
La probabilità logica sulla quale si viene a fondare l’accertamento del nesso di condizionamento non riguarda la legge esplicativa utilizzata, bensì i profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile ed alle circostanze del caso concreto.
Questo è un passaggio fondamentale della nota sentenza Franzese (SU, 30328/2002), che, per evitare fraintendimenti, è meglio definire in termini di «forte corroborazione dell’ipotesi». Il modello normativo del procedimento logico di cui si parla si trova nella sequenza del ragionamento dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192, comma 2, CPP, dall’art. 191, comma 1, CPP per quanto attiene alla valutazione della prova in generale e dall’art. 546, comma 1 lett. e), CPP per quanto attiene alla valutazione di quelle che possiamo chiamare le «falsificazioni», ossia le evidenze che devono essere vagliate per escludere che vi siano risultanze istruttorie che mettono in crisi l’ipotesi stessa.
Ma bisogna prestare attenzione al significato del termine induzione nella scienza giuridica; l’induzione può, infatti, fornire anche la spiegazione causale retrospettiva di un accadimento e la sentenza Franzese ne parla in termini di «copiosa caratterizzazione del fatto storico nel suo concreto verificarsi».
Si tratta di una valutazione, ossia di un apprezzamento essenzialmente discrezionale che il giudice compie in sede di decisione, in base al grado di conferma che le prove acquisite conferiscono all’ipotesi sul fatto.
Essa sfugge ad ogni rigida determinazione quantitativa: si tratta del momento principale in cui trova manifestazione il prudente apprezzamento o il libero convincimento del giudice.
Né la deduzione né l’induzione producono leggi, ma semplicemente ne traggono le conseguenze e le generalizzano. L’unico argomento che produce informazione è l’abduzione.
Appurato il metodo d’indagine, occorre chiarire come si procede nel processo all’accertamento del nesso di condizionamento. Lungo l’itinerario che conduce dal probabilismo dello scenario causale (la causalità generale) alla certezza del nesso causale nel caso storico si colloca infatti un tema impegnativo, quello dei modelli di ragionamento probatorio.
È in primo luogo essenziale esser certi che il coefficiente probabilistico esprima effettivamente una relazione causale.
Appurato in termini generali il rapporto causa-effetto sulla base di un coefficiente probabilistico, le informazioni generalizzanti dovranno confrontarsi in chiave congetturale con emergenze di carattere specifico.
Infatti, la causalità cui si interessa il diritto penale è sempre quella di eventi singoli. Le informazioni causali possono essere probabilistiche; ma non può esserlo il giudizio finale inerente al caso oggetto del giudizio, che deve attingere il livello della ragionevole certezza.
D’altra parte, in presenza di una generalizzazione probabilistica sicuramente causale il coefficiente probabilistico non è sempre importante: ciò che è veramente cruciale è che non sussista una diversa, or plausibile ipotesi eziologica.
Il cuore problematico della causalità è sempre quello della pluralità delle cause. informazioni causali possono essere probabilistiche; ma non può esserlo il giudizio finale inerente al caso oggetto del giudizio, che deve attingere il livello della ragionevole certezza.
D’altra parte, in presenza di una generalizzazione probabilistica sicuramente causale il coefficiente probabilistico non è sempre importante: ciò che è veramente cruciale è che non sussista una diversa, or plausibile ipotesi eziologica. Il cuore problematico della causalità è sempre quello della pluralità delle cause.
La più recente giurisprudenza delle Sezioni unite ha chiarito la distinzione tra indagine esplicativa ed indagine predittiva; si tratta di svolgere un ragionamento predittivo, anche se rivolto al passato, quando il giudice deve rispondere alla domanda sulla evitabilità di un evento.
Nella prima, si possono utilizzare generalizzazioni probabilistiche purchè conducano ad una spiegazione dei fatti non insidiata da alternative ipotesi causali; nella seconda, invece, il coefficiente probabilistico che contrassegna ciascuna generalizzazione inerente a casi simili assume maggiore peso ai fini del giudizio prognostico richiesto al giudice.
