Art. 19 - Confisca

1. Nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.

2. Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Di particolare rilievo la sanzione della confisca, irrogabile con la sentenza di condanna, che si atteggia a sanzione principale e obbligatoria. Essa viene configurata sia nella sua veste tradizionale, che cade cioè sul prezzo o sul profitto dell’illecito, sia nella sua forma “moderna”, quella “per equivalente”, in vista di una più efficace azione di contrasto contro la criminalità del profitto.

La confisca “tradizionale” colpisce il prezzo del reato, costituito dalle cose, dal denaro o da altre utilità date o promesse per determinare o istigare alla commissione del reato, e il profitto del reato, da intendersi come una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato.

La confisca “per equivalente”, già conosciuta nel nostro ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando non è possibile l’apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che l’ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria.”

 

Rassegna di giurisprudenza

Natura obbligatoria della confisca

La previsione della “confisca per equivalente” trova la sua ratio nell’esigenza di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredirne l’oggetto principale, ossia i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume i tratti distintivi di una vera e propria sanzione.

In questa prospettiva, la confisca per equivalente è rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per l’individuazione dei beni in cui si “incorpora” il profitto iniziale, nonché a ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego. 

Ciò comporta che tale confisca (a differenza dell’ordinaria confisca prevista dall’art. 240 CP, che può avere a oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) può riguardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno alcun collegamento diretto con il singolo reato (fattispecie in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 19 e 53) (Sez. 1, 42894/2009).

La confisca prevista dall’art. 19  sia quella di cui al comma 1, sia quella, per equivalente, di cui al comma 2 , ha carattere obbligatorio (e non facoltativo), che deriva direttamente dalla natura di sanzione principale e autonoma affermata solennemente dall’art. 9, comma 1 (Sez. 6, 19051/2013).

 

Requisiti positivi e negativi per la confisca

L’istituto della confisca disciplinato nell’art. 19 trova un suo fondamentale presupposto nella sentenza di condanna per uno dei reati ivi tassativamente previsti, dalla cui commissione sia derivata l’acquisizione di un profitto illecito per la società, sicché, per quanto riguarda il rispetto dei principi di legalità e di irretroattività ribaditi dall’art. 2, occorre fare comunque riferimento alla data di realizzazione delle condotte costituenti reato e non al momento di percezione del profitto stesso.

Il principio di legalità stabilito dall’art. 2 subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione legislativa espressa, sia in ordine all’illecito, sia in relazione al tipo di sanzione, precisando che deve essere entrata in vigore prima della commissione del fatto.

Ne discende che è la commissione del fatto a dover essere presa in considerazione al fine di accertare l’applicabilità della sanzione, e per “fatto” deve appunto intendersi ciò che costituisce il reato. In altri termini, è il momento consumativo del reato che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9, nel senso che, in base alla connessa previsione di cui all’art. 2, l’intera disciplina sanzionatoria del decreto non trova applicazione in relazione a “fatti” commessi prima della sua entrata in vigore.

Il momento di acquisizione del profitto, invece, è del tutto irrilevante ai fini ora considerati, in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca, che incontra il suo necessario presupposto nell’esistenza, appunto, di un reato che risulti commesso nella vigenza del su indicato Decreto 231.

Anche con riferimento all’ipotesi del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’art. 19, è sempre e solo l’accertata consumazione del reato, dunque, a determinare la possibilità di acquisizione coattiva del profitto illecitamente conseguito.

Alla stregua di tali considerazioni risulta evidente, in ragione della sua natura tipicamente sanzionatoria, che l’applicazione del vincolo cautelare reale e della successiva misura ablativa non può essere fatta retroagire a condotte realizzate anteriormente alla rilevata esistenza dei presupposti e delle condizioni per la stessa configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, assumendo rilievo, al riguardo, solo le condotte temporalmente coperte dalla vigenza, nel catalogo dei reati-presupposto, della fattispecie associativa e degli illeciti in materia ambientale.  (Sez. 6, 3635/2014).

L’art. 19, comma 2 indica due requisiti, ricorrendo i quali il profitto del reato può non essere interamente confiscato: «a) che ci sia un profitto che sia stato materialmente sequestrato»; «b) che vi sia un danneggiato che abbia richiesto (ed ottenuto) la restituzione di una parte della somma sequestrata».

La legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, e di quest’ultima, non viene, pertanto, meno unicamente in considerazione dell’astratta possibilità che le somme da sequestrare possano successivamente essere restituite al danneggiato (Sez. 2, 6459/2011).

Né potrebbe ritenersi che la confisca per equivalente renderebbe inoperante la clausola prevista dall’art. 19, comma 1: difatti, la confisca deve essere disposta soltanto per quella parte del profitto del reato presupposto che non possa essere restituito al danneggiato.

Il che, evidentemente, consente di escludere la confiscabilità della somma sequestrata per equivalente, ove tale somma o parte di essa abbia già formato oggetto di restituzione, specie laddove, come nella specie, profitto e danno siano assunti come valori corrispondenti e strutturalmente simmetrici, rispettivamente conseguito, l’uno, dall’autore dell’illecito, e cagionato, l’altro, alla parte offesa (Sez. 2, 52316/2016).

