Art. 4-bis

Divieto di concessione dei benefici

e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti (1)

1. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della presente legge o a norma dell’articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 416-bis e 416-ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609-octies e 630 del codice penale, all’articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni. (2) (3) (4) (5).

1-bis. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’art. 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale.

1-ter. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi, purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, secondo e terzo comma, 600-ter, terzo comma, 600-quinquies, 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale, all’articolo 291-ter del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, all’articolo 73 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, del medesimo testo unico, all’articolo 416, primo e terzo comma, del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474 del medesimo codice, e all’articolo 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del medesimo codice, dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale e dall’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni.

1-quater. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 609-undecies del codice penale solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell’articolo 80 della presente legge. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano in ordine al delitto previsto dall’articolo 609-bis del codice penale salvo che risulti applicata la circostanza attenuante dallo stesso contemplata.

1-quinquies. Salvo quanto previsto dal comma 1, ai fini della concessione dei benefici ai detenuti e internati per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 609-quater, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, nonché agli articoli 609-bis e 609-octies del medesimo codice, se commessi in danno di persona minorenne, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza valuta la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all’articolo 13-bis della presente legge.

2. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. Al suddetto comitato provinciale può essere chiamato a partecipare il direttore dell’istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto.

2-bis. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1-ter, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni dal questore. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni.

3. Quando il comitato ritiene che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali, ne dà comunicazione al giudice e il termine di cui al comma 2 è prorogato di ulteriori trenta giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali.

3-bis. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del

comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3.

(1) La Corte costituzionale con sentenza 445/1997, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo nella parte in cui non prevede che il beneficio della semilibertà possa essere concesso nei confronti dei condannati che prima della entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 1992, n. 356, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 239/2014, ha dichiarato: a) l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della presente legge; b) in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della presente legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.

(3) Comma così modificato dall’ art. 1, comma 6, lett. a) e b), L. 3/2019.

(4) La Corte costituzionale, con sentenza 253/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi  avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo  ovvero  al  fine  di agevolare l’attività delle associazioni in  esso  previste,  possano essere concessi permessi premio anche in  assenza  di  collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Ha inoltre dichiarato in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

(5)  La Corte costituzionale, con sentenza 32/2020 (riportata diffusamente nella rassegna giurisprudenziale che segue) ha dichiarato: 1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), L. 3/2019 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto con l’ordinanza indicata in epigrafe (ruolo n. 157 del 2019).

Rassegna di giurisprudenza

Questioni di legittimità costituzionale

L’art. 4-bis reca una disciplina speciale, a carattere restrittivo, per la concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o di internati, che si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti; disciplina la cui genesi risale alla “stagione emergenziale” in tema di lotta alla criminalità organizzata risalente al principio degli anni ’90 dello scorso secolo. Già nella versione di origine - introdotta dall’art. 1 DL 152/1991, convertito nella L. 203/1991 - l’art. 4-bis distingueva le figure criminose di riferimento in due “fasce”. Per i reati di “prima fascia”, a matrice o sfondo carattere associativo, l’accesso alle misure alternative era subordinato all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; per i reati di “seconda fascia”, privi di tale connotazione ma comunque socialmente allarmanti, si richiedeva - in termini inversi, dal punto di vista probatorio - la mancata emersione di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti. Erano parallelamente disposti aggravamenti istruttori, di natura obbligatoria, ancorché dall’esito non vincolante. In relazione, era previsto l’innalzamento dei “tetti” di pena stabiliti per i benefici penitenziari caratterizzati dall’accesso subordinato all’avvenuta espiazione di una predeterminata quota parte della pena stessa. A seguito della riforma operata dal DL 306/1992, convertito nella L. 356/1992, assunse un ruolo centrale, nell’economia dell’istituto, la collaborazione con la giustizia. L’utile collaborazione, nei sensi indicati dall’art. 58-ter, divenne, infatti, condicio sine qua non per l’accesso ai benefici penitenziari, in rapporto ai delitti di “prima fascia”, salva - anche per effetto delle pronunce della Corte costituzionale e delle successive conformi modifiche legislative - l’equiparazione della collaborazione impossibile o «oggettivamente irrilevante», ove al condannato fossero state concesse talune attenuanti, sintomatiche di una minore pericolosità. Il meccanismo poggia sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri il collegamento dell’autore con la criminalità organizzata e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extra-murari. La scelta di collaborare con la giustizia viene assunta, in questa prospettiva, come una sorta di prova legale, la sola idonea ad esprimere con certezza la volontà di emenda del condannato e, dunque, a rimuovere l’ostacolo alla concessione delle misure, in ragione della sua valenza “rescissoria” di tale legame, ferma in ogni caso la necessità che risulti esclusa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Pur a seguito del successivo incremento del relativo catalogo dei reati, l’assetto complessivo dell’istituto ha ripetutamente superato il vaglio di legittimità costituzionale, ancorché talune pronunce della Corte costituzionale, tra le quali vanno in particolare ricordate quelle in tema di rieducazione già raggiunta e di collaborazione impossibile e quelle relative ai minorenni, abbiano inciso su aspetti specifici (e limitati) della disciplina. Quanto ai reati di “seconda fascia”, il loro regime giuridico, nonostante la sempre più marcata eterogeneità dell’elencazione, via via aggiornata dal legislatore, non è sostanzialmente mutato dal 1991 ad oggi. Si tratta, in sostanza, di reati considerati espressivi - nella astratta valutazione, preventivamente operata dal legislatore - di accentuata pericolosità sociale del loro autore, la quale giustifica nel sistema legale la necessità di verificare, presso le competenti autorità di pubblica sicurezza, se sussistano collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, la cui emersione soltanto opera, “in negativo”, come fattore preclusivo del beneficio penitenziario. Il DL 11/2009, convertito nella L. 38/2009, nel ridisegnare l’intera impalcatura della disposizione, ha poi, tra l’altro, istituito una “terza fascia”, solo contrassegnata dal condizionamento dei benefici all’espletamento di un periodo minimo di osservazione in istituto di pena. Attualmente il sistema delineato dall’art. 4-bis istituisce, pertanto, un ventaglio di presunzioni di pericolosità ostative, vincibili: per i delitti di “prima fascia”, oggi individuati nel comma 1, solo in forza della esigibile e prestata collaborazione con la giustizia, ferma la necessità dell’accertamento della insussistenza di collegamenti con il crimine organizzato; per i delitti di “seconda fascia”, oggi identificati con quelli di cui al comma 1-ter, dall’assenza di elementi deponenti per tali collegamenti; per i delitti di “terza fascia”, delineati nel sue comma 1-quater, sulla scorta di una complessa valutazione sull’evoluzione della personalità del condannato. In tale tessuto ordinamentale si inserisce la disposizione del comma 1-bis dell’art. 47-ter, la cui introduzione risale alla L. 165/1998, che, secondo l’inevitabile interpretazione sopra ricordata, introduce una presunzione assoluta di inidoneità contenitiva della detenzione domiciliare di tipo ordinario, rispetto ai condannati per certuni titoli di reato, ritenuti di per sé espressivi di più accentuata pericolosità, in ragione del loro inserimento nel catalogo di cui all’art. 4-bis. Per costoro, la detenzione domiciliare di cui si discute è, per definizione e in assoluto, ritenuta inadeguata ad evitare il pericolo di recidiva. Siffatto assetto appare tuttavia non coerente con gli artt. 3, comma 1, e 27, commi 1 e 3, Cost., potendo dubitarsi della intrinseca ragionevolezza della preclusione assoluta così istituita, e della sua conformità ai principi di rieducazione e di personalità e proporzionalità che dovrebbero sorreggere la risposta punitiva in ogni momento della sua attuazione. La giurisprudenza costituzionale sembra, invero, orientata in linea di principio ad escludere, anche nella materia dei benefici penitenziari, la legittimità di rigidi automatismi, e a richiedere invece che vi sia sempre una valutazione individualizzata, così da collegare la concessione o meno del beneficio a una prognosi ragionevole sulla sua utilità a far procedere il condannato sulla via dell’emenda e del reinserimento sociale (Corte costituzionale, sentenze 291/2010, 189/2010, 255/2006, 436/1999; da ultimo, sentenza 149/2018). Le presunzioni di pericolosità sono eccezionalmente ammesse, a patto che non siano arbitrarie né irrazionali, in quanto rispondenti a dati di esperienza generalizzati, non suscettibili di agevole smentita, e che non siano neppure ad altro titolo lesive di valori costituzionali. Incompatibili con tale opzione di fondo dovrebbero allora ritenersi previsioni, come quella oggetto di scrutinio, che precludano in modo assoluto l’accesso a un beneficio penitenziario in ragione soltanto della particolare gravità del titolo di reato commesso, riflessa dall’inclusione di quest’ultimo in un catalogo (quello ex art. 4-bis) cui si ricollegano, a vari livelli, indici presuntivi di pericolosità che - a prescindere da ogni considerazione circa l’estrema eterogeneità dei titoli inclusi - parrebbero potersi ritenere legittimi solo nella misura in cui gli stessi risultino, in concreto, agevolmente vincibili: così in radice impedendo, la disposizione in esame, l’accesso alla misura alternativa anche ai condannati per i quali, per l’avverarsi dei presupposti risolutivi indicati dalla legge - la prestata utile collaborazione con la giustizia (ove richiesta), la rescissione o mancata instaurazione dei collegamenti con il crimine organizzato e gli eventuali progressi nel percorso di rieducazione - la presunzione di perdurante pericolosità sociale sarebbe invece da escludere proprio ai sensi dell’art. 4-bis, in sintonia con l’impostazione di fondo del regime ivi delineato. Anche in questo caso, in realtà, il legislatore parrebbe mosso solo «dall’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati» (Corte costituzionale, 149/2018), che però, come non può di per sé giustificare presunzioni assolute nella fase di verifica del grado e dell’adeguatezza delle misure cautelari durante il processo (Corte costituzionale, 331/2011), nemmeno parrebbe legittimare, nella fase di esecuzione della pena, operazioni «in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società (sentenza 450/1998), e da declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena (Corte costituzionale, 149/2018). Si coglie appieno allora, sotto gli aspetti considerati, l’irragionevolezza intrinseca della disposizione censurata, in relazione al valore della responsabilità penale personale e alla necessaria finalità rieducativa della pena. Irragionevolezza intrinseca non sfuggita, peraltro, in sede di attuazione della delega contenuta nella L. 103/2017, nella parte relativa alle modifiche all’ordinamento penitenziario, se è vero che, nello schema originario del conseguente decreto legislativo, era stata prevista la soppressione della disposizione censurata. E nonostante tale scelta non sia stata confermata nel testo definitivo, non può omettersi in questa sede di rilevare come opportunamente nella relazione illustrativa governativa (pag. 37) si rimarcasse che comunque - venuta meno l’esclusione dell’applicabilità della detenzione domiciliare “comune” ai condannati per reati di cui all’art. 4-bis, limite in grado di precludere l’accesso alla misura anche ai condannati che avessero collaborato con la giustizia - sarebbero rimaste ferme tutte le condizioni di accesso ordinariamente stabilite dalla normativa speciale a tutela della sicurezza pubblica. Tale irragionevolezza intrinseca si accentua, se si pone specifica attenzione al delitto di rapina aggravata, per il quale la ricorrente deve ancora scontare parte di pena, incluso in “seconda fascia”. Sicuramente estraneo, nella fattispecie strutturale e nelle più frequenti manifestazioni empiriche, a contesti di crimine organizzato - elemento che, in senso contrario, connota, di massima, i reati della fascia antecedente - la rapina aggravata si trova indiscriminatamente, e illogicamente, ai medesimi reati accomunata nell’effetto di comprimere in modo irrimediabile lo spazio applicativo di una misura alternativa alla detenzione. Con il paradosso che - se, per i reati della prima categoria, il risultato che si produce è la mera esasperazione della innegabile sfiducia ordinamentale verso il buon esito di percorsi rieducativi estranei al sistema carcerario - per la rapina aggravata non vige alcuna generale presunzione di immeritevolezza del relativo condannato rispetto al beneficio penitenziario, la cui concessione è solo circondata da maggiori cautele, temporali e istruttorie. Per essa, dunque, la disposizione censurata rappresenta una “rottura” della filosofia cui si ispira il sotto-sistema costituito dall’art. 4-bis. La rapina aggravata, del resto, può assumere in concreto, e in base a dati di comune esperienza giudiziaria moltissime volte assume, una dimensione di ridotta offensività oggettiva e può non essere affatto sintomatica di una pericolosità contenibile solo con misure carcerarie: come è a dirsi con riferimento al caso di specie, ove con essa non concorsero delitti più gravi; le “armi” usate erano un coltello e una pistola giocattolo; la somma sottratta era esigua ed ebbe luogo il risarcimento del danno; la pena patteggiata è modesta ed è stata già in parte espiata in regime cautelare attenuato (arresti domiciliari); non è stato rilevato collegamento alcuno della condannata con la criminalità organizzata; risulta relazione dell’Ufficio di esecuzione penale esterna la possibilità di reinserimento familiare. Sicché la constatazione che la possibile ricorrenza di analoghi indicatori non è affatto inusuale, o eccezionale, “carica” la disposizione anzidetta di contraddizioni interne ulteriori. Non potrebbe neppure sostenersi che il divieto assoluto della detenzione domiciliare ordinaria, rispetto al condannato per uno dei delitti ex art. 4-bis, e comunque rispetto alla rapina aggravata, trovi la sua ragion d’essere nell’estraneità della detenzione domiciliare al circuito rieducativo e trattamentale. La detenzione domiciliare, inserita tra le misure alternative alla detenzione di cui al Titolo I, Capo VI dell’ordinamento penitenziario, realizza, come sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza 165/1996), una modalità meno afflittiva di esecuzione della pena. L’istituto, dopo l’ampia riforma realizzata con la L. 165/1998 (cui si deve, come già si ricordava, l’introduzione, nel corpo dell’art. 47-ter, del comma 1-bis), ha assunto aspetti più vicini e congrui alla ordinaria finalità rieducativa e di reinserimento sociale della pena, non essendo esso più limitato alla protezione dei “soggetti deboli” prima previsti come destinatari esclusivi della misura, ed essendo applicabile in tutti i casi di condanna a pena non superiore a due anni (anche se residuo di maggior pena), purché risulti in concreto idoneo ad evitare il pericolo di recidiva (Corte costituzionale, 422/1999, la quale ha ritenuto che la concessione d’ufficio del beneficio, al condannato che ne abbia titolo, non soltanto non è in contrasto, ma piuttosto realizza lo scopo rieducativo di cui all’art. 27 Cost.). E, secondo Corte costituzionale 239/2014, la detenzione domiciliare non solo non prescinde da contenuti trattamentali ma è partecipe a pieno titolo della finalità di reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione; il che è comprovato tanto dal requisito negativo di fruibilità, rappresentato dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto dalla disciplina delle modalità di svolgimento della misura e delle ipotesi di revoca. D’altronde, in linea ancora più generale, già Corte costituzionale 173/1997 osservava che, se è vero che la misura alternativa della detenzione domiciliare «è indubbiamente caratterizzata da una finalità umanitaria ed assistenziale [...] non può negarsi che essa ha in comune con le altre misure alternative - come avverte anche la giurisprudenza di legittimità. E alla possibilità del raggiungimento di tale finalità, ben può - e perciò deve anche - guardarsi nel momento della concessione del beneficio. Né la misura è priva di prescrizioni a contenuto risocializzante, alla cui formulazione e al cui controllo concorrono gli UEPE previsti dall’art. 72. Considerazioni, queste, che paiono ulteriormente confortare il dubbio circa l’irragionevolezza intrinseca di una previsione che, nel precludere ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis (e, comunque, ai condannati per rapina aggravata) l’accesso alla particolare forma di detenzione domiciliare prevista per le pene detentive inferiori a due anni di reclusione, non riserva alcun rilievo alla concreta pericolosità del soggetto, desumibile dalla sua condotta o dalla sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, così violando altresì i principi della personalità e finalità rieducativa della pena e il principio della progressività del trattamento, quali affermati dalla costante giurisprudenza costituzionale. Proprio in relazione a quest’ultimo principio, quello della progressività del trattamento, non può, d’altra parte, non evidenziarsi che il condannato per un delitto ricompreso tra quelli elencati dall’art. 4-bis potrebbe essere ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale, ove sussistano le condizioni previste in tale norma, mentre gli è inibito l’accesso alla detenzione domiciliare prevista dal comma 1-bis del successivo art. 47-ter, nonostante quest’ultima misura abbia carattere maggiormente contenitivo e sia perciò semmai maggiormente idonea a fronteggiarne la pericolosità sociale eventualmente residua. Vero è che la Corte costituzionale, giudicando di analoga denunciata contraddizione, ha rilevato (sentenza 338/2008) che l’affidamento in prova è misura non «omogenea» rispetto alle misure gradate, quanto a requisiti soggettivi di ammissione. Per la concessione dell’affidamento in prova è necessaria, infatti, una prognosi di rieducazione del reo, opportunamente assistito, e di ragionevole assenza del rischio di recidiva. Se questa è la valutazione effettuata sulla personalità del condannato, nel caso concreto ed alla luce di tutti i parametri indicati dalla legge, rispetto all’affidamento si giustifica - per il giudice delle leggi - la parificazione tra coloro che hanno commesso reati in astratto valutati con particolare severità, come quelli previsti dall’art. 4-bis, e tutti gli altri condannati, sempre che la pena da espiare non superi i tre (ora quattro) anni; parificazione che invece non sarebbe imposta allorché il rischio di recidiva esista e abbia bisogno di contenimento (come era, nel caso sottoposto allora a giudizio, per il condannato ritenuto meritevole della sola semilibertà, accessibile a condizioni più gravose). Lo schema di ragionamento potrebbe essere mutuato a proposito della detenzione domiciliare, concessa in via gradata rispetto al pur richiesto affidamento in prova. Anche qui il condannato non presenta le caratteristiche personali e comportamentali di piena affidabilità, sufficienti a far ritenere che sia del tutto assente il rischio di reiterazione. Il legislatore potrebbe dunque ritenersi legittimato a conformare, mediante più severe regole di accesso, una misura alternativa siffatta, che presuppone debba fronteggiarsi un certo grado di pericolosità. Tuttavia tale aggravamento di disciplina - se rende «non [...] manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di pretendere una congrua espiazione della pena inflitta, prima di far acquistare [al condannato] una condizione che, comunque, implica un atto di fiducia dello Stato nei confronti di chi si sia reso responsabile di reati di particolare gravità» (sentenza 338/2008) - non sembra invece altrettanto giustificabile allorché arriva ad escludere, in maniera categorica, l’accesso alla misura alternativa più contenitiva, e quindi anche alla forma di detenzione domiciliare “comune”, parte integrante, come sopra evidenziato, di un ordinamento penitenziario partecipe dei valori della risocializzazione. Una diversificazione dei requisiti di ammissione alle misure, congegnata in termini così estremi, parrebbe eccedere i margini della pur ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione degli istituti di diritto penitenziario nella pur sempre necessaria prospettiva della risocializzazione del condannato. Né sembra coerente con l’assunto che tale prospettiva, come «chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile», parimenti «non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società» (Corte costituzionale, 149/2018). Appare dunque non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, comma 1, e 27, commi 1 e 3, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis, avuto riguardo all’irragionevolezza intrinseca di tale disposizione, in relazione ai principi della personalizzazione e finalità rieducativa della pena, da cui consegue l’esigenza di trattamenti penitenziari non legati esclusivamente a catalogazioni per tipi d’autore e non sbarrati da presunzioni invincibili, ma misurati in base alla concreta gravità dei fatti-reato commessi e alla effettiva pericolosità del condannato, nonché l’esigenza di percorsi di responsabilizzazione ispirati al principio di progressione e gradualità. La questione appare, quindi, certamente rilevante nel presente giudizio. Soltanto il suo accoglimento consentirebbe infatti, in accoglimento del petitum sostanziale oggetto del terzo motivo di ricorso, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza perché valuti nel merito l’esistenza delle condizioni per l’accesso della condannata alla detenzione domiciliare da lei richiesta. Alla stregua di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve conclusivamente dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1- bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui prevede che tale disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis della medesima legge (Sez. 1, 9126/2019).

