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Commento alla recente sentenza di Napoli sul c.d scandalo Calciopoli

È di questi giorni il deposito a Napoli delle motivazioni della sentenza, n. 14692/2011, relativa al processo di primo grado, ormai ribattezzato “Calciopoli”.

Il presente scritto si propone lo scopo di porre in evidenza alcuni aspetti della suddetta pronuncia, senza addentrarsi in una panoramica sulla struttura e sui confini dell’illecito sportivo che, stante le implicazioni di diritto sportivo, richiederebbe un’attenzione da opera monografica.

Oltre 500 pagine a motivare la condanna della maggior parte degli imputati in ordine ai reati contestati, anche se in verità, oltre metà abbondante sono una mera trascrizione di stralci di intercettazioni telefoniche, inserite nel corpo del testo, a suggellare il percorso logico giuridico che ha portato al convincimento del collegio giudicante.

In sostanza agli imputati veniva contestata l’associazione a delinquere ex art 416 cp finalizzata alla commissione di frode in competizioni sportive ex articolo 1, 1° e 3° comma, Legge 401/1989.

Secondo l’impianto accusatorio, l’associazione e i suoi affiliati erano in grado di manipolare i risultati sportivi attraverso un rapporto diretto con alcuni arbitri, facenti parte della stessa, nonché anche attraverso la manomissione del sorteggio arbitrale in modo da assicurare l’abbinamento delle competizioni con elementi sodali agli scopi associativi.

A rafforzare la linea accusatoria, inoltre, veniva contestata la disponibilità, nonché la messa a disposizione di sim telefoniche estere, da parte dei capi dell’associazione nei confronti di alcuni direttori di gara. In questo caso il contenuto delle telefonate non poteva essere intercettato, secondo l’accusa, ma ciò bastava per dimostrare le finalità criminose dell’associazione stante la certezza della corrispondenza tra le suddette sim e gli effettivi possessori ed utilizzatori.

Il collegio giudicante, dalle risultanze del dibattimento certifica la sostanziale regolarità del sorteggio arbitrale e fonda la sua pronuncia di colpevolezza sul possesso delle schede telefoniche straniere a dimostrazione di una capacità dell’associazione di incidere sulla regolarità delle manifestazioni sportive.

A livello giuridico, il collegio qualifica il delitto di frode in competizioni sportive sulla struttura dei delitti di attentato in cui, com’è noto, o per la meritevolezza degli interessi in gioco, oppure per la natura stessa del bene giuridica, si richiede un’anticipazione della tutela penale.

Per garantire la costituzionalità di questi tipi di reati, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti sono concordi nel ritenere che non si possa prescindere quantomeno dai requisiti proprio del tentativo: l’univocità e l’idoneità degli atti a segnare la linea di discrimine con gli atti preparatori che, in quanto tali non sono punibili.

Tale ricostruzione, peraltro, viene evidenziata e rimarcata, ogni qualvolta viene analizzata la posizione di ogni singolo associato di cui si ritiene provata la colpevolezza. Si evidenza altresì, come i due predetti requisiti debbano essere valutati oggettivamente secondo un giudizio di carattere prognostico ex ante anche sulla base di quelle che sono le abitudini, le caratteristiche del contesto di riferimento.

L’aspetto interessante della sentenza in oggetto è che si ritiene raggiunta la prova della colpevolezza anche se è emerso dal dibattimento che il sorteggio arbitrale era regolare e che non vi è prova, sotto il profilo casuale, del condizionamento ai danni dei direttori di gara nell’espletamento in concreto della loro attività e sopratutto dell’alterazione del risultato sportivo.

Anzi, viene ribadito come ai fini della questione in oggetto, non rileva neppure che poi le direzioni arbitrali si siano svolte in modo corretto o meno, poiché risulta sufficiente perchè la fattispecie sia realizzata la messa in pericolo del bene giuridico tutelato.

Si aggiunge che, seppur il sorteggio fosse assolutamente regolare, il mettere, seppur nel rispetto degli stretti paletti delimitati dai criteri delle famose grigle, alcuni arbitri invece che altri è indice del dolo e della capacità di condizionamento dell’associazione.

Certo, emerge in modo radicale una posizione assolutamente differente da quella sostenuta qualche anno addietro dalla procura di Torino che inquadrò, senza prova alcuna del condizionamento sulle direzioni arbitrali, il rapporto di amicalità di alcuni degli odierni imputati con i designatori arbitrali come un comportamento eticamente scorretto ma penalmente irrilevante.

Vediamo, brevemente, alcuni punti un po’ oscuri della pronuncia che inducono a più di una riflessione.

Nelle prime pagine di motivazione, chiarendo che non verrà presa posizione sul punto, si accenna al dibattito dottrinale in merito all’articolo 49, 2° comma, Codice Penale, il cd reato impossibile che costituisce un’espressione del principio generale di offensività.

La fattispecie sul piano astratto si configura, ma non viene ritenuta punibile per la scarsa offensività del fatto come dimostra il classico esempio di scuola del furto di un chicco d’uva.

Prima facie, più che una pronuncia di colpevolezza, sembra quasi che venga offerta una indicazione per un motivo di appello alle difese.

