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Art. 73 - Revisione delle sentenze

1. Alle sentenze pronunciate nei confronti dell’ente si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del titolo IV del libro nono del codice di procedura penale ad eccezione degli articoli 643, 644, 645, 646 e 647.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Si veda sub art. 71.

 

Rassegna di giurisprudenza

Non risultano decisioni in termini.

Si riporta pertanto una scelta di decisioni riferite ai pertinenti articoli del codice di procedura penale.

 

Condanne soggette a revisione (art. 629)

La giurisprudenza di legittimità esprime orientamenti contrastanti circa la ammissibilità della revisione per le sentenze di proscioglimento per prescrizione che rechino al contempo la condanna dell’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile.

Un primo, cospicuo orientamento contrario, ritiene che non sia suscettibile di revisione la sentenza di estinzione del reato per prescrizione dalla quale consegua la sola conferma delle statuizioni civili, e ciò in quanto la revisione può riguardare solo una sentenza di condanna.

Si puntualizza che siffatto tipo di pronuncia va definito tenendo presente anche dell’art. 6 CEDU, sicché deve intendersi ogni provvedimento con il quale il giudice, al di là del “nomen iuris”, nella sostanza, infligga una sanzione che abbia comunque natura punitiva e deterrente, e non meramente riparatoria o preventiva.

Ma, si conclude, la condanna al risarcimento del danno ha solo natura riparatoria (Sez. 2, 53678/2017; Sez. 2, 2656/2017).

Alla base dell’interpretazione vi è, secondo i suoi sostenitori, il “chiaro dettato normativo, secondo il quale presupposto indefettibile per esperire il rimedio straordinario della revisione di cui all’articolo 629 sia l’esistenza di una sentenza o di un decreto penale di condanna ovvero di una sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444, quest’ultima ipotesi introdotta dalla novella di cui alla legge 12 giugno 2003 n. 134 come conseguenza della giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte che aveva escluso il patteggiamento dal novero delle sentenze di condanna assoggettabili a revisione (SU, 6/1998)”.

A tale notazione si aggiunge che, essendo la revisione un mezzo (sia pur straordinario) di impugnazione, anche per essa opera il principio di tassatività di cui all’art. 568, comma 1.

Si ritiene, poi, che dalla sentenza della Corte Costituzionale 16 aprile 2008 n. 129, intervenuta sul sospetto di illegittimità costituzionale dell’art. 630 nella parte in cui non prevede come titolo per ottenere la revisione la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 CEDU, laddove indica quale ratio dell’istituto della revisione la inconciliabilità di ricostruzioni alternative di un determinato accadimento della vita all’esito di due giudizi penali definiti con sentenze irrevocabili (e non la “difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale”), venga la conferma dello stretto ancoraggio della revisione alle sole sentenze di condanna e quindi l’esclusione del ricorso a tale mezzo straordinario quando la conferma delle statuizioni civili si associ a dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione.

A tale indirizzo si contrappone altro orientamento (Sez. 5, 46707/2016), per il quale è ammissibile l’istanza di revisione della sentenza che dichiara l’estinzione del reato per prescrizione confermando le statuizioni civili della decisione impugnata. Con piena consapevolezza delle argomentazioni richiamate a sostegno dell’avversa tesi, in tale pronuncia si espongono i rilievi critici che si ritengono caratterizzino quelle ragioni.

Ribadendo il principio di tassatività delle impugnazioni e la sua valenza anche per la revisione, si assume che “l’impossibilità di accedere al rimedio straordinario in questa ipotesi è stata tralaticiamente affermata come necessaria conseguenza del difetto di legittimazione dell’interessato ad ottenere la rivisitazione agli effetti penali della sentenza di proscioglimento e sulla base dell’implicito assunto che l’art. 629, nell’individuare i provvedimenti soggetti a revisione, si riferisca esclusivamente a quelli che abbiano affermato in maniera definitiva la responsabilità dell’imputato agli stessi effetti”, ma che l’art. 629 indica tra i provvedimenti soggetti a revisione “le sentenze di condanna”, senza precisare ulteriormente l’oggetto delle stesse e, simmetricamente, il successivo art. 632, nell’individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evochi in maniera altrettanto generica la figura del “condannato”; si osserva che la soccombenza dell’imputato nei confronti della parte civile viene veicolata da una pronunzia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, come espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 e che, dunque, lo stesso imputato è “condannato” alle restituzioni ed al risarcimento del danno.