Pare corretto affermare che, nell’ambito di un’inferenza di tipo deduttivo, dal generale al particolare, è di essenziale rilievo il grado di certezza o di probabilità della premessa maggiore, che si trasmette tal quale alla conclusione del ragionamento. Il problema davvero cruciale è, tuttavia, che il ragionamento causale, nell’ambito delle scienze storiche, non è quasi mai di tipo deduttivo; e che in realtà i ragionamenti causali sono di due ben distinte categorie. Da un lato abbiamo i ragionamenti esplicativi, che guardano al passato.
Di fronte ad un accadimento ci si occupa di spiegarne le ragioni, di individuare i fattori che lo hanno generato. Lo storico e l’investigatore sono professionisti che regolarmente compiono questo genere di ragionamenti. Il giudice, a sua volta, sviluppa un ragionamento esplicativo quando si chiede quali siano state le ragioni dello sviluppo di una situazione che ha condotto all’evento illecito oggetto del processo.
Dall’altro lato si collocano i ragionamenti predittivi, che riguardano la previsione, appunto, di eventi futuri. Tali ragionamenti sono frequenti nell’ambito scientifico: sia in quello sperimentale che in quello applicativo. Infatti la predittività costituisce il fondamentale connotato che caratterizza una legge scientifica e tale attitudine viene quindi sperimentalmente controllata proprio producendo e controllando previsioni.
D’altra parte, l’utilizzazione delle leggi scientifiche avviene in campo pratico producendo previsioni, con ragionamento deduttivo che proietta sui casi concreti le informazioni causali che la legge stessa esprime. Tale genere di ragionamento compie, ad esempio, il medico che formula la prognosi di una malattia.
Anche il giudice articola particolari previsioni quando si trova a chiedersi cosa sarebbe accaduto se un’azione fosse mancata o se, al contrario, fosse stato tenuto un comportamento richiesto dall’ordinamento: si tratta di ragionamenti controfattuali che riguardano, ad esempio, la causalità, o la cosiddetta causalità della colpa.
Occorre considerare che, assai spesso, un evento può trovare la sua causa, alternativamente, in diversi fattori. In tale frequente situazione, le generalizzazioni che enunciano le diverse categorie di relazioni causali costituiscono solo delle ipotesi causali alternative.
Emerge, così, che il problema dell’indagine causale è, nella maggior parte dei casi, quello della pluralità delle cause. Esso può essere plausibilmente risolto solo cercando sul terreno, cioè nell’ambito delle prove disponibili, i segni, i fatti, che solitamente si accompagnano a ciascun ipotizzabile fattore causale e la cui presenza o assenza può quindi accreditare o confutare le diverse ipotesi prospettate.
Il ragionamento probatorio è dunque di tipo ipotetico, congetturale: ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla.
Sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare una accreditata ipotesi eziologica; a meno che dai reperti fattuali tragga alimento un’alternativa, plausibile ipotesi esplicativa.
L’affidabilità di un assunto è temprata, come detto, non solo e non tanto dalle conferme che esso riceve, quanto dalla ricerca disinteressata e strenua di fatti che la mettano in crisi, che la falsifichino (SU, 38343/2014).
Nel caso dell’omissione la condotta rilevante per il diritto, cioè la mancata condotta impeditiva, non essendo né reale né certa, non può far parte della spiegazione dell’evento, ma risulta anzi bisognosa a sua volta di essere spiegata cioè descritta.
All’interprete incombe quindi l’onere di ricostruire dettagliatamente, descrivendola, l’azione impeditiva, di cui vanno accertate le concrete chances di salvezza del bene o di annullamento del rischio. Non si ha allora più una prognosi postuma (che essendo appunto postuma non è affatto una prognosi ma una ricostruzione del passato) bensì una prognosi in senso proprio.
Così nell’omissione la spiegazione ha struttura, e non solo fonte, probabilistica, trasformandosi invero in una prognosi.