Effetti della L. 3/2019 in tema di ampliamento dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari

L’art. 1, comma 6, lettera b), della L. 3/2019, in questa sede censurato, inserisce nell’elenco dei delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, i delitti contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322 e 322-bis c.p. Per effetto di detto inserimento, tali delitti sono oggi soggetti, anzitutto, al medesimo regime “ostativo” rispetto alla concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata, che vige per i delitti cosiddetti “di prima fascia” elencati nell’art. 4-bis, comma 1. Ciò significa che i benefici e le misure alternative in questione possono ora essere concessi ai condannati per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, di regola, soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia. Tale collaborazione potrà avvenire, alternativamente, ai sensi dell’art. 58-ter, ovvero – in forza di un’ulteriore modifica del testo dell’art. 4-bis, operata dall’art. 1, comma 6, lettera a), della L. 3/2019 – ai sensi dell’art. 323-bis, comma 2, c.p. L’art. 58-ter, a sua volta, descrive la condotta di collaborazione con la giustizia come quella di «coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». L’art. 323-bis, comma 2, c.p. prevede invece una circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite». Se il riconoscimento della circostanza attenuante è evidentemente circoscritto alle condotte collaborative poste in essere dall’imputato prima della sentenza irrevocabile di condanna, il richiamo a tale disposizione da parte dell’art. 4-bis, comma 1., nel testo modificato dalla L. 3/2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione può in concreto esplicarsi – anche dopo la condanna – nelle forme indicate dallo stesso art. 323-bis, comma 2, c.p., ove – a differenza di quanto accade nell’art. 58-ter – è fatta esplicita menzione dell’attività rivolta ad assicurare il «sequestro delle somme o altre utilità trasferite». In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti contro la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata – così come qualsiasi altro condannato per i delitti contemplati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – potrà accedere ai benefici e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata soltanto: – allorché ricorrano le condizioni di cui all’art. 4-bis, comma 1-bis, e cioè «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’ articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale»; ovvero – limitatamente alla concessione dei permessi premio, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti, secondo quanto stabilito dalla sentenza 253/2019 di questa Corte. La sottoposizione dei condannati per delitti contro la pubblica amministrazione al regime dell’art. 4-bis, comma 1, comporta poi una serie di effetti stabiliti da altre norme dell’ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e in particolare: – una preclusione assoluta – non superabile neppure in presenza di collaborazione o di condizioni equiparate – rispetto alla concessione delle misure alternative della detenzione domiciliare “ordinaria” per ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01) e della detenzione domiciliare cosiddetta “generica” (art. 47-ter, comma 1-bis); – l’allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per l’accesso al lavoro all’esterno (art. 21, comma 1), ai permessi premio (art. 30-ter) e alla semilibertà (art. 50, comma 2,); – un regime più rigoroso relativo alla revoca dei benefici penitenziari già concessi, ai sensi dell’art. 58-quater, comma 5. L’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, comporta un identico regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale – in forza dell’art. 2 Dl 152/1991, convertito, con modificazioni, nella L. 203/1991 – può essere concessa ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, alla condizione che ricorrano i presupposti ivi indicati. Infine, le ordinanze di rimessione sollevate dai giudici dell’esecuzione concernono l’ulteriore effetto riflesso dell’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, stabilito dall’art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p. e consistente nel divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Se infatti, in linea generale, in caso di condanna a pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo di maggior pena, il pubblico ministero è tenuto a sospendere l’ordine di esecuzione contestualmente emesso nei confronti del condannato che si trovi in stato di libertà o agli arresti domiciliari, sì da consentirgli di presentare istanza al tribunale di sorveglianza competente – nei trenta giorni successivi – per la concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 656, commi 5 – come modificato dalla sentenza 41/2018 di questa Corte – e 10, c.p.p.), il comma 9, lettera a), del medesimo art. 656 c.p.p. preclude invece al PM di sospendere l’ordine di esecuzione relativo alle condanne per una serie di delitti, tra i cui quelli di cui all’art. 4-bis. Ne consegue il necessario ingresso in carcere, nelle more del procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena detentiva non sospesa per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, nonostante l’entità della pena da scontare possa consentire al condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione sin dall’inizio dell’esecuzione. La disposizione censurata nulla prevede in merito alla sua efficacia nel tempo. In forza delle indicazioni provenienti dal diritto vivente, di cui meglio si dirà più innanzi, tutte le ordinanze di rimessione assumono tuttavia che – nel silenzio del legislatore – tali modifiche siano immediatamente applicabili anche a coloro che sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della L. 3/2019: ciò che costituisce, per l’appunto, l’oggetto essenziale delle censure che questa Corte è chiamata ora a decidere. Le questioni prospettate dalle ordinanze di rimessione sono fondate con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 25, comma 2, Cost. Il diritto vivente ritiene, invero, che le norme disciplinanti l’esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali. In esito a una complessiva rimeditazione della tematica, occorre in effetti concludere nel senso che, di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, comma 2, Cost. La disposizione in questa sede censurata comporta, per una serie di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato, quanto agli effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Conseguentemente, l’applicazione della disposizione censurata ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale delle modifiche in esame, il rimedio appropriato, in risposta alle questioni sollevate dai rimettenti, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata così come risultante dal diritto vivente. Tutte le ordinanze di rimessione muovono dal comune presupposto che, secondo il diritto vivente, le modifiche in peius della disciplina dell’esecuzione della pena in radice non sarebbero soggette al principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, comma 2. Un attento esame della giurisprudenza costituzionale in materia – peraltro tutta piuttosto risalente – restituisce, in verità, un quadro ricco di sfumature. Questa Corte è stata chiamata quasi trent’anni or sono a misurarsi con la legittimità costituzionale della retroattività di simili modifiche in peius, in relazione agli effetti retroattivi prodotti, all’indomani della strage di Capaci, dall’art. 15 del DL 306/1992, convertito, con modificazioni, nella L. 356/1992. Tale decreto-legge aveva, con riferimento ai condannati per delitti di criminalità organizzata e terrorismo, per la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e della generalità delle misure alternative alla detenzione al presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur già concessi, nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi dell’art. 58-ter. Per tutti gli anni Novanta, questa Corte non ha risolto il quesito ora all’esame, giungendo comunque a dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta in volta censurate sulla base di parametri diversi dall’art. 25, secondo comma, Cost. Nell’antesignana sentenza 306/1993, questa Corte – investita di plurime questioni aventi a oggetto la legittimità costituzionale della revoca di misure alternative già concesse – ritenne non sufficientemente motivata la rilevanza delle questioni relative alla compatibilità dell’effetto retroattivo previsto dall’art. 15, comma 2, DL 306/1992 con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, comma 2, Cost., pur riconoscendo che tale profilo avrebbe potuto «meritare una seria riflessione». Questa Corte giudicò invece incompatibile con l’art. 27, commi 1 e 3, Cost. la previsione della revoca delle misure già concesse, anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata; e ciò in ragione dell’aspettativa, legittimamente nutrita dai condannati che avevano già ottenuto la semilibertà, a «veder riconosciuto l’esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto», aspettativa ormai trasformatasi «nel diritto ad espiare la pena con modalità idonee a favorire il completamento di tale processo». Nella successiva sentenza 504/1995 questa Corte dichiarò illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 DL 306/1992, nella parte in cui precludeva la concessione di ulteriori permessi premio ai condannati per delitti “ostativi” che non avessero collaborato con la giustizia, anche quando essi ne avessero già fruito in precedenza e non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. La ragione dell’illegittimità fu, anche in questa occasione, ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3 e 27 Cost., in considerazione dell’irragionevolezza e incompatibilità con la funzione rieducativa della pena di una disciplina che comportava una sorta di “regressione incolpevole del trattamento” connesso al beneficio penitenziario in questione. Analoga ratio è stata posta a fondamento delle sentenze 445/1997 e 137/1999, con le quali l’art. 4-bis fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che – rispettivamente – la semilibertà e i permessi premio potessero essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, DL 306/1992, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Principio, quest’ultimo, che sarà in seguito applicato da questa Corte anche con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i condannati recidivi reiterati, dalla L. 251/2005 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) (sentenze 79/2007 e 257/2006). In altre occasioni, questa Corte è pervenuta invece a dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall’entrata in vigore del medesimo art. 15 DL 306/1992, prospettate sotto lo specifico profilo dell’art. 25, comma 2, Cost., senza affermare, in maniera generale, l’estraneità di tutte le modifiche in peius della disciplina in materia di esecuzione della pena al raggio di garanzia offerto dal principio di legalità della pena. Nel caso deciso con la sentenza 273/2001, in particolare, questa Corte era stata nuovamente sollecitata a chiarire se «il principio di irretroattività della legge penale sia circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito – come riteneva] il giudice a quo – anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva». Il giudice rimettente aveva sollevato questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina che precludeva l’accesso alla liberazione condizionale ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, commessi prima dell’entrata in vigore del DL 306/1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia. Come anticipato, questa Corte non ha dato una risposta generale al quesito, osservando che le disposizioni censurate, nell’esigere la collaborazione con la giustizia quale condizione di accesso alla liberazione condizionale, non avevano modificato gli elementi costitutivi di tale istituto, e segnatamente il requisito dell’avere tenuto il condannato un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento. La disciplina censurata si sarebbe piuttosto limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del requisito, rappresentato appunto dalla collaborazione processuale; senza, dunque, modificare in senso deteriore per il condannato la disciplina sostanziale della liberazione condizionale. La medesima argomentazione compare poi nelle due ordinanze 108/2004 e 280/2001, con le quali sono state parimenti rigettate due questioni relative agli effetti intertemporali di modifiche apportate all’art. 4-bis, comma 1. Il quadro della giurisprudenza della Corte di cassazione è invece assai netto nel senso della non riconducibilità all’alveo dell’art. 25, comma 2, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse. Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni in parola non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum è stato affermato, in particolare, nel 2006 (SU, 24561/2006), ed è poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (…). All’indomani dell’entrata in vigore della L. 3/2019, il diritto vivente è stato invero rimesso in discussione da alcune pronunce di merito, che hanno ritenuto inapplicabile la disposizione censurata ai fatti di reato pregressi, dal momento che ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura “sostanzialmente penale”, secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte EDU, con conseguente sua soggezione al divieto di retroattività sfavorevole di cui agli artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019). La Corte di cassazione ha, tuttavia, sinora unanimemente ribadito – salvo che in un solo caso di cui si dirà tra breve – il precedente orientamento espresso dalle Sezioni unite, concludendo nel senso che le modificazioni apportate all’art. 4-bis, comma 1, sono applicabili anche ai fatti di reato pregressi in virtù del principio tempus regit actum (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019, n. 25212; 26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499; 17 gennaio 2020, n. 1799; nonché ordinanza 18 luglio 2019, n. 31853, che proprio sulla base di questo presupposto interpretativo ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale di cui all’ordinanza iscritta al n. 141 del ruolo 2019, che questa Corte esaminerà in un distinto giudizio). Come anticipato, plurime e convergenti ragioni inducono a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali. In primo luogo, non è senza significato che, in alcune occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare espressamente l’applicabilità di norme incidenti sul regime di esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti posteriori all’entrata in vigore delle norme medesime. Ciò è avvenuto, anzitutto, proprio con il DL 152/1991, cui si deve l’introduzione dell’art. 4-bis, nella sua originaria versione. L’art. 4, comma 1, di tale decreto-legge prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi minimi di espiazione di pena per l’accesso ai benefici penitenziari fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto-legge stesso. Analogo accorgimento non fu poi adottato con il DL 306/1992, al quale si deve l’introduzione nell’art. 4-bis, comma 1, del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza di collaborazione: meccanismo la cui immediata operatività anche rispetto ai condannati per fatti pregressi fu, in effetti, all’origine delle varie questioni di legittimità costituzionale poc’anzi ricordate, decise da questa Corte sulla base del principio di non regressione incolpevole del trattamento penitenziario, dedotto in particolare dall’art. 27, comma 3, Cost. Ma, ancora nel 2002, il legislatore – nell’aggiungere all’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, i delitti posti in essere per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, nonché i delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. – ebbe cura di escludere l’applicabilità della modifica normativa ai condannati per tali titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 4 L. 279/2002). Come è accaduto in talune più recenti occasioni, la L. 3/2019 non prevede invece alcuna disposizione transitoria che ne escluda l’applicabilità ai condannati per fatti pregressi. Proprio tale silenzio del legislatore del 2019 ha provocato un diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla sostenibilità costituzionale e convenzionale della conclusione, imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche ai condannati per fatti pregressi. Ciò si è manifestato sia nelle pronunce di merito, di cui si è poc’anzi dato conto, che hanno direttamente adottato una soluzione difforme; sia nel grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell’arco di un brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimità costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecita in sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo quel diritto vivente. Nella stessa giurisprudenza di legittimità non mancano, d’altronde, segnali indicativi del medesimo disagio. Una sentenza della sezione sesta penale della Corte di cassazione, in particolare, ha prospettato dubbi di legittimità costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria da parte della disposizione in questa sede censurata, pur ritenendo di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza nel caso di specie. La Corte di cassazione ha osservato, in proposito, che l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell’ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, sì da garantire l’effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: «l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe «tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541). Tutte le ordinanze di rimessione valorizzano, in effetti, i recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte EDU sull’estensione della garanzia dell’art. 7 CEDU, con riferimento almeno a talune modifiche in peius del regime dell’esecuzione delle pene; recenti sviluppi che l’ordinamento italiano non può del resto ignorare. Al riguardo, va premesso che, sino a poco più di un decennio fa, la Corte di Strasburgo aveva sostenuto una tesi sovrapponibile a quella della giurisprudenza italiana, negando in particolare che le modifiche alla disciplina dell’esecuzione della pena chiamassero in causa la garanzia dell’art. 7 CEDU (Corte EDU, sentenza 29 novembre 2005, Uttley contro Regno Unito; nello stesso senso, Commissione dei diritti dell’uomo, decisione 3 marzo 1986, Hogben contro Regno Unito). Una prima, significativa correzione di rotta risale al 2008, in relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il reato in un’epoca in cui la pena dell’ergastolo, in forza dell’allora vigente normativa penitenziaria nazionale, consentiva l’accesso del condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona condotta, dopo vent’anni di detenzione. In seguito alla modifica di tale normativa, la prospettiva di una liberazione condizionale era sostanzialmente venuta meno, con conseguente trasformazione dell’ergastolo in una detenzione, effettivamente, a vita. La Corte EDU ha giudicato qui insussistente l’allegata violazione del divieto di retroattività delle pene, sottolineando che il novum normativo non aveva modificato la pena – l’ergastolo – inflitta sulla base della legge vigente al momento del fatto; nondimeno ha ritenuto violato l’art. 7 CEDU, censurando l’insufficiente chiarezza della legge penale al momento del fatto, e dunque l’imprevedibilità delle conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del precetto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro). Ma la pronuncia più significativa della Corte EDU – invocata non a caso da tutte le ordinanze di rimessione – è, in questo contesto, la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa nel 2013. La Grande Camera – sia pure con riferimento a un caso non sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate – ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Altrimenti, ha osservato la Corte, gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato. Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – conclude la Corte – l’art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89). Le conclusioni cui è recentemente pervenuta la Corte EDU trovano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti e nella legislazione di altri Paesi. Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, il generale divieto di “ex post facto laws” sancito dalla Costituzione americana si applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato, modificando il quantum della pena e operando così come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale non applicabile al condannato (Weaver v. Graham, 450 U.S. 24, 33 (1981); Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433 (1997). Nel senso, peraltro, che la garanzia dell’irretroattività opera solo allorché il ricorrente sia in grado di dimostrare che la modifica legislativa sopravvenuta crei un “sufficiente rischio” di incrementare la durata della sua detenzione rispetto alla disciplina vigente al momento della commissione del fatto, California Department of Corrections v. Morales, 514 U.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 U.S. 244 (2000)). Principi analoghi sono riconosciuti nell’ordinamento francese, quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 112-2 del codice penale. Tale norma dispone in via generale l’immediata applicabilità, in vista della repressione anche dei reati commessi anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi modificatrici del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della pena, nonché delle leggi relative al «regime di esecuzione e dell’applicazione delle pene»: eccezion fatta però, in riferimento a queste ultime, per «quelle che abbiano l’effetto di rendere più severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le quali sono espressamente dichiarate «applicabili soltanto alle condanne pronunciate per fatti commessi posteriormente alla loro entrata in vigore». Alcune ordinanze di rimessione (in particolare, quelle iscritte ai numeri 160 e 161 del ruolo 2019) e, soprattutto, le difese delle parti private hanno infine posto l’accento – come già la citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019 – sugli effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal mutamento, nel corso delle indagini e poi del processo, del quadro normativo sull’esecuzione della pena; con il conseguente profilarsi, altresì, di possibili lesioni dell’art. 24 Cost. Un tale rilievo è, in verità, di intuitiva evidenza. L’imputato, ad esempio, può determinarsi a rinunciare al proprio “diritto di difendersi provando” e concordare invece con il pubblico ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando comunque nella garanzia di non dover “passare per il carcere” grazie al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p.; ovvero decidere, all’opposto, di affrontare il dibattimento, confidando nella prospettiva che la pena che gli verrà inflitta, anche in caso di condanna, non comporterà verosimilmente il suo ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa in vigore al momento del fatto. Una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive, esponendo l’imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell’esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili (per analoghi rilievi, si vedano anche la già citate sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce v. Mathis, 445, nonché Corte Suprema del Canada, R. v. K.R.J., [2016] 1 SCR 906, 926, paragrafo 25, in un caso che concerneva l’applicazione retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena detentiva a carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali). Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, questa Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena. Come è noto, dall’art. 25, comma 2, Cost. discende pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato (da ultimo, sentenza 223/2018); divieto, quest’ultimo, che trova esplicita menzione nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU, nell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nell’art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). La ratio di tale divieto è almeno duplice. Per un verso, il divieto in parola mira a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale. E ciò sia per garantirgli – in linea generale – la «certezza di libere scelte d’azione» (sentenza 364/1988); sia per consentirgli poi – nell’ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico – di compiere scelte difensive, con l’assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna. Ma una seconda ratio, altrettanto cruciale, non può essere trascurata. Come già acutamente colse una celebre decisione della Corte Suprema statunitense a qualche anno appena di distanza dalla proclamazione del divieto di “ex post facto laws” nella Costituzione federale, il divieto in parola erige un bastione a garanzia dell’individuo contro possibili abusi da parte del potere legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti. Quel divieto – scriveva nel 1798 la Corte Suprema – deriva con ogni probabilità dalla consapevolezza dei padri costituenti che il Parlamento della Gran Bretagna aveva spesso rivendicato, e in concreto utilizzato, il potere di stabilire, a carico di chi avesse già compiuto determinate condotte ritenute di particolare gravità per la salus rei publicae, pene che non erano previste al momento del fatto, o che erano più gravi di quelle sino ad allora stabilite. Ma quelle leggi, osservava la Corte, in realtà «erano sentenze in forma di legge»: null’altro, cioè, che «l’esercizio di potere giudiziario» da parte di un Parlamento animato, in realtà, da intenti vendicativi contro i propri avversari (Corte Suprema degli Stati Uniti, Calder v. Bull, 3 U.S. 386, 389 (1798)). Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di “stato di diritto”. Un concetto, quest’ultimo, che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una “legge” pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare. Occorre allora verificare se e in che misura tali fondamentali rationes debbano essere estese anche alle norme che, lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste per il reato, ne modifichino tuttavia le modalità esecutive. Al riguardo, non v’è dubbio che vi siano ragioni assai solide a fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite – di regola – in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato. In primo luogo, dal momento che l’esecuzione delle pene detentive è un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole distanza dal fatto di reato, non può non riconoscersi che nel tempo inevitabilmente muta il contesto, fattuale e normativo, nel quale l’amministrazione penitenziaria si trova a operare. Da ciò deriva la necessità di fisiologici assestamenti della disciplina normativa, chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti. Ove il regime di esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta o Novanta le restrizioni all’uso dei telefoni cellulari o di internet oggi previste dall’ordinamento penitenziario. In secondo luogo, le (fisiologicamente mutevoli) regole trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti tra i delicati interessi in gioco – ex multis: la tutela dei diritti fondamentali dei condannati, ma anche il controllo della residua pericolosità criminale del detenuto all’interno e all’esterno del carcere, in un quadro di limitatezza complessiva delle risorse a disposizione –; bilanciamenti i cui esiti mal si prestano a essere ricondotti alla logica binaria della soluzione “più favorevole” o “più sfavorevole” per il singolo condannato, con la quale è però costretto ad operare il divieto di applicazione retroattiva della legge penale. Si pensi a una eventuale riduzione delle “ore d’aria”, a fronte però di maggiori opportunità di lavoro extramurario. Ma soprattutto, un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per il condannato finirebbe per creare, all’interno del medesimo istituto penitenziario, una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato. Ciò che creerebbe non solo gravi difficoltà di gestione per l’amministrazione, ma anche differenze di trattamento tra i detenuti; con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti, che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena. La regola appena enunciata deve, però, soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes, poc’anzi rammentate, che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato. Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, comma 2, Cost. E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo. Proprio la giurisprudenza statunitense cui si è fatto poc’anzi riferimento (supra, 4.2.4.) mostra non a caso come – ai fini della verifica del carattere deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva – non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che il condannato possa essere assoggettato a un trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto, in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati Uniti, o le misure alternative alla detenzione nell’ordinamento italiano). Occorre a questo punto verificare in che misura gli esiti della complessiva rimeditazione sin qui compiuta incidano sulle questioni di legittimità costituzionale ora all’esame. La disposizione censurata inserisce la maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco previsto dall’art. 4-bis, comma 1, determinando con ciò le conseguenze deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate. V’è dunque da stabilire se e in che misura tali conseguenze deteriori possano essere legittimamente applicate – al metro dei principi appena enunciati – a chi sia stato condannato per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disposizione medesima. Questa Corte ritiene che l’art. 25, comma 2, Cost. non si opponga a un’applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del lavoro all’esterno. Per quanto, infatti, non possa disconoscersi il significativo impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, non pare a questa Corte che modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola. Il condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”. Egli resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l’istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto. D’altra parte, proprio perché i condannati ammessi periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della cognizione, non può non valere nei loro confronti l’esigenza, già segnalata, di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti. La conclusione opposta si impone, invece, in relazione agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Titolo I, Capo VI, della L. 354/1975, e in particolare all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme e alla semilibertà. Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza 349/1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza 327/1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un’accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva. Ciò è stato anche di recente ribadito da questa Corte con riferimento sia all’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12)» (sentenza 68/2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch’essa «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione”», caratterizzata da prescrizioni meramente «limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (sentenza 99/2019, con richiamo alla già citata ordinanza 327/1989). Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semilibertà, ove l’obbligo di trascorrere una parte della giornata – e quanto meno le ore notturne – all’interno dell’istituto penitenziario (ma, di regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2) si accompagna al godimento di spazi di libertà assai significativi, al di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano la concessione di meri benefici extramurari. La medesima conclusione si impone – in forza del rinvio “mobile” (sentenza 39/1994) di cui all’art. 2 DL 152/1991 – per ciò che concerne la liberazione condizionale: istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 c.p., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento». La subordinazione anche della liberazione condizionale alla collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione l’evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con conseguente incompatibilità con l’art. 25, comma 2, Cost. dell’applicazione retroattiva della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, anche rispetto alla liberazione condizionale. Identica conclusione va tratta, infine, quanto all’effetto riflesso spiegato dalla disposizione censurata in relazione al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p. A tale conclusione non è di ostacolo la collocazione di tale ultima disposizione nel codice di procedura penale, da cui la giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto la sua sottoposizione al generale principio tempus regit actum. Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non può mai essere considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile. In plurime occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha, d’altronde, già esteso le garanzie discendenti dall’art. 25, secondo comma, Cost. a norme non qualificate formalmente come penali dal legislatore (sentenze 63/2019, 223/2018, 68/2017 e 196/2010; ordinanza 117/2019). Tale principio non può non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale, allorché incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato. Non v’è dubbio che l’art. 656, comma 9, c.p.p. – nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis,– produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto. Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost. alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato l’ambito applicativo, tramite l’inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis. Per le ragioni già anticipate, non varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte l’obiezione secondo cui la prospettiva – per il condannato – di vedersi applicare una misura alternativa, sulla base della legge in vigore al momento del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale. La valutazione circa il carattere deteriore della disciplina sopravvenuta non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina. Sotto il primo profilo, è evidente che – in linea generale, e salve le peculiarità di ogni singolo caso – nei confronti dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione sussisteva una rilevante probabilità, sulla base della disciplina previgente, di accedere a misure alternative alla pena detentiva, laddove i relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti anagrafici (per ciò che concerne la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 01) lo permettessero. Un tale assunto è, se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente disciplina. Sotto il secondo profilo, non può negarsi, per converso, che la normativa sopravvenuta – oltre a precludere in via assoluta l’accesso a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni (ciò che basterebbe, invero, a dimostrarne per tabulas il carattere necessariamente deteriore) – rende significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla giurisprudenza, sulla precisa estensione dell’obbligo collaborativo in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e, segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto di reato per il quale è stata pronunciata condanna, ovvero se si estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali l’autorità giudiziaria ritenga che il condannato sia comunque a conoscenza. 4.5.– Come già evidenziato, il censurato art. 1, comma 6, lettera b), L. 3/2019, così come scritto dal legislatore, nulla prevede in relazione alla sua applicazione nel tempo, né dispone la sua applicazione alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge. In contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost. – sotto i profili denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate – è la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della quale le modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero applicabili anche retroattivamente. Al fine di porre rimedio a tale violazione, non può però accogliersi la richiesta, formulata in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto, che dichiari non fondate le questioni “nei sensi di cui in motivazione”. L’indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario – diritto vivente dal quale muovono, del resto, le stesse ordinanze di rimessione – esclude la praticabilità di una simile opzione, e impone a questa Corte di pronunciare una sentenza di accoglimento delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenza 299/2005). Conseguentemente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost., dell’art. 1, comma 6, lettera b), L. 3/2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della L. 354/1975, si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della L. 354/1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 c.p.. e della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p. Restano assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri parametri costituzionali. Come già chiarito, questa Corte non ritiene, invece, che l’art. 25, comma 2, Cost. vieti l’applicazione retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore per il condannato quanto alla disciplina di meri benefici penitenziari, come – segnatamente – i permessi premio e il lavoro all’esterno. Ciò non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. Ciò si porrebbe in contrasto – se non con l’art. 25, comma 2, Cost. – con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena (artt. 3 e 27, comma 3, Cost.), secondo i principi sviluppati dalla giurisprudenza di questa Corte sin dagli anni Novanta del secolo scorso. Un simile vulnus si è in effetti verificato nel caso oggetto del procedimento a quo cui si riferisce l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del ruolo 2019 (Ritenuto in fatto, 10.), relativa alla vicenda di un condannato che sta espiando la propria pena detentiva, e che – secondo quanto esposto dal rimettente – alla data di entrata in vigore della L. 3/2019 aveva già maturato, in base alla disciplina previgente, i requisiti per la concessione del permesso premio. Negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza 253/2019), quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società, in vista dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto (sentenza 504/1995; nello stesso senso, sentenze 137/1999 e 445/1997). L’art. 1, comma 6, lettera b), L. 3/2019 deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima dell’entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso, restando assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure proposte dal rimettente. Per questi motivi, la Corte costituzionale, riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto con l’ordinanza indicata in epigrafe (ruolo n. 157 del 2019)  (Corte costituzionale, sentenza 32/2020).