Pertanto, l’assoggettabilità a revisione secondo le regole del rito penale della condanna per la responsabilità civile pronunziata nel processo penale già discende dalla stessa lettera della legge processuale.

Si rileva, poi, che le Sezioni Unite, nel ritenere ammissibile il ricorso straordinario ex art. 625-bis del prosciolto condannato agli effetti civili, pur in presenza di una disposizione che menziona genericamente il ‘condannato’, ha implicitamente preso le distanze da quell’orientamento che fondava la tesi dell’inammissibilità del ricorso proprio sull’analogia con la revisione.

Ulteriore argomento a favore della tesi propugnata viene individuata nella possibilità che la pronuncia di condanna agli effetti civili venga emessa per la prima volta in sede di appello, giacché “in tal caso il rimedio verrebbe esperito non già contro una sentenza (anche) di proscioglimento, bensì esclusivamente di condanna, a meno di non voler considerare quella pronunziata dal giudice dell’appello ai soli effetti civili come un ibrido tertium genus, del quale, come detto, non vi è prima di tutto traccia nel lessico codicistico”..

Ai sensi dell’art. 618 va rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: “Se sia ammissibile l’istanza di revisione proposta dall’imputato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione e declaratoria di conferma della condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, al fine di veder eliminate le statuizioni civili” (Sez. 4, 27539/2018).

La risposta delle Sezioni unite è la seguente: è ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630 comma 1 lett. c), della sentenza del giudice di appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578, abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile (SU, 6141/2019).

A norma dell’art. 629, sono soggetti a revisione soltanto le sentenze di condanna e i decreti penali di condanna e non le ordinanze da qualunque giudice emesse, sia di merito che di legittimità (Sez. 2, 29517/2017).

L’inconciliabilità tra giudicati non è ravvisabile nell’ipotesi in cui il contrasto verta sulla valutazione giuridica attribuita agli stessi fatti da due diversi giudici a fronte della identica ricostruzione dell’accaduto quanto alla sua verificazione fenomenologica, posta a base delle due decisioni (Sez. 2, 14785/2017).

Il presupposto indefettibile della revisione è costituito, secondo il dettato dell’art. 629, dall’irrevocabilità della sentenza di condanna di cui si chiede la revisione.

L’istituto della revisione non costituisce, infatti, un’impugnazione tardiva che permette di dedurre in ogni tempo ciò che nel processo non è stato rilevato o non è stato dedotto, ma un mezzo straordinario di impugnazione che consente, in casi tassativi, di rimuovere gli effetti del giudicato, dando priorità alla esigenza di giustizia sostanziale rispetto a quella di certezza dei rapporti giuridici (Sez. 2, 28381/2017).

Riguardo alla revisione delle sentenze di applicazione pena ai sensi dell’art. 444, pur considerando la modifica apportata dall’art. 3, comma 1 L. 134/2003 all’art. 629, includendo la sentenza di patteggiamento tra i provvedimenti suscettibili di revisione, va tenuto conto del diverso ambito in cui opera la valutazione del giudice, essendo la stessa limitata, nel caso dell’applicazione di pena concordata, all’assenza di elementi tali da consentire il proscioglimento ai sensi dell’art. 129, come tale non superabile dalle emergenze probatorie raccolte nell’istruzione dibattimentale.

Tale assunto trova però un limite nel caso in cui la sentenza irrevocabile di assoluzione comporti il venir meno degli stessi elementi costitutivi del reato oggetto della sentenza di patteggiamento cui si chiede la revisione (Sez. 3, 30678/2018). Il caso di revisione di cui all’art. 630 comma 1, lett. a), sussiste anche se i fatti ritenuti inconciliabili  e stabiliti a fondamento della decisione – siano contenuti in una sentenza di patteggiamento e in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario. Infatti, l’art. 629, come modificato dalla L. 134/2003, prevede espressamente la revisione delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2 (Sez. 2, 6289/2017).