 

Nozione di profitto confiscabile

Il profitto del reato deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica.

Non costituisce profitto del reato un qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, immateriale o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali. Il profitto non coincide con una mera aspettativa di fatto, con una mera “chance”, salvo che questa, in quanto fondata su circostanze specifiche, non presenti caratteri di concretezza ed effettività tale da costituire essa stessa una entità patrimoniale a sé stante, autonoma, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione in relazione alla sua proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto.

La mera possibilità per la società di partecipare in futuro a gare di appalto o di essere inserita negli elenchi dei soggetti contrattisti non costituisce un vantaggio concreto valutabile in relazione alla sfera patrimoniale del soggetto e nemmeno una “chance” autonomamente qualificabile in termini di entità patrimoniale automa e quindi di profitto (Sez. 4, 1754/2018).

Nella definizione ai fini del sequestro e della confisca del profitto del reato deve prescindersi in generale da parametri di tipo prettamente aziendalistico quali quelli del profitto lordo o profitto netto tanto più se l’impresa è totalmente votata all’illecito (Sez. 3. 39373/2015).

L’istituto della confisca disciplinato nell’art. 19 trova un suo fondamentale presupposto nella sentenza di condanna per uno dei reati ivi tassativamente previsti, dalla cui commissione sia derivata l’acquisizione di un profitto illecito per la società, sicché, per quanto riguarda il rispetto dei principi di legalità e di irretroattività ribaditi dall’art. 2, occorre fare comunque riferimento alla data di realizzazione delle condotte costituenti reato e non al momento di percezione del profitto stesso.

Il principio di legalità stabilito dall’art. 2 subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione legislativa espressa, sia in ordine all’illecito, sia in relazione al tipo di sanzione, precisando che deve essere entrata in vigore prima della commissione del fatto.

Ne discende che è la commissione del fatto a dover essere presa in considerazione al fine di accertare l’applicabilità della sanzione, e per “fatto” deve appunto intendersi ciò che costituisce il reato. In altri termini, è il momento consumativo del reato che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9, nel senso che, in base alla connessa previsione di cui all’art. 2, l’intera disciplina sanzionatoria del decreto non trova applicazione in relazione a “fatti” commessi prima della sua entrata in vigore. Il momento di acquisizione del profitto, invece, è del tutto irrilevante ai fini ora considerati, in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca, che incontra il suo necessario presupposto nell’esistenza, appunto, di un reato che risulti commesso nella vigenza del su indicato Decreto 231.

Anche con riferimento all’ipotesi del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’art. 19, è sempre e solo l’accertata consumazione del reato, dunque, a determinare la possibilità di acquisizione coattiva del profitto illecitamente conseguito.

Alla stregua di tali considerazioni risulta evidente, in ragione della sua natura tipicamente sanzionatoria, che l’applicazione del vincolo cautelare reale e della successiva misura ablativa non può essere fatta retroagire a condotte realizzate anteriormente alla rilevata esistenza dei presupposti e delle condizioni per la stessa configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, assumendo rilievo, al riguardo, solo le condotte temporalmente coperte dalla vigenza, nel catalogo dei reati-presupposto, della fattispecie associativa e degli illeciti in materia ambientale.  (Sez. 6, 3635/2014).

Sulla base di quanto previsto dall’art. 19, comma 2, la confisca per equivalente, essendo finalizzata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, anche dei vantaggi economici immateriali, fra i quali ben possono farsi rientrare, a titolo esemplificativo, quelli prodotti da economie di costi ovvero da mancati esborsi, ossia da comportamenti che determinano non un miglioramento della situazione patrimoniale dell’ente collettivo ritenuto responsabile di un illecito dipendente da reato, ma un suo mancato decremento.

Al riguardo, tuttavia, è necessario considerare le specifiche implicazioni della linea interpretativa tracciata dalle Sezioni unite (SU, 26654/2008), laddove si è osservato che la nozione di risparmio di spesa presuppone “un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo”, concretamente determinato dalla contestata condotta delittuosa (che nel caso ivi esaminato, peraltro, riguardava la diversa ipotesi di truffa).

Ne discende che quella nozione non può essere intesa in termini assoluti, quale profitto cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile, ossia entro una prospettiva limitata all’apprezzamento di una diminuzione o semplicemente del mancato aumento del passivo, ma deve necessariamente intendersi in relazione ad un “ricavo introitato” dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia nel senso di una non diminuzione dell’attivo.

Occorre, pertanto, un profitto materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto senza omettere l’erogazione delle spese dovute.

Né è possibile, del resto, colpire più volte, attraverso un’ingiustificata duplicazione di oneri a carico dell’ente, le medesime somme di denaro, una volta considerate in termini positivi, ossia come accrescimento patrimoniale, ed un’altra volta in termini negativi, come risparmio di spese, potendo essere sottoposta ad espropriazione solo l’eccedenza tra l’incremento patrimoniale effettivamente maturato e quello che sarebbe stato conseguito senza l’indebito risparmio di spese.