La legge 3/2019, entrata in vigore il 31 gennaio 2019, ha introdotto modifiche sfavorevoli in tema di accesso alle misure alternative alla detenzione per i soggetti condannati per taluno dei reati contro la pubblica amministrazione. La previsione di cui all’art. 1, comma 6 ,della legge citata interviene sul testo dell’art. 4-bis, comma, con incremento delle fattispecie di reato cui è correlato il sistema della ostatività ex lege all’applicazione di misure alternative alla detenzione (così il testo, [..] dopo le parole: «mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli» sono inserite le seguenti: «314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319- quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis,» [..] ). Inoltre, la disposizione contenuta nell’articolo 656, comma 9, c.p.p., vieta l’emissione del provvedimento di sospensione dell’ordine di carcerazione (previsto come obbligatorio al comma 5 della medesima disposizione nelle ipotesi di condannato non raggiunto da misura cautelare carceraria, lì dove la pena inflitta non sia superiore ad anni quattro di reclusione) nei confronti dei condannati «per i delitti di cui all’art. 4-bis. L’intervento legislativo de quo ha determinato da un lato dubbi di legittimità costituzionale sul terreno della ragionevolezza e del rispetto della finalità rieducativa della pena (si veda, sul tema, Sez. 1, 31853/2019) dall’altro interrogativi di sistema circa la corretta individuazione del regime intertemporale, non essendo stata dettata una disciplina transitoria. Su tale secondo profilo, tuttavia, sono intervenute più decisioni. Nel caso in esame è pacifica sia la formazione del giudicato che l’avvenuta emissione dell’ordine di esecuzione prima della vigenza della nuova disciplina peggiorativa e - dunque - in un momento in cui la legge vigente portava alla doverosa sospensione temporanea (art. 656, comma 9, c.p.p.) dell’ordine medesimo. In casi del genere si ritiene che la vigenza sopravvenuta (anche se in un momento che precede la decisione del TDS sulla richiesta del condannato di misura alternativa alla detenzione) di una disciplina ’peggiorativa’ non possa determinare la perdita di efficacia dei provvedimenti emessi nel vigore della disciplina più favorevole, proprio in ragione del generale principio per cui tempus regit actum. La linea interpretativa di cui si parla è stata inaugurata da Sez. 1, 25212/2019 e ribadita - con talune specificazioni - da Sez. 1, 39609/2019. In tali arresti si è evidenziato come non risulti decisiva - a fini di ricostruzione del diritto intertemporale - la individuazione della - pur riaffermata - natura processuale delle disposizioni di legge che regolamentano, in via generale, la fase della esecuzione, atteso che a venire in rilievo è il portato del principio generale per cui un atto (processuale) validamente compiuto secondo la legge vigente al momento della sua venuta in essere è ’insensibile’ alle modifiche di disciplina posteriori. Tale constatazione va riaffermata specie lì dove la modifica legislativa (posteriore) sia tesa ad introdurre limitazioni a diritti o facoltà che da quell’atto derivavano. Da tale elaborazione dogmatica deriva, ulteriormente, che lì dove l’atto processuale in questione vada ad inserirsi in una «sequenza» (qui rappresentata dalla correlazione funzionale tra emissione del provvedimento di esecuzione con contestuale sospensione, domanda di misura alternativa e decisione sulla medesima) è l’intera sequenza a doversi svolgere secondo i contenuti della legge esistente al momento in cui il primo atto della «fattispecie complessa» è stato posto in essere. Ciò esclude, pertanto, che la legge posteriore - come si è detto, sfavorevole - alla emissione di un ordine di carcerazione rimasto sospeso ai sensi dell’art. 656, comma 9, c.p.p., integri una condizione legittimante la revoca di siffatto provvedimento (Sez. 1, 1799/2020).