 

Casi di revisione (art. 630 CPP)

È costituzionalmente illegittimo l’art. 630 nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1 CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte costituzionale, sentenza 113/2011).

È ammissibile la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile (SU, udienza del 25.10.2018, allo stato disponibile la sola informazione provvisoria).

In tema di revisione, con riguardo alla specifica previsione di cui all’art. 630, lett. c), quando le nuove prove offerte dal condannato (costituite, nella specie, da testimonianze), abbiano natura speculare e contraria rispetto a quelle già acquisite e consacrate nel giudicato penale, il giudice della revisione può e deve saggiare mediante comparazione la resistenza di queste ultime rispetto alle prime giacché, altrimenti, il giudizio di revisione si trasformerebbe indebitamente in un semplice e automatico azzeramento, per effetto delle nuove prove, di quelle a suo tempo poste a base della pronuncia di condanna (Sez. 4, 24291/2005).

Le prove nuove idonee a sostenere una richiesta di revisione ex art. 630 comma 1, lett. c), non possono consistere nelle dichiarazioni liberatorie di un coimputato, atteso che tali dichiarazioni soggiacciono alle limitazioni valutative dettate dall’art. 192 commi 3 e 4, che attribuisce ad esse la natura di semplici elementi di prova non suscettibili di valutazione autonoma, potendo le stesse essere prese in considerazione solo unitamente agli altri elementi che ne confermano l’attendibilità (Sez. 6, 2943/2000).

Ai fini dell’accoglimento o meno della richiesta di revisione, quando il giudicato di condanna si fonda soprattutto su prove testimoniali, ove queste abbiano concorso a formare il libero convincimento del giudice, solo la dimostrazione (positiva) della loro falsità è suscettibile di essere utilizzata come supporto ad una richiesta di revisione della sentenza, e non già il mero dubbio postumo della loro affidabilità (Sez. 3, 1554/1999).

L’art. 630 comma 1 lettera c) prevede che la revisione può essere richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, “dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631”.

Questa seconda disposizione impone che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere tali da dimostrare, ove accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli articoli 529, 530 o 531, ovvero perché l’azione non doveva essere iniziata o proseguita; perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; perché il reato è stato commesso da non imputabile o da soggetto non punibile per altra ragione, o il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità; o, infine, perché il reato è estinto.

Risulta evidente che un vizio nella costituzione del rapporto processuale in capo all’imputato non può mai condurre ad una sentenza di proscioglimento. D’altronde, simili ipotesi sono oggetto di una disciplina specifica, che mira a garantire il giusto processo a chi, pur in caso di procedimenti di notificazione non più contestabili, non abbia avuto, ed incolpevolmente, conoscenza del processo: la restituzione nel termine di cui all’art. 175, comma 2, nel caso di decreto penale di condanna, e la rescissione del giudicato prevista dall’art. 629- bis (Sez. 7, 42743/2018).

Mette conto ripercorrere, in sintesi, l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità circa l’attitudine degli accertamenti tecnico-scientifici ad assumere valenza di prova nuova ex art. 630, comma 1, lett. c). Il più risalente indirizzo si muoveva all’interno di coordinate che escludevano in radice l’idoneità di una diversa e nuova valutazione tecnico-scientifica dei dati già noti ad integrare la prova nuova ai fini della revisione: si affermava, infatti, che siffatta valutazione è destinata a risolversi in apprezzamenti critici di elementi già conosciuti e valutati nel giudizio, come tali inammissibili (Sez. 2, 5494/1995), ossia nella reiterazione di apprezzamenti critici in ordine a dati ontologici ed emergenze oggettive già conosciuti e apprezzati nel giudizio, in violazione del principio dell’improponibilità, mediante la revisione, di ulteriori prospettazioni di situazioni già constatate (Sez. 1, 1095/1998).