Tale dimensione probabilistica apre la strada ad una possibile valorizzazione del paradigma della diminuzione del rischio che, in astratto, potrebbe sostituire, almeno per la fattispecie omissiva, la formula condizionalistica: il paradigma non spiegherebbe più l’evento, che assurgerebbe al ruolo di mera condizione di punibilità, ma prognosticherebbe il rischio estrinsecato dalla condotta che costituirebbe l’unico elemento tipizzante della fattispecie omissiva; ove non si voglia abbandonare il paradigma condizionalistico, esso va comunque integrato con elementi prognostici resi indispensabili dalle caratteristiche del controfattuale omissivo (questa ricostruzione sistematica si deve a Sez. 4, 30577/2016).
Datore di lavoro, dirigente e impresa appaltante rispondono della morte del dipendente della cooperativa appaltatrice che, durante la pausa per la cena, cade accidentalmente su un nastro mobile non adeguatamente protetto e muore (nella fattispecie, i profili di colpa sono stati identificati nella mancanza di misure di sicurezza blocchi e ripari delle parti mobili del nastro, omessa predisposizione di un documento di valutazione dei rischi da interferenze e carenza di formazione dei lavoratori (Sez. 4, 18073/2015).
…la concausa derivante dalla condotta abnorme o negligente del lavoratore
Delicati problemi pone il principio espresso dall’art. 41, comma 2, CP Le discussioni sulla causalità giuridica si sono da sempre incentrate sulla discussa formula dell’art. 41 capoverso, secondo cui le cause (cioè le condizioni) sopravvenute escludono la rilevanza causale delle condizioni preesistenti quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.
L’opinione largamente prevalente, fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, ha per lo più ritenuto che l’unico modo per conferire un senso alla formula è quello di ritenere che si parli di cause sopravvenute che non siano da sole sufficienti a determinare l’evento, e costituiscano in realtà delle concause giacché, se ci si trovasse di fronte a cause dotate di piena autonomia, la disposizione sarebbe inutile, ovvia e ripetitiva degli artt. 40, comma 1, e 41, comma 1, CP.
Si ritiene, quindi, che la norma intenda esercitare una funzione limitativa rispetto al principio di equivalenza causale espresso nel comma precedente, alludendo a concause qualificate, capaci di assumere su di sé, da un punto di vista normativo, la spiegazione dell’imputazione causale: il codice accoglie la teoria della condicio sine qua non ma vi apporta limitazioni rese necessarie dall’esigenza di evitare la proliferazione indiscriminata dell’imputazione del fatto, per effetto della eccessiva ampiezza del nesso di condizionamento determinato dal principio di equivalenza causale (Sez. 4, 21588/2007).
Anche l’illecito comportamento altrui soggiace a tale disciplina. Se ne desume il principio per cui, in tema di rapporto di causalità, ai sensi dell’art. 41, comma 3, CP, il nesso di causalità non resta escluso dal fatto altrui, cioè quando l’evento è dovuto anche all’imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poiché il fatto umano, involontario o volontario, realizza anch’esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali (Sez. 4, 31679/2010), a meno che tale comportamento non sia qualificabile come concausa qualificata capace di assumere di per sé rilievo dirimente nella spiegazione del processo causale.
La norma dettata dall’art. 41, comma 2, CP pone, in altre parole, un limite all’imputazione di un evento ad una determinata condotta umana tutte le volte in cui si sia accertata la presenza di una causa, appartenente ad una serie causale completamente autonoma ovvero inseritasi nella serie causale dipendente dalla condotta dell’imputato e purtuttavia dotata di forza preponderante, dirimente nella determinazione dell’evento. Il tema dell’interruzione del nesso causale ricorre con insistenza proprio nell’ambito di processi inerenti ad infortuni sul lavoro in ragione della pluralità delle condotte dei soggetti che concorrono alla gestione del rischio lavorativo, non ultima la condotta dello stesso lavoratore.
Si sono, pertanto, da un lato, individuate le varie figure di «garanti», correlandole al rischio da ciascuno gestito, al fine di separare le responsabilità (SU, 38343/2014; Sez. 4, 33329/2015); d’altro canto, si è cercato di enucleare un criterio di valutazione della condotta del lavoratore idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra il comportamento datoriale e l’infortunio.