In virtù del principio tempus regit actum, secondo cui la validità degli atti è regolata dalla legge in vigore al tempo della loro formazione, il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena, legittimamente emesso ai sensi dell’art. 656 c.p.p., non può essere revocato per effetto del sopravvenire di una legge che ampli il catalogo dei reati ostativi alla sospensione di cui all’art. 4-bis, qualora il condannato abbia già fatto richiesta di concessione di misure alternative alla detenzione, atteso che, con detta richiesta, si sono ormai realizzati gli elementi essenziali dell’atto processuale a carattere complesso che si compone, in sequenza, della sospensione dell’esecuzione, della proposizione dell’istanza di misura alternativa e dalla decisione su di essa del tribunale di sorveglianza (fattispecie relativa a condannato per il delitto di cui all’art. 322 CP, che aveva ricevuto la notifica dell’ordine di carcerazione, contestualmente sospeso, e presentato domanda di misura alternativa anteriormente all’inserimento dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione tra quelli ostativi ex art. 4-bis ad opera della L. 3/2019) (Sez. 1, 921/2020).

Nei casi in cui già siano stati emessi l’ordine di carcerazione e il provvedimento di contestuale sospensione e sia stata avanzata dal condannato richiesta di concessione di misure alternative alla detenzione, l’atto complesso - costituito dalla sospensione dell’ordine, dalla proposizione dell’istanza e dalla decisione del TDS - è stato già compiuto, al momento dell’entrata in vigore della L. 3/2019, in alcuni dei suoi tasselli essenziali, sicché la sopravvenienza normativa che aumenta il novero di delitti di cui al catalogo contenuto nell’art. 4-bis, richiamato dall’art. 656, comma 9, c.p.p. ai fini del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione, non può comportare la revoca della sospensione già disposta e il mutamento delle regole per la eventuale concessione delle misure alternative richieste (Sez. 1, 25212/2019).

Comunicazioni del procuratore distrettuale e del procuratore nazionale antimafia

La comunicazione del procuratore distrettuale o del procuratore nazionale antimafia, prescritta dall’art. 4-bis, comma 3- bis, sebbene non vincolante per il giudice, deve, tuttavia, formare oggetto di specifico vaglio del TDS: l’esclusione dei collegamenti con la criminalità organizzata ovvero l’assenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza dei ridetti collegamenti costituiscono, infatti, nei casi rispettivamente stabiliti, requisito per la concessione di benefici penitenziari, e l’omissione del doveroso scrutinio in proposito comporta la nullità del provvedimento. Detta comunicazione può essere condivisa o disattesa, purché il relativo giudizio sia sorretto da un adeguato apparato argomentativo che tenga conto, ove indicati, delle circostanze addotte e degli elementi di fatto sottoposti alla valutazione del giudice (Sez. 1, 27356/2019).

Pericolosità sociale derivante da collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata

L’ art. 4-bis, comma 3-bis, inibisce l’accesso alle misure alternative alla detenzione a chi si trovi detenuto per delitti dolosi, quando il procuratore nazionale o distrettuale antimafia abbia comunicato, d’iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, attesti l’attualità dei collegamenti del soggetto con la criminalità organizzata. La norma nella sua chiara articolazione non introduce una presunzione assoluta, legata al titolo del reato per il quale il soggetto abbia riportato condanna, ma presuppone che la condizione ostativa sia accertata in concreto e che specifici elementi sintomatici indichino la perdurante e qualificata pericolosità del detenuto, tale da giustificare la sua sottrazione, sia alle misure alternative, sia ai benefici penitenziari premiali, a prescindere dall’entità della pena da scontare e dalla natura o gravità del reato doloso commesso. Nella stessa condivisibile linea interpretativa si è anche affermato che i giudizi di pericolosità sociale del condannato, espressi dal procuratore nazionale o distrettuale antimafia, non possano essere recepiti acriticamente, ma, oltre a fondarsi su dettagliati, e non generici, elementi di fatto, debbano essere riscontrati e sottoposti alla considerazione critica del giudice quanto all’apprezzamento dei dati fattuali esposti ed alla loro valenza dimostrativa dell’esistenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata; inoltre, la conduzione di tali verifiche deve comunque estendersi anche agli ulteriori elementi di valutazione, emersi da altre fonti nel corso dell’istruttoria e tenere conto delle contrarie deduzioni difensive. Se dunque, da un lato è pacifico che la perdurante partecipazione del condannato ad un sodalizio di tipo mafioso è incompatibile con una reale adesione al trattamento rieducativo e quindi con la concessione della liberazione anticipata, dall’altro la protrazione della condotta associativa non può risolversi in un mero fatto psichico individuale del condannato, desumibile dal solo dato dell’assenza di manifestazioni di dissociazione o di allontanamento dalla formazione organizzata, ma deve essere accertata nella sua effettività e durata nel corso del procedimento di sorveglianza e non preclude di per sé la concessione del beneficio per i semestri durante i quali il vincolo associativo non risulti in atto (Sez. 1, 13371/2019).

La liberazione anticipata, pur esclusa dalle limitazioni alla concessione di benefici penitenziari previste nell’art. 4-bis, non si sottrae al divieto di concessione, stabilito dall’ultimo comma del citato articolo, nel caso di ritenuto collegamento dell’interessato con la criminalità organizzata. “L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3”. Tale essendo la formulazione del comma 3-bis dell’art. 4-bis, è evidente che sussiste una preclusione assoluta all’applicazione di tutte le misure alternative alla detenzione summenzionate, ivi compresa la liberazione anticipata di cui all’art. 54, nel caso in cui vengano segnalati dalle suddette autorità giudiziarie collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata. Ed è altrettanto evidente che la prova di detti collegamenti deve essere una prova positiva, diversamente dai casi previsti dal primo comma dello stesso articolo, non esclusi dall’applicazione del beneficio della liberazione anticipata, in cui vi è una presunzione di pericolosità superabile solo con la prova di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter. Nel procedimento di sorveglianza ai fini di decidere sulla concessione di benefici penitenziari ed in particolare della liberazione anticipata, la Direzione Distrettuale Antimafia ha solo il compito di esprimere una valutazione motivata in ordine all’attualità dei collegamenti tra il condannato e la criminalità organizzata, cioè un parere obbligatorio ma non vincolante, perché la verifica, quanto alla esistenza di elementi in grado di ammettere o escludere l’attualità di tali collegamenti, non può che essere di esclusiva ed inderogabile competenza della magistratura di sorveglianza, potendo il giudice, per un verso, trarre da altre fonti elementi di valutazione e, per un altro verso, dissentire dal suddetto parere; ovviamente quest’ultimo per offrire al giudice elementi di valutazione deve essere compiutamente motivato, non potendo altrimenti essere utilizzato. Ai fini della concessione di benefici penitenziari, neanche la valutazione del Procuratore nazionale o distrettuale antimafia - che pure deve fondarsi su dettagliati elementi - circa l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata vincola il giudice, che deve sottoporla a verifica sia per quanto concerne l’apprezzamento dei dati fattuali esposti, sia per quel che riguarda il giudizio di attualità dei predetti collegamenti (Sez. 1, 12666/2019).