Nei termini indicati, l’orientamento più risalente svalutava il dinamismo intrinseco alla ricerca scientifica e il suo procedere attraverso progressive falsificazioni: sotto questo profilo, l’orientamento più risalente «rifiuta l’idea che nella nozione di scienza sia insito il concetto di fallibilità, di relatività, di evoluzione; rifugge il metodo della smentita e della falsificabilità, nonché la ricerca e la valutazione di altre differenti ricostruzioni del fatto storico al fine di dimostrare che le alternative non sono ragionevolmente configurabili; non accetta la prospettiva che l’utilizzazione di un diverso metodo, pur se applicato agli stessi elementi, possa produrre esiti affatto diversi; rifugge la dimostrazione dell’applicabilità di leggi scientifiche alternative che diano al fatto provato una spiegazione differente» (Sez. 1, 15139/2011).

In questa prospettiva (e fermo restando il limite invalicabile posto dall’art. 637, comma 3, in forza del quale, in sede di revisione, il proscioglimento non può essere pronunciato esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio), si apprezza l’approdo della giurisprudenza di legittimità verso una ridefinizione della valenza della valutazione tecnico-scientifica: si è infatti affermato che, ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione, una diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti ai periti e al giudice può costituire “prova nuova” ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), quando risulti fondata su nuove metodologie, dal momento che la novità di queste ultime e, correlativamente, dei principi tecnico-scientifici applicati, può, in effetti, condurre alla conoscenza non solo di valutazioni diverse, ma anche di veri e propri fatti nuovi, a condizione che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e rese pienamente attendibili dal livello del sapere acquisito dalla comunità scientifica.

Se, dunque, costituisce “prova nuova” quella che mira ad introdurre elementi di fatto diversi da quelli già presi in considerazione nel precedente giudizio (Sez. 6, 53428/2014), alla stessa conclusione deve giungersi con riferimento alla diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali, quando risulti fondata su nuove metodologie, più raffinate ed evolute idonee a cogliere dati obiettivi nuovi, sulla cui base vengano svolte differenti valutazioni tecniche (Sez. 6, 13930/2017).

Di qui, una duplice, ulteriore conclusione: in primo luogo, il superamento  ovviamente alle condizioni indicate  di quello che in dottrina è stato indicato come il dogma della “non novità” di una perizia, posto che, come affermato da questa Corte, una perizia può costituire prova nuova se, appunto, basata su nuove acquisizioni scientifiche idonee di per sé a superare i criteri adottati in precedenza e, quindi, suscettibili di fornire sicuramente risultati più adeguati (Sez. 6, 34531/2013); in secondo luogo, il rilievo che anche le prove incidenti su un tema già divenuto oggetto di indagine nel corso della cognizione ordinaria possono rivestire carattere di novità ai fini del giudizio di revisione, purché siano fondate su tecniche diverse e innovative, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili, sicché la novità della prova scientifica può essere correlata all’oggetto stesso dell’accertamento oppure al metodo scoperto o sperimentato successivamente a quello applicato nel processo ormai definito, di per sé idoneo a produrre nuovi elementi fattuali (la riassunzione si deve a Sez. 5, 10523/2018).

Il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’articolo 630, comma primo, lettera a) non deve essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui si fondano le diverse sentenze (Sez. 3, 30678/2018).

Ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione, una diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti può costituire “prova nuova”, ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), quando risulti fondata su nuove metodologie, più raffinate ed evolute, idonee a cogliere dati obiettivi nuovi, sulla cui base vengano svolte differenti valutazioni tecniche (Sez. 6, 13930/2017), gravando comunque sull’istante l’onere di specifica allegazione in ordine alla novità del metodo applicato ed alla capacità di quest’ultimo di divenire strumento di apprensione di dati nuovi (Sez. 5, 12751/2011).

È, dunque, necessario che il mezzo di prova abbia attitudine alla rilettura dei dati scientifici in termini tali da consentirne diverse valutazioni tecniche (Sez. 5, 14255/2013), mentre non può costituire prova “nuova” una diversa valutazione tecnica o scientifica di dati già valutati, in quanto quest’ultima si traduce in un apprezzamento critico di emergenze già conosciute e delibate nel procedimento, sostanziandosi in una mera “rilettura” di un medesimo dato di fatto già processualmente accertato in via definitiva (Sez. 6, 53428/2014) (la riassunzione si deve a Sez. 5, 10091/2018).