Con riguardo a quest’ultimo profilo, va considerata interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore che si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso.
Tale comportamento è «interruttivo» non perché «eccezionale» ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. La condotta colposa del lavoratore era stata, in passato, ritenuta idonea ad escludere la responsabilità dell’imprenditore, dei dirigenti e dei preposti in quanto esorbitante dal procedimento di lavoro al quale egli era addetto oppure concretantesi nella inosservanza di precise norme antinfortunistiche (Sez. 4, 1484/1990).
In alcune sentenze il principio è stato ribadito, e si è altresì sottolineato che la condotta esorbitante deve essere incompatibile con il sistema di lavorazione o, pur rientrandovi, deve consistere in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, tali non essendo i comportamenti tipici del lavoratore abituato al lavoro di routine (Sez. 4, 40164/2004); in altre si è sostenuto che l’inopinabilità può essere desunta o dalla estraneità al processo produttivo o dall’estraneità alle mansioni attribuite (Sez. 4, 12115/1999) o dal carattere del tutto anomalo della condotta del lavoratore (Sez. 4, 2172/1986).
Se, dunque, da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro.
In sintesi, si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; cionondimeno, quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio ed aver adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro.
La giurisprudenza di legittimità è, infatti, ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l’infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (Sez. 4, 22044/2012).
Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli (Sez. 4, 4114/2011).
A monte di tali considerazioni si può individuare la differente funzione degli obblighi del datore di lavoro, ma anche del lavoratore, in relazione al rischio lavorativo. La formazione dei lavoratori è, infatti, funzionale a consentire loro di percepire il rischio, laddove il datore di lavoro è previamente tenuto a valutarlo onde approntare le misure prevenzionistiche (Sez. 4, 8883/2016) (questa ricostruzione sistematica si deve a Sez. 2, 30557/2016).
In tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale” (Sez. 4, 22249/2014).
Sempre con riferimento al concetto di “atto abnorme”, si è pure precisato che tale non può considerarsi il compimento da parte del lavoratore di un’operazione che, pure inutile e imprudente, non sia però eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo. L’abnormità del comportamento del lavoratore, dunque, può apprezzarsi solo in presenza della imprevedibilità della sua condotta e, quindi, della sua ingovernabilità da parte di chi riveste una posizione di garanzia.
Sul punto, si è peraltro efficacemente sottolineato che tale imprevedibilità non può mai essere ravvisata in una condotta che, per quanto imperita, imprudente o negligente, rientri comunque nelle mansioni assegnate, poiché la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standard di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro.
Il che, lungi dall’avallare forme di automatismo che svuotano di reale incidenza la categoria del “comportamento abnorme”, serve piuttosto ad evidenziare la necessità che siano portate alla luce circostanze peculiari – interne o esterne al processo di lavoro – che connotano la condotta dell’infortunato in modo che essa si collochi al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento “...è “interruttivo” (per restare al lessico tradizionale) non perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare” (Sez. 4, 49821/2012 (la ricostruzione complessiva si deve a Sez. 4, 28557/2016).
In caso di infortunio sul lavoro, non è consentito al datore di lavoro invocare a propria discolpa, per farne discendere l’interruzione del nesso causale (articolo 41, comma 2, CP), la legittima aspettativa della diligenza del lavoratore, allorquando lo stesso datore di lavoro versi in re illicita per non avere, per propria colpa, impedito l’evento lesivo cagionato dallo stesso infortunato, consentendogli di operare sul luogo di lavoro in condizioni dì pericolo, allorquando appunto la condotta sia stata posta in essere nell’ambito dell’attività lavorativa e delle mansioni demandate (Sez. 4, 31003/2015).
La condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute.
Ciò perché si esclude tradizionalmente che presenti le caratteristiche dell’abnormità il comportamento, pur imprudente, del lavoratore che non esorbiti completamente dalle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli e mentre vengono utilizzati gli strumenti di lavoro ai quali è addetto, essendo l’osservanza delle misure di prevenzione finalizzata anche a prevenire errori e violazioni da parte del lavoratore (Sez. 4, 31003/2015).