Reati ostativi alla concessione della sospensione dell’esecuzione della pena

Il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione in assenza della previa osservazione scientifica della personalità condotta per almeno un anno all’interno dell’istituto penitenziario, previsto dall’art. 4-bis comma 1-quater, non si applica nel caso di condanna per fatti di violenza sessuale commessi prima dell’inserimento del delitto previsto dall’art. 609-bis c.p. nel catalogo dei c.d. reati ostativi di terza fascia a opera dell’art. 3, comma 1, lett. a), DL 11/2009, convertito con modificazioni dalla L. 38/2009, atteso che, alla luce della lettura dell’art. 25 comma 2 Cost. adottata dalla Corte costituzionale con la sentenza32/2020, in difetto di una disciplina transitoria, il suddetto inserimento ha determinato, non una mera modifica delle modalità esecutive della pena, bensì una trasformazione della sua natura e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, cosicché opera il principio di irretroattività delle norme penali sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost. (Sez. 1, 37053/2020).

La formulazione testuale dell’art. 656 c.p.p. ed il richiamo esplicito, quale condizione ostativa, all’intervenuta condanna per uno dei delitti indicati nella norma speciale dell’art. 4-bis manifesta l’intento del legislatore, ai fini del diniego del beneficio, di assegnare esclusivo rilievo a tale profilo oggettivo sulla scorta del mero titolo del reato giudicato, in ragione della presunzione di specifica pericolosità di quanti ne siano stati ritenuti responsabili, a prescindere dalla modulazione delle decisioni assunte in tema di trattamento punitivo e di bilanciamento tra circostanze eterogenee. Il combinato disposto degli artt. 656 c.p.p. e 4-bis non lascia spazio a dubbi interpretativi: vi è una serie di reati c.d. ostativi alla concessione della sospensione della esecuzione della pena, tra cui quello per cui è intervenuta condanna nel procedimento su cui è stato incardinato il presente incidente di esecuzione e in questo senso il giudice ha una mera funzione ricognitiva del reato per cui è intervenuta condanna. L’eventuale concessione delle attenuanti generiche concesse in misura prevalente sulle aggravanti contestate rileva esclusivamente quoad poenam e non ai fini della configurazione giuridica del fatto (Sez. 7, 48823/2019).

Il principio per cui l’inclusione nel catalogo dei reati ostativi contenuto nell’art. 4-bis - che esclude i delitti ivi indicati dal beneficio della sospensione dell’esecuzione - ha riguardo esclusivamente alla qualificazione giuridica del reato, con indifferenza per le vicende attinenti al bilanciamento delle circostanze occorse in sede di cognizione, poiché il giudizio di comparazione rileva soltanto quoad poenam (Sez. 1, 11922/2019).

L’esclusione dai benefici penitenziari operata dall’art. 4-bis, con riferimento ai reati c.d. ostativi, opera in relazione all’astratto titolo del reato giudicato, a nulla rilevando, in assenza di diversa ed espressa previsione di legge, che, concretamente, la sentenza di condanna riconosca un’ipotesi attenuata, incidente solo sul trattamento sanzionatorio (Sez. 7, 6038/2019).

Il tema è quello della interpretazione dell’art. 4-bis richiamato dall’art. 275, comma 2-bis, c.p.p., nella prima parte del suo primo comma, ove si legge che “le misure alternative alla detenzione previste dal capo 6^”, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concesse ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della presente legge : delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza”. Nell’ordinanza impugnata si sostiene che il reato associativo ex art. 270-bis c.p. (la cui rubrica recita “associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico") deve ritenersi essere ricompresso ex se nell’elenco dei reati ostativi, a prescindere dal concreto compimento di atti di violenza. Secondo la difesa ricorrente, invece, l’esclusione dai benefici penitenziari suddetti può essere giustificata solo nei casi in cui il condannato abbia commesso delitti mediante concreti atti di violenza per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico. La questione è stata già affrontata nella giurisprudenza di legittimità la quale si è orientata per la tesi da ultimo richiamata, in tal senso conducendo sia una diretta lettura ermeneutica del passo normativo in questione, sia il quadro sistematico, sia, infine, un’interpretazione di necessità costituzionalmente orientata. La lettura interpretativa dell’art. 4-bis, comma 1, prima parte, sul punto qui in esame, rende evidente che l’espressione “mediante il compimento di atti di violenza” è strutturalmente legata a tutta la frase in questione, e, dunque, al costrutto “delitti commessi” che abbiano le ridette finalità di terrorismo o di eversione. In definitiva, per questo primo aspetto, la piana lettura del passo evidenzia che sono ostativi ai benefici penitenziari (eccetto la liberazione anticipata) i delitti commessi mediante il compimento di atti di violenza, che siano finalizzati al terrorismo o all’eversione. Ed invero, una diversa lettura, che isolasse il primo periodo ("delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico"), avente forza autonoma escludente i benefici in questione, lascerebbe senza riferimento - ed in verità, in tal caso, senza senso - il successivo brano ("mediante il compimento di atti di violenza"). Nè diversa sorte, di vera e propria inconciliabilità logico-giuridica, avrebbe l’interpretazione che legasse l’ultimo brano ("mediante il compimento di atti di violenza") ai soli delitti di eversione dell’ordine democratico (scindendo questi ultimi dai delitti commessi per finalità di terrorismo), sia per l’assoluta incongruenza di una tale operazione (perché in tal caso si pretenderebbero atti di violenza per una categoria di delitti non meno grave dell’altra per la quale però non sarebbero richiesti), sia perché l’ordinamento penalistico (v. proprio l’art. 270-bis c.p.) accomuna ed equipara il terrorismo e l’eversione dell’ordine democratico, e, dunque, non sarebbe lecito scindere le due categorie, sia pur ad altri fini. È poi assolutamente evidente che il passo tra due virgole ("anche internazionale") costituisce un inciso che si lega alla parola immediatamente precedente ("terrorismo"), per cui la frase ha una sua unità concettuale e strutturale, non frazionabile, che comprende l’intera proposizione, fino al complemento modale ("mediante..."). Il primo esame, pertanto, meramente analitico del passo in questione, porta già alla conclusione che il concreto compimento di atti di violenza, quale specifico strumento di finalità terroristiche o eversive, è requisito necessario perché operi l’ostatività ai benefici penitenziari. Allargando poi lo sguardo, non può non essere notato, in senso sistematico, che lo stesso citato art. 4-bis, comma 1, prima parte, pone - subito dopo il passo appena esaminato - il delitto associativo ex art. 416-bis c.p. come ex se ostativo ai benefici penitenziari, senza alcuna indicazione relativa al compimento di atti di violenza (pur così fisiologici alle associazioni di tipo mafioso) o ad altri reati-fine. La ben rilevabile differenziazione non può essere casuale, né senza significato, dovendosi quindi concludere che il Legislatore, nell’affrontare i due temi (terrorismo ed eversione da un lato, mafia dall’altro) li ha voluti trattare in modo diverso, essendo per verità differenti i due fenomeni, sia sul piano sociale che su quello criminologico. Anche su questo rilievo, pertanto, non avrebbe senso differenziare tra terrorismo ed eversione. Con ciò si è affermato, da un lato, che non è lecita l’interpretazione che scinda - sia pur ai fini penitenziari - la finalità terroristica da quella eversiva, dall’altro, che il compimento di atti di violenza riveste solo natura e prospettiva teleologia nel reato ex art. 270-bis c.p., ma non ne è necessario il compimento per la sua realizzazione. Anche il quadro sistematico, dunque, milita contro la ratio decidendi dell’impugnata ordinanza. Vi è poi, con pari forza argomentativa, la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che comunque si imporrebbe in ipotesi di dubbio ermeneutico, non potendosi privilegiare un’opzione in danno, ma che risulta senz’altro coerente alle superiori motivazioni, ove si pensi alle finalità di recupero sociale a cui l’intera normativa penitenziaria è ispirata e che, dunque, non può ignorare che la concreta mancanza di atti di violenza nel vissuto deviante del condannato è favorevole punto di partenza che non può essere eluso in funzione di un positivo percorso di risocializzazione (Sez. 5, 29501/2019).

L’art. 4-bis, commi 1-quater e 1-quinquies, include il reato di cui all’art. 609-ter c.p. tra quelli relativamente ostativi, nel senso che ammettono la conseguibilità dei benefici penitenziari non ab origine - quindi previa sospensione dell’esecuzione - bensì soltanto sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta per almeno un anno in costanza di detenzione. Qualora si tratti di delitti in danno di persona minorenne, il comma successivo prevede che il giudice di sorveglianza valuti la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all’art. 13-bis. Quest’ultima norma attribuisce alle persone condannate per reati di natura sessuale in danno di minorenni la facoltà di sottoporsi ad un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno, e tale partecipazione è per l’appunto valutata ai fini della concessione dei benefici penitenziari. Sotto un profilo formale, si rileva che sono ostative alla sospensione dell’esecuzione della pena detentiva irrogata per i delitti di violenza sessuale, ai sensi dell’art. 656, comma 9, c.p.p., tutte le fattispecie indicate dall’art. 4-bis, mediante un rinvio formale, il quale recepisce tutte le modifiche incidenti nel tempo su quest’ultima disposizione (Sez. 4, 43117/2012). I reati di natura sessuale sono accomunati dal comma 1-quater dalla necessità del passaggio dall’osservazione scientifica della personalità, svolta per un anno e condotta collegialmente, in sede inframuraria: detta modalità non ammette equipollenti, in quanto solo tale valutazione consente il superamento della presunzione di pericolosità prevista per determinate categorie di delitti (Sez. 1, 12138/2019). L’unica esenzione positivamente prevista dalla legge riguarda l’ultimo comma dell’art. 609-bis c.p. relativo ai casi di violenza sessuale di minore gravità. Quanto ai reati sessuali in danno di persona minorenne, il comma 1-quinquies (introdotto con L. 172/2012, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, stipulata a Lanzarote il 25/10/2007) prevede la possibilità di volontaria sottoposizione al programma di riabilitazione specifica di cui all’art. 13-bis (trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno), che - anche se effettuato prima dell’inizio della fase esecutiva - deve essere valutato ai fini dei benefici penitenziari, che restano pur sempre subordinati ai risultati positivi della osservazione scientifica della personalità del detenuto (Sez. 1, 39985/2019).