Vale osservare, al riguardo, che il legislatore non ha inteso configurare lo strumento ablativo avente ad oggetto “somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato” quale istituto sanzionatorio autonomo, sganciato da ogni collegamento con la confisca diretta di cui al primo comma della disposizione su richiamata, ossia dalla preventiva possibilità di individuare un vantaggio materialmente affluito nel patrimonio dell’ente collettivo quale profitto dell’attività criminosa allo stesso riferibile, ma ne ha sottolineato l’incidenza nei confronti di utilità di valore equipollente al compendio economico originato in misura tangibile dalla commissione del reato, comportando, in tal modo, una effettiva, e non ipotetica, modificazione del patrimonio del soggetto attivo.

L’istituto della confisca per equivalente, infatti, è azionabile solo nelle ipotesi in cui sia impossibile procedere al sequestro o alla confisca cd. di proprietà, come la stessa Relazione illustrativa del D. Lgs. 231/01 esplicitamente conferma, allorquando pone in evidenza che siffatto strumento ablativo mira ad evitare che “l’ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”.

Ne discende, ancora, che ai fini della configurabilità della nozione di profitto quale risparmio di spesa conseguito dall’ente si rende necessario individuare la presenza di un risultato economico positivo, determinato in concreto dalla realizzazione delle contestate condotte di reato: evenienza, questa, non affiorata, né in alcun modo riscontrabile nel caso in esame, dove l’ipotizzato danno ambientale cagionato da quelle condotte non può certo ritenersi equivalente ad un incremento patrimoniale ottenuto dalle società ricorrenti quale diretta ed immediata conseguenza dei reati presupposto.

È il rispetto dello stesso principio di tassatività delle sanzioni (ex artt. 2 e 9) ad escludere, in assenza di un introito effettivo, la possibilità di assoggettare allo strumento della confisca per equivalente il valore di costi illegittimamente non sostenuti dall’ente collettivo per effetto della mancata adozione di misure preventive espressamente prescritte dalla legge negli specifici settori di riferimento (Sez. 6, 3635/2014).

Nell’ambito del D. Lgs. 231/2001, l’istituto della confisca si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare. L’art. 9, comma 1, lett. c) prevede la confisca come sanzione; i suoi contenuti sono indicati dal successivo art. 19, a norma del quale “Nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato”.

Ai sensi dell’art. 19, comma 2, inoltre, è ammessa la confisca anche nella forma per equivalente. Questa ipotesi di confisca costituisce, quindi, sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre pure previste nel decreto in esame.

L’art. 6, comma 5 prevede la confisca del profitto del reato, commesso da persone che rivestono funzioni apicali, anche nell’ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilità, per avere validamente adottato e attuato i MOG (compliance programs) previsti e disciplinati dalla stessa norma. In questa ipotesi, riesce difficile cogliere la natura sanzionatoria della misura ablativa, che si differenzia strutturalmente da quella di cui all’art. 19, proprio perché difetta una responsabilità dell’ente.

L’art. 15, comma 4 prevede che, in caso di commissariamento dell’ente, “il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività” debba essere confiscato. In questo caso, la confisca assume natura di sanzione sostitutiva, come emerge dalla Relazione allo Schema del decreto legislativo, nella quale si legge che «è intimamente collegata alla natura comunque sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell’attività è pur sempre legata alla sostituzione di una sanzione, sì che l’ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta».

La confisca, infine, costituisce ancora una volta sanzione principale nell’art. 23, comma 2 che configura la responsabilità dell’ente per il delitto di cui al primo comma della stessa norma, commesso nell’interesse o a vantaggio del medesimo ente.

Le Sezioni unite (SU, 26654/2008) hanno inizialmente chiarito che, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone.

In motivazione, si è precisato che, nella ricostruzione della nozione di profitto oggetto di confisca, non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico   quali ad esempio quelli del “profitto lordo” e del “profitto netto”  , ma che, al contempo, tale nozione non può essere dilatata fino a determinare un’irragionevole e sostanziale duplicazione della sanzione nelle ipotesi in cui l’ente, adempiendo al contratto, che pure ha trovato la sua genesi nell’illecito, pone in essere un’attività i cui risultati economici non possono essere posti in collegamento diretto ed immediato con il reato.

Il principio è stato successivamente riaffermato da Sez. 6, 33226/2015 secondo la quale: «In tema di responsabilità da reato degli enti, il profitto del reato si identifica solo con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto e non anche con i vantaggi indiretti derivanti dall’illecito»; ed ancora da Sez. 6,  23013/2016, per la quale: «In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 del D. Lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere ricompresa nel profitto anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone» e merita di essere condiviso, non potendo trarsi consapevoli indicazioni in senso contrario da un inciso presente in altra, successiva, decisione delle Sezioni unite (SU, 38343/2014), dalla cui complessiva motivazione emerge con chiarezza l’intenzione di operare unicamente un compiuto riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali in tema, senza discostarsi dai principi affermati e ribaditi dalla fondamentale sentenza delle stesse Sezioni unite del 2008, pure adesivamente richiamati (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 2, 52316/2016).