La condotta abnorme del lavoratore esonera da responsabilità il datore di lavoro solo quando: sia idonea a interrompere il nesso causale tra la responsabilità del datore di lavoro e l’evento lesivo (Sez. Lavoro, 12046/2014); presenti un livello di stranezza e imprevedibilità tale da porsi al di fuori delle possibilità di controllo dei garanti (Sez. 4, 22247/2014); abbia natura eccentrica rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Sez, 4, 17404/2018); sia stata realizzata in autonomia e in ambito estraneo alle mansioni affidate al lavoratore o, laddove rientri in tali mansioni, si risolva in un comportamento radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, 40164/2004).
La colpa concorrente dei lavoratori non esime da responsabilità i soggetti indicati come garanti dalle norme del TULS che abbiano violato specifiche prescrizioni antinfortunistiche (Sez. 4, 22 gennaio 2007).
… il rischio
In tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, compete al giudice di merito, investito da specifica deduzione, accertare preliminarmente l'esistenza di un modello organizzativo e di gestione ex art. 6 del d. Igs. n. 231/2001; poi, nell'evenienza che il modello esista, che lo stesso sia conforme alle norme; infine, che esso sia stato efficacemente attuato o meno nell'ottica prevenzionale, prima della commissione del fatto (Sez. 4, 43656/2019).
Il nuovo sistema di sicurezza aziendale si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi e tale logica guida anche la gestione dei rischi in caso di affidamento dei lavori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all’interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, gravando sempre sul datore di lavoro, in questo caso anche committente, l’obbligo di predisporre il DVR derivanti dalle possibili interferenze tra le diverse attività che si svolgono, in successione o contestualmente, all’interno di una stessa area e gravando, specularmente, su tutti i datori di lavoro ai quali siano stati appaltati segmenti dell’opera complessa, l’obbligo di collaborare all’attuazione del sistema prevenzionistico globalmente inteso, sia mediante la programmazione della prevenzione concernente i rischi specifici della singola attività, rispetto ai quali la posizione di garanzia permane a carico di ciascun datore di lavoro, sia mediante la cooperazione nella prevenzione dei rischi generici derivanti dall’interferenza tra le diverse attività, rispetto ai quali la posizione di garanzia si estende a tutti i datori di lavoro ai quali siano riferibili le plurime attività coinvolte nel processo causale da cui ha tratto origine l’infortunio.
Il presupposto dell’obbligo del committente di neutralizzare i rischi interferenziali in caso di appalto cosiddetto endoaziendale si rinviene nell’art. 7, comma 3, D. Lgs. 626/94, che è stato modificato ponendo espressamente a carico del datore di lavoro committente l’obbligo di stilare il DUVRI, con riferimento alle attività che si svolgono all’interno della sua azienda, indipendentemente dal fatto che vi siano taluni rischi da interferenze che possano riguardare esclusivamente i dipendenti dell’appaltatore ovvero i lavoratori autonomi presenti nell’ambiente di lavoro e non anche i lavoratori dipendenti del committente.
Si tratta di una regola evidentemente finalizzata ad individuare con certezza il titolare primario della posizione di garanzia relativa alla valutazione dei rischi da interferenze in colui che ha la posizione di dominio del rischio correlato alla compresenza nella sua unità produttiva di più imprese.
Tale obbligo deve intendersi, poi, esclusivamente chiarito con l’entrata in vigore dell’art. 26, comma 1, TUSL, in base al quale si intende per datore di lavoro committente colui che ha la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo (Sez. 4, 14167/2015).
Correlato a questa previsione normativa è l’obbligo del giudice di merito di chiarire, preliminarmente, se una determinata attività abbia dato luogo ad un rischio interferenziale. Si tratta, in altre parole, di analizzare se sussista il rischio derivante dalla convergenza di articolazioni di aziende diverse verso il compimento di un’opera unitaria (Sez. 4, 14167/2015), ovvero se il giudizio si debba limitare a verificare il tema della compiutezza e della adeguatezza delle misure previste nel DVR (Sez. 4, 5420/2012).