Posta l’inclusione dei delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater c.p. nel catalogo di reati, di cui all’art. 4-bis, comma 1-quater, per effetto della L. 38/2006, non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva irrogata per gli stessi, neanche ove sia stata riconosciuta la circostanza attenuante speciale della minore gravità, essendo la concessione di benefici penitenziari ai condannati per tali delitti subordinata alla osservazione scientifica collegiale della personalità condotta per almeno un anno, e richiamando l’art. 656, comma 9, c.p.p., le fattispecie indicate dall’art. 4-bis, mediante un rinvio formale, che recepisce tutte le modifiche incidenti nel tempo su quest’ultima disposizione (Sez. 4, 43117/2012). Deve ulteriormente rilevarsi in diritto che con L. 172/2012, contenente “ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro Io sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”, l’art. 4-bis, comma 1-quater, è stato modificato nel senso di includere tra i reati, per i quali “i benefici di cui al comma 1 possono essere concessi (...) solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno (...)”, anche i reati di cui agli artt. “600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies”; è stato inserito, dopo il detto comma 1-quater, il comma 1-quinquies, alla cui stregua per i delitti in esso previsti (che non ricomprendono il delitto di cui all’art. 600-quater cod. pen., ascritto al ricorrente) “(...) ai fini della concessione dei benefici (...) il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza valuta la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all’articolo 13-bis della presente legge”; è stato, infine, inserito, per quanto qui interessa, dopo l’art. 13, l’art. 13-bis, che prevede che i condannati per gli stessi delitti indicati nel precedente art. 4-bis, comma 1-quinquies, “possono sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero o di sostegno”, la cui partecipazione è valutata “ai fini della concessione dei benefici (...)”. Sulla base di tale intervento normativo, che ha riguardato, tra l’altro, la previsione dell’art. 4-bis, al quale rinvia formalmente l’art. 656, comma 9, c.p.p., sono assoggettati alla disciplina limitativa della sospensione dell’esecuzione della pena anche gli ulteriori reati inclusi nel novero di quelli indicati dal detto art. 4-bis, comma 1-quater, con i quali condividono l’operatività della presunzione di pericolosità, superabile solo all’esito del periodo di osservazione della personalità, costituente -alla pari del trattamento psicologico per i condannati per reati sessuali in danno dei minori nei casi previsti- presupposto per l’accesso ai benefici penitenziari da disporsi esclusivamente dalla magistratura di sorveglianza, cui è rimessa ogni pertinente valutazione, e non condizione per la sospensione, che il giudice dell’esecuzione deve apprezzare ai sensi dell’art. 656 c.p.p., arrestandosi, in ogni caso, in presenza di reati ostativi, che deve limitarsi a constatare (Sez. 1, 4138/2016).

Competenza funzionale del Tribunale di sorveglianza

La verifica sulla sussistenza delle condizioni richieste per l’ammissione ai benefici penitenziari di un soggetto condannato per un reato ostativo rilevante ex art. 4-bis co. 1-ter, è di competenza esclusiva del TDS, dovendo l’organo dell’esecuzione penale limitarsi alla constatazione della presenza di titoli che impediscono la concessione di una misura alternativa alla detenzione (Sez. 1, 32725/2020).

Potere/dovere del giudice dell’esecuzione e della magistratura di sorveglianza di interpretare il giudicato per ricavarne gli elementi utili all’esercizio delle loro funzioni

Nell’ipotesi di condanna per un reato commesso al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, il divieto di concessione di benefici penitenziari opera anche quando l’aggravante di cui all’art. 7, DL 152/1991, convertito nella L. 203/1991, non sia stata formalmente contestata, ma ne venga riscontrata la sussistenza, da parte del magistrato di sorveglianza, attraverso l’esame del contenuto della sentenza di condanna. Un principio, questo, che si colloca in quella linea interpretativa che riconosce al giudice dell’esecuzione, al magistrato e al tribunale di sorveglianza il potere-dovere di interpretare il giudicato e di renderne espliciti il contenuto e i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile di condanna tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano necessari per il normale esercizio delle attribuzioni loro conferite (Sez. 1, 45336/2019).

Oggetto della collaborazione

Una volta ritenuto che la realizzazione di una determinata attività criminosa abbia trovato la sua causale nelle dinamiche di un sodalizio mafioso, essendo stata finanche finalizzata ad attuarne le strategie, la necessità di accertare la collaborazione (o della sua impossibilità/irrilevanza/inesigibilità), quale prova legale del venir meno della pericolosità sociale connessa all’appartenenza al sodalizio, deve estendersi a tutte le situazioni che specificamente riguardano l’organizzazione criminale, a beneficio della quale l’attività delittuosa era stata compiuta. Una soluzione, questa, che corrisponde, nella sua ratio, al condiviso indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’accertamento della collaborazione deve essere esteso a tutti i delitti che siano finalisticamente collegati a quelli ostativi, postulando l’unicità del reato continuato un giudizio globale sulla personalità del condannato e del suo concreto ravvedimento in relazione ai fatti oggetto del processo (Sez. 1, 24404/2019).

Impossibilità o irrilevanza della collaborazione

In tema di concessione di benefici penitenziari (nella specie, permesso premio) a soggetti condannati per delitti ostativi di cui all’art. 4-bis, l’accertamento incidentale della collaborazione impossibile, devoluto al tribunale di sorveglianza, non investe la valutazione sull’assenza di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, che spetta, invece, al giudice di sorveglianza che sarà investito della richiesta del beneficio (Sez. 1, 17599/2019).

L’ art. 4-bis, comma 1-bis, stabilisce che: «I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purchè siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonchè nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale». L’art. 58-ter, comma 1, stabilisce, altresì che, ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 4-bis, occorre tenere in considerazione pure coloro che: «anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». La giurisprudenza di legittimità ha, dal canto suo, stabilito che, ai fini del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di benefici penitenziari stabilite dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter e 2 della L. 203/1991, non sussiste un obbligo dell’autorità inquirente di sollecitare il condannato a collaborare con la giustizia e di indicare al medesimo i temi del suo possibile apporto informativo: non può, pertanto, configurarsi, in assenza di tali iniziative, un caso di impossibilità o irrilevanza della collaborazione (Sez. 5, 4773/2020).

La Corte costituzionale, con la sentenza 253/2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, anche in via consequenziale, dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, oltre che per i delitti diversi ivi contemplati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Oggetto della censura di incostituzionalità è la presunzione assoluta della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata che si fa discendere dalla mancata collaborazione. Alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., infatti, l’assenza di collaborazione non può risolversi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena come conseguenza della mancata partecipazione a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. In questo modo l’art. 4-bis realizza una “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare...”. Ed è parimenti contrario all’art. 27, comma 3, Cost. il fatto che la richiesta di permesso premio debba essere dichiarata inammissibile in limine, senza che il magistrato di sorveglianza possa operare una valutazione in concreto della condizione del detenuto, perché un siffatto meccanismo può arrestare sul nascere il percorso risocializzante. La Corte costituzionale ha così sottratto all’applicazione del meccanismo ostativo di cui all’art. 4-bis la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio di cui all’art. 30-ter (Sez. 1, 52139/2019).

A seguito delle sentenze della Corte costituzionale 357/1994 e 68/1995 sulle cosiddette collaborazioni «irrilevanti», «inesigibili» o «impossibili», assimilate alle collaborazioni effettive come condizioni di ammissibilità del condannato per delitti ostativi ai benefici penitenziari (in proposito, cfr. anche SU, 14 del 30/06/1999), il legislatore ha sostituito l’originario comma 1 dell’art. 4-bis con gli attuali commi da 1 a 1-quater. Secondo l’attuale regime, all’accertamento della effettiva collaborazione sono specificamente equiparati, sul piano giuridico, i casi in cui «la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia», nonché quelli in cui «la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante». Il giudizio del TDS deve, dunque, consistere nell’analisi della motivazione della sentenza di condanna al fine di verificare se sussistano profili attinenti al tema oggetto del procedimento di cognizione che non siano stati completamente provati o non siano stati sufficientemente esplorati, nonché di valutare se gli stessi siano suscettibili di essere utilmente approfondititi con il contributo conoscitivo del condannato, ovvero se tale eventualità debba essere esclusa a cagione della completezza oggettiva del pregresso accertamento giudiziale (impossibilità della collaborazione), oppure per il limitato perimetro cognitivo del condannato, tale da non consentirgli di fornire un contributo rilevante al fine di colmare eventuali lacune (inesigibilità della collaborazione). Il giudizio sulla possibilità ed esigibilità della collaborazione deve essere condotto con riferimento ai soli fatti oggetto del processo che ha dato origine alla sentenza di condanna definitiva e, quindi, ai soli elementi di fatto rilevanti nella specifica sede processuale, ricostruiti attraverso le contestazioni, l’iter motivazionale della sentenza e il dispositivo della stessa (Sez. 1, 57809/2017). Secondo l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza, infatti, la collaborazione con la giustizia non può essere generica e deve, piuttosto, essere specificatamente riferita a fatti e reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio (Sez. 1, 37006/2018), sicché non può essere pretesa la collaborazione, con conseguente rigetto dell’istanza di accertamento della sua impossibilità, per i delitti non compresi nelle condanne riportate dall’interessato, sia che si tratti di delitti per i quali il soggetto non è stato nemmeno indagato, sia per quelli per cui è stato assolto o prosciolto. Invero, un’interpretazione dell’art. 4-bis, comma 1 -bis, che volesse riferirsi al complesso delle situazioni e degli elementi di cui si presume che il condannato sia a conoscenza, in relazione alla propria posizione all’interno di gruppi di criminalità organizzata, potrebbe comportare l’assoluta indeterminatezza dei presupposti richiesti, con conseguente eccessiva discrezionalità per l’organo giudicante, conducendo a soluzioni in palese contrasto con il dettato costituzionale e con il diritto di difesa in particolare, in sostanza aprendosi la strada alla valorizzazione di fatti, circostanze, rapporti personali e collegamenti criminali, in relazione ai quali il condannato potrebbe non avere mai avuto la possibilità di difendersi in giudizio (così Sez. 1, 40130/2011). La collaborazione utile, secondo il consolidato orientamento di legittimità, non deve, tuttavia, essere circoscritta ai soli reati compresi nel catalogo dell’art. 4-bis, ma deve ritenersi estesa a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati in quanto riconducibili a una medesima risoluzione criminosa, atteso che l’unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e sul suo concreto ravvedimento, con riferimento a tutti i fatti e le responsabilità oggetto del processo sfociato nella sentenza definitiva (Sez. 1, 43391/2014). Nondimeno, deve comunque osservarsi che una volta ritenuta la stretta correlazione tra i vari delitti-scopo  e il contesto mafioso (e più in generale associativo), essendo i primi strumentali al perseguimento delle finalità criminose del clan, deve certamente tenersi conto, ai fini della valutazione di una eventuale possibilità/esigibilità della condotta collaborativa, del patrimonio conoscitivo concernente i molteplici ambiti in cui, con la diretta partecipazione del condannato, si esplicavano le attività illecite della cosca. Patrimonio conoscitivo la cui ricostruzione non è affatto eccentrica rispetto al perimetro dell’accertamento della collaborazione, proprio in considerazione della sua stretta inerenza rispetto alla ragione per la quale detto accertamento deve essere svolto. In altri termini, una volta ritenuto che la realizzazione di una determinata attività criminosa abbia trovato la sua causale nelle dinamiche di un sodalizio mafioso, essendo stata finalizzata ad attuarne le strategie, la necessità di accertare la collaborazione (o della sua impossibilità/irrilevanza/inesigibilità), quale prova legale del venir meno della pericolosità sociale connessa all’appartenenza al sodalizio, deve estendersi a tutte le situazioni che specificamente riguardano l’organizzazione criminale, a beneficio della quale l’attività delittuosa era stata compiuta. Una soluzione, questa, che corrisponde, nella sua ratio, all’orientamento interpretativo che, ai fini dell’accertamento della collaborazione, estende la cognizione dai fatti che ineriscono al delitto in esecuzione agli apporti informativi rilevanti per la repressione di condotte criminose diverse da esso, ma al medesimo strettamente legate sul piano finalistico (Sez. 1, 45330/2019).

La collaborazione impossibile va valutata insieme all’accertamento dell’inesigibilità della collaborazione, ossia quando la condizione (primaria e normale) dell’avvenuta collaborazione non sia realizzabile senza colpa soggettiva: in sostanza, la regola secondaria del riconoscimento dell’impossibilità di collaborare opera soltanto se il soggetto abbia assunto un corretto ed effettivo atteggiamento di disponibilità alla collaborazione, ove esso nella situazione concreta sia o sia stato possibile, sicché, soltanto se la collaborazione efficace non si fosse potuta dispiegare per motivi oggettivi, e non derivati da un’ingiustificata scelta del condannato, avrebbe potuto operare la regola secondaria dell’inesigibilità, mentre ogni qual volta il condannato non avesse voluto collaborare a tempo debito non avrebbe potuto poi applicarsi l’eccezione dell’impossibilità della collaborazione, se non a costo di vanificare la ratio della mancata collaborazione incolpevole (Sez. 1, 28193/2019).