In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere ricompresa nel profitto anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone (SU, 26654/2008 e, più di recente, Sez. 6, 23013/2016 e Sez. 5, 38243/2018).

In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’art. 19 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone.

In motivazione si è precisato, tuttavia, che: a) il contratto stipulato in violazione di norme penali è nullo se la norma violata ha ad oggetto la stessa stipula del contratto (reato contratto), mentre è efficace, ancorché  annullabile, se la norma violata è sì imperativa ma attiene al comportamento dei contraenti, che può al più essere fonte di responsabilità; b) nel caso di reato contratto il profitto confiscabile è costituito dal ricavo lordo; c) nel caso di reati in contratto a prestazioni corrispettive, il profitto viene identificato con il vantaggio economico derivato dal reato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ ente  (SU, 26654/2008 e Sez. 6, 23013/2016, richiamate da Sez. 2, 51655/2017).

Nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un’ipotesi di cd. reato in contratto, il profitto confiscabile ex art. 19 deve essere determinato da un lato, assoggettando ad ablazione i vantaggi di natura economico-patrimoniale costituenti diretta derivazione causale dell’illecito così da aver riguardo esclusivamente dell’effettivo incremento del patrimonio dell’ente conseguito attraverso l’agire illegale e, dall’altro, escludendo i proventi eventualmente conseguiti per effetto di prestazioni lecite effettivamente svolte in favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico, pari alla “utilitas” di cui si sia giovata la controparte (Sez. 6, 53430/2014).

La confisca del profitto del reato presupposto, in quanto sanzione principale ed autonoma, ha natura obbligatoria, anche nella forma per equivalente, atteso che il ricorso da parte del legislatore alla locuzione “può”, nel secondo comma dell’art. 19, deve essere imputato non già all’intenzione di configurare la suddetta confisca di valore come meramente facoltativa, bensì alla volontà di vincolare il dovere del giudice di procedervi alla previa verifica dell’impossibilità di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato e dell’effettiva corrispondenza del valore dei beni oggetto di ablazione al valore di quest’ultimo (Sez. 6, 19051/2013).

Il profitto confiscabile è solo quello costituito da un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale dell’ente beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica ed avvinto all’azione criminosa da una stretta relazione causale (Sez. 5, 10265/2014).

Ai fini della confisca ex art. 19, dal prezzo indicato nel contratto (dunque al “lordo”) devono essere defalcate le somme riscosse dall’ente pari alla “effettiva utilità conseguita dal danneggiato, id est al valore della prestazione di cui la controparte si sia effettivamente avvantaggiata in esecuzione di un contratto sinallagmatico (Sez. 6, 8616/2016).

In tema di determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, (unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all’ablazione, v’è da chiedersi se tale utilità possa essere determinata avendo riguardo al prezzo della prestazione indicato nel contratto ovvero al valore di mercato di essa o ancora ai costi effettivamente sostenuti dall’impresa per dare esecuzione alla prestazione, ricostruibili sulla base della contabilità obbligatoria e dei bilanci oggetto di revisione contabile, ovvero dei costi medi delle imprese del medesimo settore per dare esecuzione a quella tipologia di prestazione.

Il punto fermo da cui occorre prendere le mosse è che, nella commisurazione del valore della “utilità conseguita dal danneggiato”, non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l’ente, dell’utile d’impresa che - almeno fisiologicamente - compone il corrispettivo pagato per la prestazione: tenuto conto della ratto dell’istituto, ispirata al principio secondo il quale crimen non lucrat, non è invero ammissibile che la persona giuridica chiamata a rispondere della responsabilità amministrativa possa trarre un qualunque vantaggio economico, un lucro, dall’agire illecito.

Ne discende che l’utilitas non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall’attività illecita, né al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l’ente, un utile d’impresa, un quid pluris rispetto al valore “nudo” della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate.

Ed invero, solo impedendo che dal profitto confiscabile venga defalcato il margine di guadagno tratto dall’ente dalla commessa oggetto dell’illecito, è possibile evitare il “risultato paradossale” in evidente contrasto con la voluntas legis – stigmatizzato da taluna dottrina –, secondo cui, in caso di esatto adempimento del contratto pur inquinato dall’illecito, potrebbe in concreto non configurarsi nessun profitto confiscabile, pur avendo l’ente tratto dall’attività illecita un vantaggio da un punto di vista economico, rappresentato appunto dall’utile di impresa.

Sulla scorta di tali premesse, il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte deve essere commisurato ai soli “costi vivi”, concreti ed effettivi, che l’impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale, non potendo – come già esplicitato – computarsi nel valore della utilitas conseguita dalla controparte anche il margine di guadagno per l’ente esecutore.