Il sistema introdotto dal D. Lgs 231/2001 impone alle imprese di adottare un modello organizzativo diverso e ulteriore rispetto a quello previsto dalla normativa antinfortunistica, onde evitare in tal modo la responsabilità amministrativa. Non a caso, mentre i documenti antinfortunistici sono redatti a mente degli artt. 26 e 28 D. Lgs. 81/2008, il MOG del D. Lgs 231/2001 è contemplato dall’ art. 30 D. Lgs. 81/2008, segnando così una distinzione non solo nominale ma anche funzionale.
Non è possibile che una semplice analisi dei rischi valga anche per gli obiettivi del D. Lgs 231/2001.
Anche se sono ovviamente possibili parziali sovrapposizioni, è chiaro che il modello teso ad escludere la responsabilità societaria è caratterizzato anche dal sistema di vigilanza che, pure attraverso obblighi diretti ad incanalare le informazioni verso la struttura deputata al controllo sul funzionamento e sull’osservanza, culmina nella previsione di sanzioni per le inottemperanze e nell’affidamento di poteri disciplinari al medesimo organismo dotato di piena autonomia (Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta, 11 gennaio 2010).
…i garanti e le posizioni di garanzia
La vigente tutela penale dell’integrità psicofisica dei lavoratori risente della scelta di fondo del legislatore di attribuire rilievo dirimente al concetto di prevenzione dei rischi connessi all’attività lavorativa e di ritenere che la prevenzione si debba basare sulla programmazione del sistema di sicurezza aziendale nonchè su un modello «collaborativo» di gestione del rischio da attività lavorativa. Sono stati, così, delineati i compiti di una serie di soggetti, anche dotati di specifiche professionalità, nonché degli stessi lavoratori, funzionali ad individuare ed attuare le misure più adeguate a prevenire i rischi connessi all’esercizio dell’attività d’impresa.
Le forme di protezione antinfortunistica, dopo l’entrata in vigore dei decreti d’ispirazione comunitaria, tendono, in altre parole, principalmente a minimizzare i rischi bilanciando gli interessi connessi alla sicurezza del lavoro con quelli che vi possano entrare in potenziale contrasto.
Ne deriva una diversa prospettiva dalla quale il giudice del merito è tenuto ad accertare la sussistenza delle posizioni di garanzia e le, conseguenti, responsabilità penali per omissione di dovute cautele; se il nuovo sistema di sicurezza aziendale si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi, si tratta, in sostanza, di ampliare il campo di osservazione dell’evento infortunistico, ricomprendendo nell’ambito delle omissioni penalmente rilevanti tutti quei comportamenti dai quali sia derivata una carente programmazione dei rischi.
È evidente, da questa diversa prospettiva, il rilievo che assumono, innanzitutto, i compiti non delegabili di predisposizione del DVR e di nomina del RSPP da parte del datore di lavoro.
Quanto all’individuazione delle diverse posizioni di garanzia nell’ambito dell’amministrazione di un ente, giova richiamare testualmente le chiare indicazioni delle Sezioni unite (SU, 38343/2014, Espenhahn).
La prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro.
Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’azienda o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Il dirigente costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli. Il dirigente, dunque, nell’ambito del suo elevato ruolo nell’organizzazione delle attività, è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso; e, quindi, nell’attuazione degli adempimenti che l’ordinamento demanda al datore di lavoro.
Tale ruolo, naturalmente, è conformato ai poteri gestionali di cui dispone concretamente. Ciò che rileva, quindi, non è solo e non tanto la qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta. Infine, il preposto è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico.
Per ambedue le ultime figure occorre tener conto, da un lato, dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono base e limite della responsabilità; dall’altro, del ruolo di vigilanza e controllo.
Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono. Dette definizioni di carattere generale subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni.
Ed è ben possibile che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i ruoli in questione. Il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione, sicché egli risponde degli infortuni occorsi ai dipendenti (Sez. 4, 9491/2013).