Ai fini della concessione dei benefici penitenziari alle persone condannate per taluno delitti indicati nell’art. 4-bis, anche il dubbio sulla sussistenza del presupposto dell’impossibilità o dell’irrilevanza della collaborazione dell’interessato con la giustizia per la limitata partecipazione al fatto o per l’avvenuto integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità (condizioni equiparate dalla disposizione normativa al requisito della collaborazione con la giustizia che deve necessariamente concorrere con quello della mancanza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata) non può risolversi in danno dell’istante, dovendo trovare applicazione, pure in questa materia, la regola di giudizio secondo cui, se due significati possono ugualmente essere attribuiti a un dato probatorio, deve privilegiarsi quello più favorevole all’interessato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto (Sez. 1, 7409/2018).

Non è ammissibile la giustificazione della mancata collaborazione sulla base del timore di ritorsioni nei confronti del condannato o dei suoi familiari. Questa condotta non può essere infatti assimilata ai casi in cui il soggetto sia costretto a non rendere dichiarazioni da circostanze al medesimo non rimproverabili. Invero, così come l’avvenuta collaborazione con la giustizia assume rilevanza come fatto oggettivo, suscettibile di valutazione giudiziale, così anche l’impossibilità della collaborazione con la giustizia deve configurarsi come accadimento oggettivo, derivante dall’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile (ovvero, come nel caso della cd. inesigibilità, dalla limitata partecipazione al fatto criminoso), senza che possa rilevare da una scelta volontaria quale quella di non collaborare (Sez. 1, 28806/2019).

Ai fini della concessione dei benefici di cui all’art. 4-bis, non integra un’ipotesi di inesigibilità della collaborazione, equipollente alla collaborazione positivamente prestata, l’impossibilità di rendere una collaborazione processualmente rilevante determinata da condotta volontaria, in quanto la nozione di collaborazione impossibile o inesigibile di cui al comma 1-bis della disposizione suindicata, ponendosi come eccezione rispetto alla regola generale dell’ostatività del titolo del reato, è da ritenersi soggetta a stretta interpretazione (Sez. 1, 49744/2018).

Il riconoscimento della collaborazione impossibile o inutile presuppone l’incolpevole incapacità di fornire delucidazioni in sede giudiziale sui fatti di rilievo penale conosciuti, ossia l’esatto opposto di una condotta volutamente omertosa (Sez. 1, 11763/2019).

Scioglimento del cumulo tra pene concorrenti ove tra queste siano comprese pene per reati ostativi

La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che in tema di unificazione di pene concorrenti in esecuzione, è legittimo lo scioglimento del cumulo quando occorre procedere al giudizio sull’ammissibilità di benefici penitenziari, ostacolati dalla circostanza che nel cumulo è compreso uno dei reati elencati nell’art. 4-bis, al fine di accertare se il condannato abbia o meno espiato la parte di pena relativa al delitto ostativo (Sez. 1, 45924/2019).

I casi in cui si pronunzi condanna per reati diversi, con una sola sentenza o con sentenze diverse, devono avere, ai fini penali ed esecutivi, identico trattamento, a prescindere dal momento in cui emerga l’esistenza di condanne per fatti diversi da eseguire. Ciò al fine di garantire che non si producano disparità dipendenti esclusivamente dalla casualità del momento in cui interviene il giudicato o l’esecuzione (fermo il principio che la pena non può in nessun caso precedere il delitto e che perciò il momento cui occorre riferirsi per la formazione del cumulo va fissato esclusivamente in riferimento alla data di consumazione dell’ultimo reato commesso prima dell’inizio dell’esecuzione di una qualsiasi delle pene considerate ai fini dell’esecuzione concorrente). Ne consegue che la regola secondo cui le pene della stessa specie, concorrenti a norma dell’art. 73 c.p., si considerano come pena unica per ogni effetto giuridico (art. 76, comma 1), non può in nessun caso condurre a ingiustificate diversità di trattamento a seconda dell’eventualità, del tutto casuale, di un rapporto esecutivo unico, conseguente alla formazione di un cumulo materiale ai sensi dell’art. 663 c.p.p. anziché di distinte esecuzioni dipendenti dai titoli che scaturiscono dalle differenti condanne. Sarebbe davvero irragionevole, infatti, che chi è stato condannato per diversi reati, ostativi e non ostativi ai benefici penitenziari, si trovasse a patire, in relazione alle condanne per i reati non ostativi, di un trattamento equivalente a coloro i quali sono stati condannati solo per reati ostativi; e di un trattamento deteriore rispetto a chi, avendo riportato analoghe condanne sia per delitti ostativi che per reati non ostativi, ha tempestivamente e separatamente scontato ciascuna delle pene a lui inflitte con sentenze divenute irrevocabili e poste in esecuzione più tempestivamente. Il rischio di una irragionevole disparità collegata a circostanze meramente casuali è stato, d’altronde, già segnalato dalla Corte costituzionale con la sentenza 361/1994. Dichiarando non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis nella parte in cui rendeva la condanna per alcuno dei delitti ivi enumerati ostativa alla concessione di misura alternativa, la Corte ha posto a base della propria decisione il rilievo che, diversamente da quanto affermato in talune sentenze di legittimità che individuano la ratio del divieto di scioglimento del cumulo nella valutazione di “pericolosità soggettiva” del detenuto derivante dalla condanna per un reato “ostativo”, «non si rinvengono dati normativi per sostenere che la nuova disciplina recata dall’art. 4-bis abbia creato una sorta di status dì “detenuto pericolosoche permei di sé l’intero rapporto esecutivo a prescindere dal titolo specifico di condanna»; e che, al contrario, proprio l’articolazione della disciplina sulle misure alternative «in termini diversi in relazione alla tipologia dei reati per i quali è stata pronunciata condanna la cui pena è in esecuzione», impone di valorizzare il tradizionale insegnamento giurisprudenziale «della necessità dello scioglimento del cumulo in presenza di istituti che, ai fini della loro applicabilità, richiedano la separata considerazione dei titoli di condanna e delle relative pene» (cfr. Sez. 1, 3130/2015). Una prospettiva, quest’ultima, che la successiva giurisprudenza di legittimità ha fatto propria, affermando che “lo scioglimento virtuale del cumulo adottato in presenza di pene concorrenti, finalizzato a verificare se il condannato abbia già espiato la pena inflitta per i reati ostativi alla concessione del beneficio, previsti dall’art. 4-bis, non può realizzarsi imputando alla parte di pena ancora da espiare la frazione sanzionatoria riferibile a detti reati ostativi, bensì imputando per prima al periodo già sofferto la frazione riferibile a tali reati” (Sez. 1, 6817/2016). Consegue, pertanto, alla riportata prospettiva ricostruttiva che quando, come nel caso di specie, sia stato applicato al cumulo materiale delle pene il criterio moderatore dell’art. 78 c.p., è necessario mediante una operazione algebrica valutare in che proporzione detto criterio abbia inciso sulla pena complessiva risultante dal cumulo materiale, così da applicare la percentuale ottenuta sui reati ostativi e su quelli non ostativi. Fermo restando che nel caso di cumulo materiale di pene concorrenti, deve intendersi scontata per prima quella più gravosa per il reo, con la conseguenza che, ove si debba espiare una pena inflitta anche per un reato ostativo alla fruizione di benefici penitenziari (Sez. 1, 35794/2019).

Non vi è ragione di escludere che la regola della scindibilità del provvedimento di unificazione di pene concorrenti debba trovare applicazione anche in presenza, come nella fattispecie, di un provvedimento di cumulo materiale (anziché giuridico) di più titoli di condanna, comportante una pena detentiva complessiva da espiare superiore a quattro anni, che sia comprensiva (anche) di reati inclusi nell’elenco dell’art. 4-bis, agli effetti di verificare la sussistenza dei presupposti di ammissibilità del condannato - che abbia già scontato la parte di pena relativa ai delitti ostativi - alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale di cui all’art. 47 (Sez. 1, 36966/2019).

In ipotesi di cumulo di pene inflitte per diversi reati, dei quali uno o più ostativi alla concessione di benefici penitenziari, si può procedere allo scioglimento ideale di esso al fine di consentire al condannato, che abbia già scontato una parte della pena complessiva, di fruire dei suddetti benefici, ritenendo però scontata per prima quella più gravosa per il reo, così declinandosi - per il complesso degli effetti in relazione ai quali il principio è suscettibile di operare - l’interpretazione di favore per il condannato. Se così è, però, non pare possibile modificare una tantum l’ordine di esecuzione, secondo una consecutio diversa da quella determinatasi nel senso precisato, al solo scopo di far coincidere l’espiazione della pena o delle pene relative a reati non ostativi, salvo a ripristinare l’ordine originario ai restanti fini (Sez. 1, 11180/2019).

Il principio della scindibilità del cumulo non può trovare applicazione allorquando la misura alternativa richiesta sia l’affidamento terapeutico, ostandovi il tenore letterale dell’art. 94, DPR 309/1990. Detta disposizione gradua la applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale nei casi particolari di condannati, tossicodipendenti o alcooldipendenti in trattamento o che intendano sottoporsi al programma di recupero, in funzione della misura della pena detentiva inflitta o di quella residua espianda e, in proposito, stabilisce, come condizione di ammissibilità della misura alternativa, che la ridetta pena deve essere contenuta nel limite di sei anni ovvero - più rigorosamente - di quattro anni, se relativa a titolo esecutivo comprendente reato di cui all’art. 4-bis e successive modificazioni. A differenza di quanto stabilito a proposito di altri benefici penitenziari, il criterio distintivo stabilito dal legislatore è costituito dalla inclusione nel titolo esecutivo di alcuno dei reati previsti dall’art. 4-bis. La disciplina positiva, per il riferimento operato all’insieme dei reati compresi nel titolo esecutivo e in funzione della condizione che (anche) uno (solo) di essi corrisponda ad alcuno di quelli indicati dall’art. 4-bis, comporta che detti reati assumono rilievo in quanto concorrenti alla formazione del cumulo, oggetto del titolo in esecuzione. La disposizione è testuale, d’altra parte non irrazionale ma risponde alla esigenza di limitare, più restrittivamente, la applicazione della misura alternativa (col requisito temporale maggiormente rigoroso, alternativamente previsto), in funzione della maggiore pericolosità dei condannati, normativamente apprezzata sulla base, per l’appunto, del criterio indicato (Sez. 1, 42088/2019).

Quando il reato ostativo non coincida con la violazione più grave, ma sia solo un reato satellite, lo scioglimento del cumulo, formatosi per effetto della continuazione, determina il ripristino per esso della pena edittale prevista, calcolata nel minimo, e quindi con esclusione di qualsiasi riferimento alla pena inflitta in concreto a titolo di aumento per la continuazione, giacché tale riferimento non ha più ragione di essere, una volta che si sia operato lo scioglimento del vincolo giuridico dovuto alla continuazione (Sez. 1, 51835/2014).

In contrario avviso: in tema di misure alternative, in presenza di una condanna per più reati in continuazione nell’ambito dei quali vi sia un reato ostativo alla concessione dei benefici penitenziari, il condannato ha diritto alla scissione del vincolo e a far considerare imputata la pena presofferta al reato ostativo, tenendo conto della sanzione in concreto inflitta, anche se si tratta di un mero aumento di pena in continuazione (Sez. 1, 11301/2018).