Al fine di determinare i “costi vivi” sostenuti dall’ente per dare adempimento alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata, l’autorità giudiziaria potrà avvalersi dell’esito degli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria ovvero, se non esaurienti, delle indicazioni di un tecnico, nominato quale consulente o perito, che tengano conto, da un lato, delle risultanze della contabilità e dei bilanci dell’ente, dall’altro lato, del costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, e di qualunque altro dato che possa consentire di correggere eventuali sopravvalutazioni dei costi esposti nei documenti contabili e, dunque, di limare cifre che risultassero essere state artatamente maggiorate, secondo una linea di continuità con le condotte illecite oggetto del procedimento.

Sulla base di tali dati, il giudice potrà così determinare, in modo esatto e giuridicamente corretto, sulla base di dati concreti e non presuntivi, l’ammontare della voce di costo scorporabile dal ricavo lordo percepito dall’ente e, quindi, il quantum di profitto confiscabile.

Mette conto porre in risalto come, in sede di commisurazione della utilitas conseguita dalla controparte, non si potrà tenere conto del compenso percepito in relazione a prestazioni, o a parti di esse, che risultassero del tutto inutili nell’economia del contratto e dunque indicate ad arte solo per “gonfiare” il prezzo del negozio.

Ancora, nel caso in cui l’esecuzione della prestazione sia parziale o in parte non conforme a quanto convenuto, dal valore complessivo del contratto potrà essere detratto soltanto il costo pro quota stimato equo per la prestazione in effetti eseguita e di cui la controparte si sia utilmente giovata.

Così come ricostruito, il perimetro del profitto confiscabile viene dunque a comprendere esclusivamente il beneficio patrimoniale “netto” derivante dall’attività illecita e lascia fuori i vantaggi economici “netti” derivanti dall’esecuzione di un’attività di per sé lecita.

Risulta di tutta evidenza come il profitto confiscabile non coincida con il “profitto netto” inteso in senso aziendalistico, laddove isola (e dunque assoggetta ad ablazione), nell’ambito dell’intero prezzo indicato nel contratto e versato dalla controparte, le somme percepite dall’agente che non siano giustificate dai costi concreti ed effettivamente sostenuti per dare esecuzione alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata: si tratta, dunque, di concetto estraneo all’utile d’impresa, costituendo - in linea con le indicazioni date dalle Sezioni unite - l’utile netto tratto dall’agente quale diretta ed immediata conseguenza dell’operazione criminale (Sez. 6, 8616/2016).

La nozione di profitto dipendente dal reato di manipolazione del mercato, e riferibile sia alla società che agli azionisti indagati, deve presentare i connotati della immediata derivazione e della concreta effettività, ma non coincide necessariamente, quanto alla posizione dell’ente collettivo, con il solo profitto conseguito dall’autore del reato, potendo consistere anche in altri vantaggi di tipo economico che l’ente abbia consolidato e che siano dimostrati.

Per l’azionista, d’altra parte, valgono ovviamente gli stessi criteri, con la precisazione che il vantaggio può consistere nella acquisizione della plusvalenza delle azioni, come nella evitata perdita di valore, sempre che il vantaggio stesso possa individuarsi con le caratteristiche della effettiva realizzazione e non della sola “attesa”.

In tale prospettiva, la notazione della realizzata plusvalenza delle azioni, determinata dalla condotta di manipolazione del mercato, costituisce un criterio indicativo, sul piano indiziario, della esistenza di un profitto, ma non può dirsi il contrario e cioè che la rilevazione della situazione opposta – evenienza verificatasi nel provvedimento impugnato – costituisca anche, di per sé, l’affermazione che è provata la assenza di profitto confiscabile (Sez. 5, 25450/2014).

È da escludere che la natura del reato di manipolazione del mercato - reato di pericolo concreto e di mera condotta (Sez. 5, 28932/2011), per la cui consumazione non è necessario che si verifichi una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari - sia di ostacolo alla individuazione di un profitto confiscabile.

Basta leggere proprio il testo dell’art. 25-sexies che, al capoverso, regola espressamente la sanzione per l’illecito, in base all’entità del profitto che l’ente abbia conseguito in seguito alla commissione, nel suo interesse, del reato di manipolazione del mercato. D’altra parte, la giurisprudenza è costante nell’individuare il profitto in relazione anche ai reati di pericolo, essendo, quello, il vantaggio patrimoniale, anche in termini di mancata perdita, che l’illecito può produrre per l’agente ed essendo indifferente alla struttura del reato (Sez. 3, 33184/2013; Sez. 2, 45786/2012).

Questo infatti si consuma indipendentemente dalla realizzazione dell’evento, ma alla sua ricostruzione, ai fini ad esempio del trattamento sanzionatorio come della adozione della misura cautelare reale, non è estraneo l’accertamento del verificarsi dell’evento e dei correlati effetti economici (Sez. 5, 25450/2014).

 

Patrimoni e tipologie di beni aggredibili dalla confisca

Nessuna norma impone di perseguire il patrimonio della persona giuridica beneficiaria dell’utile determinato dal reato, prima di aggredire il patrimonio del soggetto concorrente nel reato medesimo. In proposito, nei rapporti tra persona fisica, alla quale è addebitato il reato e la persona giuridica chiamata a risponderne, non può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel reato, secondo il quale a ciascun concorrente devono imputarsi tutte le conseguenze dello stesso. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente sui beni della persona fisica non richiede, per la sua legittimità, la preventiva escussione del patrimonio dell’ente (Sez. 3, 7138/2011).