Nell’ambito dello stesso organismo può, dunque, riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Tale complessità fa sì che l’individuazione della responsabilità penale passi, non di rado, attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Va richiamato, poi, il ruolo del RSPP.
La giurisprudenza di legittimità ammette la responsabilità anche in capo a questa figura, qualora si accerti che la mancata adozione di una misura precauzionale da parte del datore di lavoro sia frutto dell’omissione colposa di un suo compito professionale.
Tale figura istituzionale del sistema prevenzionistico, insieme al medico competente, svolge un importante ruolo di collaborazione con il datore di lavoro. Il servizio, ora previsto dagli artt. 31 e ss. TUSL, deve essere composto da persone munite di specifiche capacità e requisiti professionali adeguati ai bisogni dell’organizzazione; ed ha rilevanti compiti, che consistono nell’individuazione e valutazione dei rischi, nonché nel proporre le misure preventive e protettive conseguenti a tale individuazione. Il RSPP svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è privo di autonomia decisionale: esso, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze.
Sebbene il RSPP non sia destinatario in prima persona di obblighi sanzionati penalmente e svolga un ruolo non operativo ma di mera consulenza, egli è l’anello di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro, per cui talune sue omissioni possono rilevare ai fini della spiegazione causale dell’evento illecito. Il caso più eloquente si verifica allorché il RSPP manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche.
La responsabilità di tale figura è stata, del resto, ammessa in diverse pronunce (Sez. 4, 49821/2012). Il RSPP può, dunque, assumere il ruolo di garante in relazione all’obbligo di svolgere in autonomia, nel rispetto del sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro e di dissuaderlo da scelte esiziali per la sicurezza.
Tuttavia, i compiti di consulenza spettanti a tale figura professionale non possono estendersi sino ad includervi la vigilanza sull’effettivo svolgimento delle attività di formazione e di informazione dei lavoratori, a meno che non vi sia espressa delega di funzioni datoriali in tal senso. L’obbligo di vigilanza sull’effettivo svolgimento dell’attività di formazione/informazione dei lavoratori è, infatti, strettamente inerente all’osservanza della normativa antinfortunistica che la legge pone a carico di soggetti diversi dal RSPP.
Dalla normativa di settore (art. 31, commi 2 e 5, TUSL), emerge che i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale.
Essi svolgono compiti di consulenza ed i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell’amministrazione dell’azienda, vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario (Sez. F, 32357/2010).
Ciò non esclude che anche al RSPP possano essere ascritte responsabilità in materia, ma i casi che hanno comportato l’affermazione di responsabilità di tale figura professionale riguardano, per lo più, l’omessa individuazione di un rischio o l’omessa segnalazione di una situazione pericolosa la cui conoscenza avrebbe messo il datore di lavoro nella condizione di evitare l’evento (questa ricostruzione sistematica si deve a Sez. 2, 30557/2016).
In tema di infortuni sul lavoro, il RSPP, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all’occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (Sez. 4, 4941/2018).
Lesioni colpose
È ravvisabile la responsabilità di cui al D. Lgs. 231/2001 allorché sia affermata la responsabilità penale per le lesioni colpose subite da un subappaltatore provocate di una persona fisica operante per conto di un ente che ha omesso per negligenza di adottare gli accorgimenti necessari a prevenire ed evitare infortuni sul lavoro (in special modo omettendo di adottare MOG idonei a tal fine, non tenendo conto delle ripetute segnalazioni di rischio del responsabile settore logicistica e consentendo così all’ente di risparmiare i costi che avrebbe dovuto sopportare per l’eliminazione del rischio) (Sez. 4, 52129/2017).
La declaratoria di insussistenza dell’illecito amministrativo non ha valore di giudicato interno ai fini dell’esclusione della penale responsabilità per il reato di lesioni ai danni del lavoratore (Sez. 4, 43271/2016).
In caso di commissione del delitto di lesioni aggravate dalla violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, le sanzioni interdittive devono essere applicate obbligatoriamente (Sez. 4, 42503/2013).