Per l’ammissibilità della richiesta di revisione basata sulla prospettazione di una nuova prova, il giudice deve valutare non solo l’affidabilità della stessa, ma anche la sua persuasività e congruenza nel contesto probatorio già acquisito nel giudizio di cognizione, del quale occorre quindi identificare il tessuto logico-giuridico (Sez. 1, 20196/2013).

In tema di revisione, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta, il preliminare esame della Corte di appello circa il presupposto della non manifesta infondatezza deve limitarsi a una sommaria delibazione dei nuovi elementi di prova addotti e della loro astratta idoneità, sia pure attraverso una necessaria disamina del loro grado di affidabilità e di conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione alla loro potenziale efficacia di incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e sul connesso giudizio di colpevolezza, essendo invece ad essa preclusa, in tale stadio, una approfondita valutazione che comporti un’anticipazione del giudizio di merito, avulsa dal contraddittorio fra le parti e fondata su prove non ancora compiutamente acquisite (Sez. 6, 58099/2017).

Univoci, nella elaborazione del Giudice delle leggi e nella giurisprudenza di legittimità sono l’ambito di operatività e i limiti del contrasto tra giudicati che può dare luogo ad un caso di revisione ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a).

Nella prospettiva della Corte delle leggi si è affermato che “il contrasto, che legittima   e giustifica razionalmente   l’istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale.

Esso ha la sua ragione d’essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato accadimento della vita   essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda   può aver ricevuto all’esito di due giudizi penali irrevocabili”.

D’altra parte,   prosegue la Corte Costituzionale  ove così non fosse, la revisione, da rimedio impugnatorio straordinario, si trasformerebbe in un improprio strumento di controllo (e di eventuale rescissione) della “correttezza”, formale e sostanziale, di giudizi ormai irrevocabilmente conclusi. Non è la erronea (in ipotesi) valutazione del giudice a rilevare, ai fini della rimozione del giudicato; bensì esclusivamente “il fatto nuovo” (tipizzato nelle varie ipotesi scandite dall’art. 630 del codice di rito), che rende necessario un nuovo scrutinio della base fattuale su cui si è radicata la condanna oggetto di revisione”.

Anche secondo una affermazione costante della giurisprudenza di legittimità, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall’art. 630, comma 1, lettera a), non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni.

Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” – ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica – su cui si fondano le diverse sentenze”.

Uniformi decisioni di legittimità hanno affermato e ribadito che ciò che è emendabile, attraverso il giudizio di revisione, è l’errore di fatto e non la valutazione del fatto, che costituisce l’essenza della giurisdizione, sicché non è ammissibile, per esempio, l’istanza di revisione che fa perno sul fatto che lo stesso quadro probatorio sia stato diversamente utilizzato per assolvere un imputato e condannare un concorrente nello stesso reato in due diversi procedimenti e che il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), non deve essere inteso in termini di mero contrasto di principio tra due sentenze, bensì con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui queste ultime si fondano (Sez. 6, 58099/2017).

Non è ammessa la revisione della sentenza di condanna fondata sugli stessi dati probatori utilizzati dalla sentenza di assoluzione nei confronti di un concorrente nello stesso reato e pronunciata in un diverso procedimento, in quanto la revisione giova a emendare l’errore di fatto e non la valutazione del fatto.

Questa distinzione (tra fatti e giudizi o valutazioni) ha una sua ragion d’essere perché, se la differenza di valutazioni è connaturata all’attività giurisdizionale che trova il suo momento conclusivo in un apprezzamento – logicamente motivato ma discrezionale – sul materiale probatorio acquisito al processo, l’ordinamento non può invece consentire che i fatti, il cui accertamento costituisce la premessa del giudizio, siano ritenuti esistenti da un giudice e inesistenti da un altro giudice. Insomma la realtà fattuale utilizzata a fondamento delle decisioni giudiziarie deve essere incontrovertibile; la valutazione di questa realtà può invece essere diversa. È quindi inevitabile che, fermi restando i fatti accertati nei diversi processi, giudici diversi possano apprezzarli diversamente (Sez. 5, 10405/2015).

Non è discutibile che in tema di revisione, le prove nuove, rilevanti per gli effetti di cui all’art. 630, comma 1, lett. c) siano costituite non solo da prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna, ma anche da quelle preesistenti non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite ma (purché non dichiarate inammissibili o superflue dal giudice di merito) non idoneamente considerate (SU, 624/2002).