Anche con riferimento ai reati tributari, il sequestro per equivalente può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell’ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l’unico limite per cui, da un lato, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può essere disposto sui beni dell’ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (SU, 10561/2014).

Occorre chiedersi se la disciplina del D. Lgs. 231/2001 esaurisca il tema della confiscabilità dei beni appartenenti alla persona giuridica che risulta beneficiaria dei vantaggi patrimoniali derivanti da una delle violazioni tributarie indicate nell’art. 1, comma 143, della L. 244/2007.

La riflessione può essere condotta all’interno di uno spazio ristretto collocato fra due margini precisi. Sotto un primo profilo, non c’è dubbio che la persona giuridica può agire esclusivamente per il tramite di coloro che hanno compiti di amministrazione e di rappresentanza e che tra le condotte di costoro e le vicende della società esiste una relazione diretta che è stata ampiamente analizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza e che è stata infine riconosciuta dall’intero impianto del citato Decreto 231 del 2001.

Sotto un diverso profilo, deve escludersi che quella relazione conduca per sé stessa ad affermare che l’amministratore, in quanto detentore dei poteri di gestione, ha la disponibilità dei beni della società ei termini in cui questa espressione viene utilizzata dall’art. 322-ter CP.

Tale ultima disposizione appare chiara nel considerare assoggettabili a sequestro e confisca i beni che sono riconducibili di fatto al patrimonio della persona autrice del reato, dovendosi escludere che la misura ablativa possa aggredire il patrimonio di persona estranea al reato, con l’eccezione, appunto, di persona solo formalmente o fittiziamente intestataria dei beni riconducibili a colui verso il quale la misura ablativa si dirige.

Depongono in tal senso la natura sanzionatoria della misura, riconosciuta in termini generali dalle Sezioni unite e ribadita nel momento in cui è stata affermata la non retroattività della disposizione contenuta nel citato art. 1, comma 143.

La circostanza che la persona giuridica beneficiaria del vantaggio fiscale frutto di reato, e cioè la persona che ha ottenuto l’indebito arricchimento patrimoniale, possa essere parificata a qualsiasi persona estranea al reato e restare immune dalla misura del sequestro per equivalente si manifesta in tutta la sua irrazionalità di sistema solo che si consideri che il sequestro può essere diretto sui beni di un amministratore che non abbia tratto alcun vantaggio diretto dal reato e non abbia ricevuto alcuna porzione del “profitto” assicurato alla società tramite la propria condotta. Irrazionalità che mostra tutti i propri limiti nell’ipotesi che l’amministratore ritenuto responsabile del reato sia persona sostanzialmente incapiente.

Si tratta di irrazionalità che, indipendentemente dall’attivazione delle misure cautelari in sede tributaria ad opera dell’Amministrazione e dal ricorso allo strumento del sequestro conservativo, potrebbe trovare risposta nella modifica degli artt. 49 e ss. del Decreto 231, disciplina che negli anni recenti ha conosciuto modifiche che hanno ampliato il novero dei reati per i quali si prevede la responsabilità diretta dell’ente e, dunque, scattano i presupposti per la applicabilità della misura ex art. 322-ter CP.

In assenza di simile previsione, che non potrebbe comunque conoscere applicazione retroattiva, la Corte deve prendere atto che secondo la disciplina attuale la persona giuridica beneficiaria delle irregolarità tributarie non risulta certamente persona “estranea al reato” e può essere destinataria di sequestro preventivo che aggredisca ex art. 321 CPP il prezzo e il profitto del reato commesso dall’amministratore, ma non può esserlo in relazione ai beni diversi aggredibili con lo strumento del sequestro “per equivalente”.

A meno che, come la giurisprudenza ha opportunamente affermato, la persona giuridica sia in concreto prova di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui la persona dell’amministratore agisce come effettivo e unico titolare dei rapporti giuridici (Sez. 3, 33182/2013).

In caso di appalto affidato a seguito di truffa aggravata e corruzione, le “utilità prospettiche” e non ancora acquisite, determinate sulla base delle previsioni degli utili, non possono essere confiscate o sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca (Sez. 2, 8339/2014).

Non possono essere confiscati né assoggettati a sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, i crediti, ancorché liquidi ed esigibili, che non siano stati ancora riscossi (Sez. 5, 3238/2012; Sez. 6, 13061/2013).

 

Rapporti tra sequestro preventivo e confisca

Non appare corretta una automatica trasposizione del regime dei presupposti legittimanti il sequestro preventivo previsto dall’art. 321, in quanto nel caso dell’art. 53 il sequestro è direttamente funzionale ad anticipare in via cautelare, la confisca di cui all’art. 19, che è sanzione principale, obbligatoria e autonoma (così SU, 26554/2008) e che come tale si differenzia non solo dalle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e dalle leggi speciali, ma anche dalle altre tipologie di confisca cui si riferisce lo stesso D. Lgs. 231/2001 (ad esempio, negli artt. 6 comma 5 e 15 comma 4).

Di conseguenza, il dibattito (e le conclusioni) sui presupposti applicativi richiesti per il sequestro preventivo di cui ai commi 1 e 2, 321, e, in particolare, sul “fumus boni iuris”, «non può essere integralmente replicato con riferimento al sequestro preventivo previsto dall’art. 53».

Pertanto, proprio perché il sequestro di cui all’art. 53 D. Lgs. 231/2001 «è prodromico ad una sanzione principale, che viene applicata solo a seguito dell’accertamento della responsabilità dell’ente, al pari delle altre sanzioni previste dall’art. 9», è necessaria «una più approfondita valutazione del presupposto del “fumus commissi delicti».

Quindi, in conclusione, «presupposto per il sequestro preventivo di cui all’art. 53, è un fumus delicti “allargato”, che finisce per coincidere sostanzialmente con il presupposto dei gravi indizi di responsabilità dell’ente, al pari di quanto accade per l’emanazione delle misure cautelari interdittive.

Sicché i gravi indizi coincideranno con quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, anche indiretti, che sebbene non valgono di per sé a dimostrare oltre ogni dubbio l’attribuibilità dell’illecito all’ente con la certezza propria del giudizio di cognizione, tuttavia globalmente apprezzati nella loro consistenza e nella loro concatenazione logica, consentono di fondare, allo stato, una qualificata probabilità di colpevolezza.

L’apprezzamento dei gravi indizi deve portare il giudice a ritenere l’esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di responsabilità, in un procedimento che avvicina la prognosi sempre più ad un giudizio sulla colpevolezza, sebbene presuntivo in quanto condotto allo stato degli atti, ma riferito alla complessa fattispecie di illecito amministrativo attribuita all’ente indagato (Sez., 34505/2012).

In senso contrario: in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell’art., dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il “periculum” richiesto per il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 1, essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato (Sez. 2, 34293/2018).

Ed ancora: in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma 1 dell’art. 321, non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive (Sez. 2, 34293/2018).

Poiché ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, comma 5, e 19, comma 1, la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente, è sempre disposta con la sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell’ente medesimo, deve ritenersi applicabile il principio di diritto secondo il quale è illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, disposto ai sensi dell’art. 53, comma 1, in caso di intervenuta prescrizione delle sanzioni amministrative applicabili all’ente, ai sensi dell’art. 22, comma 1, ancor prima della formulazione della contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, rilevando tale aspetto, sotto il profilo della mancanza del “fumus” dell’illecito, essendo in sede di riesame precluso al giudice di compiere l’accertamento dell’illecito, nei suoi estremi oggettivi, e la sussistenza di profili quanto meno di colpa nella persona giuridica, quali presupposti necessari per disporre la confisca anche in presenza di una causa estintiva dell’illecito (Sez. 5, 18137/2018).

 

Restituzione dell’utilitas al danneggiato

L’articolo 9 comma 2 lettera d) prevede specificamente la possibilità della revoca dei finanziamenti, contributi o sussidi già corrisposti. La restituzione di tali utilità all’avente diritto si correla alla specifica previsione dall’articolo 19 che impone al giudice, in caso di condanna, di disporre la confisca del profitto del reato salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato.

Ne consegue che la restituzione, oltre a costituire un effetto naturale della revoca dei finanziamenti, costituisce anche il motivo per cui non si dispone la confisca del profitto. È quindi illegittima qualsivoglia interpretazione alternativa che porterebbe alla paradossale conseguenza di permettere alle società condannate di trattenere il profitto del reato pagando una sanzione pecuniaria assai minore del profitto (Sez. 2, 26521/2017).

 

Legittimazione all’impugnazione del provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca

In materia di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, avverso il provvedimento di sequestro preventivo sono consentiti sia il riesame che l’appello (giusta l’espresso richiamo all’art. 322, che a sua volta rinvia agli art. 324 e 322-bis CPP contenuto nell’art. 53), ma anche il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in sede di riesame e di appello e il ricorso per cassazione “per saltum” avverso il provvedimento impositivo della misura, senza che a ciò osti il mancato espresso richiamo dell’art. 325 CPP, in quanto la previsione del riesame del provvedimento di sequestro preventivo e dell’appello avverso gli altri e diversi provvedimenti in materia comporta il rinvio al complessivo regime delle impugnazioni previsto al riguardo dal codice di rito (SU, 26654/2008).

Con riguardo al sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 19, il curatore fallimentare, soggetto gravato da un munus pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento ed il tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi propri della procedura fallimentare, non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita, giacché, in quanto soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare, non è titolare di diritti sui beni in sequestro; né lo stesso può agire in rappresentanza dei creditori, non essendo anche questi ultimi, prima dell’assegnazione dei beni e della conclusione della procedura concorsuale, titolari di alcun diritto sugli stessi (SU, 11170/2015).

Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi dell’art. 19. La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare (SU, 11170/2015).