In tema di revisione, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta, il preliminare esame della Corte di appello circa il presupposto della non manifesta infondatezza deve limitarsi a una sommaria delibazione dei nuovi elementi di prova addotti e della loro astratta idoneità, sia pure attraverso la necessaria disamina del loro grado di affidabilità e di conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione alla loro potenziale efficacia di incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e sul connesso giudizio di colpevolezza, essendo invece ad essa preclusa, in tale stadio, una approfondita valutazione che comporti un’anticipazione del giudizio di merito, avulsa dal contraddittorio fra le parti e fondata su prove non ancora compiutamente acquisite (Sez. 6. 40545/2017).

È inammissibile la richiesta di revisione intesa a fare valere una causa estintiva del reato, quale ad esempio la prescrizione maturata prima della sentenza di condanna, ma non dedotta dalla parte o rilevata dal giudice e ciò perché il concetto di prova nuova non può essere dilatato fino al punto di comprendere anche la prescrizione maturata prima della decisione ma non dedotta dalla parte o rilevata dal giudice.

La prescrizione, se effettivamente compiutasi, avrebbe dovuto essere dichiarata dal giudice in esito al procedimento di appello. La revisione è pur sempre un mezzo d’impugnazione straordinario e non un rimedio utilizzabile per dedurre o fare valere successivamente qualsiasi negligenza della parte o omesso rilievo del giudice (Sez. 2, 29517/2017).

Invocando l’applicazione della speciale causa di non punibilità ex art. 131-bis Cod. pen., avendo richiesto l’istante la revisione, non ci si avvede che si finisce per introdurre una domanda concettualmente incompatibile con l’istanza stessa di revisione. Invero, l’istituto di cui all’art. 630, ha come scopo finalistico quello di ottenere il proscioglimento del condannato (art. 631), unica finalità per la quale è ammesso lo stesso giudizio e la revisione delle decisioni di condanna di cui all’art. 629.

Di converso, l’istituto di cui all’art. 131-bis Cod. pen., opera sul piano della punibilità e lascia sussistere, sul piano sostanziale, colpevolezza e l’antigiuridicità del fatto.

Le due domande, dunque, di revisione e di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis sono incompatibili concettualmente. Tali restano anche se formulate in subordine e alternativamente. Con la seconda, invero, volta ad ottenere la declaratoria di tenuità, si tende a superare il giudicato, oramai formatosi sulla fattispecie, così eludendo i limiti che caratterizzano la cognizione e l’intervento del giudice dell’esecuzione (Sez. 7, 16794/2017).

Il caso di revisione di cui all’art. 630 comma 1, lett. a), sussiste anche se i fatti ritenuti inconciliabili – e stabiliti a fondamento della decisione – siano contenuti in una sentenza di patteggiamento e in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario. Infatti, l’art. 629, come modificato dalla L. 134/2003, prevede espressamente la revisione delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2 (Sez. 2, 6289/2017).

Se non è la natura del giudizio prescelto che condiziona la praticabilità della revisione, non può sottacersi che i criteri di valutazione del materiale di indagine sono, nel patteggiamento, diversi da quelli che regolano la valutazione della prova nel dibattimento (o nel giudizio abbreviato), posto che, nel primo caso, la valutazione del giudice avviene “sulla base degli atti” ed è diretta ad escludere la sussistenza di una causa di proscioglimento a norma dell’art. 129, mentre, nel secondo caso, la cognizione del giudice è completa ed è diretta alla valutazione di ogni aspetto della regiudicanda.

Ne consegue – a maggior ragione – che non possono essere i giudizi formulati intorno alla capacità dimostrativa delle prove  o, peggio ancora, intorno all’interpretazione delle norme  che possono fondare una domanda di revisione ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), invocato nella specie (Sez. 5, 10405/2015).

La revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove comporta una valutazione di queste ultime alla luce della regola di giudizio posta per il rito alternativo, con la conseguenza che le stesse devono consistere in elementi tali da dimostrare la sussistenza di cause di proscioglimento dell’interessato secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 sì come applicabile nel patteggiamento (Sez. 6, 10299/2013).