 

Nozione di terzo

Premesso che per terzo, i cui diritti vengono salvaguardati dal legislatore prevalendo anche sulla sanzione della confisca, deve intendersi la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità, evidenziano le Sezioni unite che soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l’insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca.

Al requisito oggettivo integrato dalla non derivazione di un vantaggio dall’altrui attività criminosa, deve aggiungersi la connotazione soggettiva della buona fede del terzo, intesa come “non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato”.

Da quanto detto risulta che il concetto di buona fede per il diritto penale è diverso da quello di buona fede civilistica a norma dell’art. 1147 CC, dal momento che anche i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela escludono che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare.

Quanto all’onere della prova della buona fede, evidenziano le Sezioni unite, in questo modificando il precedente orientamento, che esso non può essere posto sic et simpliciter a carico del terzo, in quanto spetta sempre al giudice che dispone il sequestro e che ordina la confisca accertare quale sia la titolarità dei beni e quali le modalità di acquisizione da parte dei terzi, non potendo apporre il vincolo su beni acquisiti dai terzi in buona fede.

Appare, invece, ragionevole, ad avviso delle Sezioni unite, pretendere un onere di allegazione a carico del terzo che voglia far valere un diritto acquisito sul bene in ordine agli elementi che concorrono ad integrare le condizioni di appartenenza del bene e di estraneità al reato dalle quali dipende l’operatività della situazione impeditiva o limitativa del potere di confisca esercitato dallo Stato (SU, 11170/2015, richiamata da Sez. 5, 4064/2016).

Il provvedimento di confisca della cosa sequestrata, contenuto nella sentenza di condanna (cui è assimilata, in parte qua, quella di applicazione della pena) o di proscioglimento, fa stato nei confronti dei soggetti che hanno partecipato al procedimento di cognizione, con la conseguenza che solamente i terzi che non abbiano rivestito la qualità di parte nel processo in cui sia stata disposta la confisca sono legittimati a far valere davanti al giudice dell’esecuzione i diritti vantati su un bene confiscato con sentenza irrevocabile (nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che una società, nei cui confronti era stata disposta la confisca di una somma di denaro, contestualmente all’applicazione di una pena a richiesta nell’ambito di un procedimento ex D. Lgs. 231/2001, non potesse poi contestare, con incidente di esecuzione, l’entità della somma confiscata) (Sez.  1, 3311/2012).

 

Casistica

Nel caso di reato presupposto di formazione fittizia del capitale la misura dell’incremento fittizio del patrimonio individua non solo l’interesse dell’ente, concorrente con quello proprio della persona fisica, quale criterio di ascrizione della responsabilità amministrativa da reato, ma anche il vantaggio o meglio la misura del profitto confiscabile (Sez. 2, 16359/2014).

La nozione di profitto confiscabile derivante dal delitto di manipolazione del mercato (classificabile come reato di pericolo e di mera condotta) si qualifica per i connotati della immediata derivazione e della concreta effettività, ma non coincide necessariamente, quanto alla posizione dell’ente collettivo, con il solo profitto conseguito dall’autore del reato, potendo consistere anche in altri vantaggi di tipo economico che l’ente abbia consolidato e che siano dimostrati. (Sez. 5, 25450/2014).

Qualora debbano imputarsi dei crediti al profitto del reato presupposto, non può procedersi alla loro confisca nella forma per equivalente, ma solo in quella diretta, poiché altrimenti l’espropriazione priverebbe il destinatario di un bene già nella sua disponibilità in ragione di una utilità invece non ancora concretamente realizzata dal medesimo (SU, 26654/2008).

Il sequestro preventivo funzionale alla confisca può avere ad oggetto i crediti vantati dalla persona giuridica, purchè questi siano certi, liquidi ed esigibili e costituiscano effettivamente il profitto del reato presupposto, evidenziando altresì che il perimetro del provvedimento cautelare è segnato dagli stessi limiti riconosciuti dalla legge per quello definitivo di ablazione (Sez. 6, 35748/2010).

Nel caso di cessione di azienda i beni dell’ente cessionario non possono essere sottoposti alla confisca per equivalente del profitto del reato commesso, prima della cessione, dagli amministratori dell’ente cedente, atteso che, ai sensi dell’art. 33, l’ente cessionario risponde in solido con quello cedente esclusivamente del pagamento della sanzione pecuniaria comminata per l’illecito a quest’ultimo addebitabile (Sez. 6, 30001/2008).

In tema di reati (nella specie, transnazionali) commessi nell’interesse della persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente sui beni della persona fisica non richiede, per la sua legittimità, la preventiva escussione del patrimonio dell’ente (Sez. 3, 7138/2011).

Nel caso in cui i beni della persona giuridica di cui è stato disposto il sequestro preventivo a fini di confisca per un valore corrispondente al profitto del reato risultino gravati da ipoteca, deve ritenersi legittima l’estensione della misura cautelare reale ai beni appartenenti alle persone fisiche autrici dello stesso reato fino alla concorrenza della somma per cui è stata iscritta l’ipoteca (Sez. 2, 231/2011).