Ulteriormente, nelle pagine successive, pur ribadendo l’elemento fondante delle sim straniere, si valuta la prova di colpevolezza come debole, quasi a far trasparire una mancanza di unanimità nel collegio giudicante.

Quello che, però, desta ancora maggiori dubbi è che da un lato si indica come dal processo sia emerso che la commissione di comportamenti eticamente scorretti fosse pratica costante dell’ambiente calcistico e dall’altro viene tenuta ferma la sussistenza dell’associazione.

Infatti, se si può ritenere coerente il suddetto indirizzo sulla base dell’assunto che una pronuncia di colpevolezza sarebbe stata emanata anche nei confronti di questi altri accadimenti, se solo questi fossero stati oggetto di indagini e del procedimento, risulta contraddittorio pensare a degli associati come i designatori arbitrali che al tempo stesso facevano parte della associazione e contemporaneamente perseguivano scopi contrastanti.

Se, riprendendo quelle che sono le stesse affermazioni del collegio, l’idoneità e l’univocità degli atti vanno valutati secondo quelli che sono i contesti di riferimento, ancora una volta emerge la sensazione di trovarsi di fronte ad una sentenza di assoluzione nelle motivazioni e di condanna nel dispositivo.

In proposito, vale la pena di ricordare come solo nelle more dello scoppio di questo famoso scandalo, il novellato codice di giustizia ha espressamente sancito il divieto di rapporti tra tesserati e designatori arbitrali.

A parere dello scrivente, però, quanto viene affermato potrebbe avere conseguenze destabilizzanti su tutto il mondo del calcio che, al momento vengono sottaciute.

Valga un esempio concreto: da almeno 2-3 stagioni al fine di garantire il regolare svolgimento sotto il profilo economico dei campionati, le società inadempienti nei confronti dei propri tesserati, per quanto concerne gli obblighi contrattuali, da valutarsi per ogni trimestre del campionato in corso, subiscono punti di penalizzazione in classifica.

L’assurdo, stante la ratio alla base di questa introduzione regolamentare, è che, valutando un rapporto di costi-benefici, molte società, in particolare nella Lega Pro, sono inadempienti ai predetti obblighi già dopo il primo mese e non a campionato in corso o sul finire del medesimo. Se secondo il collegio, ai fini della configurazione del delitto di frode in competizioni sportive, rileva il dolo generico della condotta materiale ed è sufficiente che il requisito della mendacio appaia esistente prima facie anche se in concreto inesistente, poiché rileva solo la messa in pericolo del bene giuridico tutelato, nell’esempio citato, indubbiamente siamo ad un livello superiore. Infatti, il non essere adempienti appena si è partiti, configura sotto l’aspetto soggettivo l’elemento del dolo.

Anche il requisito della mendacio può ritenersi sussistente se si pensa che tali condotte fanno ritenere come solvibili società che, invece, non lo sono.

A questo, però, va aggiunto che l’acquistare elementi di maggior valore tecnico che comportano elevati costi, non facendoli acquisire nel contempo alle società concorrenti – se trattandosi di reati di pericolo non rileva il verificarsi dell’evento naturalistico – realizza indubbiamente un’alterazione della competizione sportiva e dei valori in campo. E tutto questo anche se, per ipotesi, nessuno degli atleti che incidono maggiormente nella gestione economica non scendesse in campo.

Il solo fatto di non permettere ad altre società di acquisirli attraverso una rappresentazione mendace di una solidità inesistente nonché una conseguente alterazione dei costi di mercato, configura un’alterazione o una messa in pericolo della sana competizione sportiva.

In conclusione, se va riconosciuto al collegio di Napoli l’improbo compito di discernere in mezzo ad una grande mole di atti e di dichiarazioni, i fatti dalle interpretazioni e dalle dicerie, quanto emerso sul piano della statuizione di diritto potrebbe avere conseguenze di non poco conto sul futuro di quella che è la prima sette industrie del nostro paese, come dimostrato dall’ultimo esempio citato. In merito basti pensare a quella che l’attuale situazione della nostra lega pro, al momento attuale; ritorna così attuale il richiamo iniziale operato dal collegio giudicante all’articolo 49, 2° comma, Codice Penale.

È di questi giorni il deposito a Napoli delle motivazioni della sentenza, n. 14692/2011, relativa al processo di primo grado, ormai ribattezzato “Calciopoli”.

Il presente scritto si propone lo scopo di porre in evidenza alcuni aspetti della suddetta pronuncia, senza addentrarsi in una panoramica sulla struttura e sui confini dell’illecito sportivo che, stante le implicazioni di diritto sportivo, richiederebbe un’attenzione da opera monografica.

Oltre 500 pagine a motivare la condanna della maggior parte degli imputati in ordine ai reati contestati, anche se in verità, oltre metà abbondante sono una mera trascrizione di stralci di intercettazioni telefoniche, inserite nel corpo del testo, a suggellare il percorso logico giuridico che ha portato al convincimento del collegio giudicante.

In sostanza agli imputati veniva contestata l’associazione a delinquere ex art 416 cp finalizzata alla commissione di frode in competizioni sportive ex articolo 1, 1° e 3° comma, Legge 401/1989.

Secondo l’impianto accusatorio, l’associazione e i suoi affiliati erano in grado di manipolare i risultati sportivi attraverso un rapporto diretto con alcuni arbitri, facenti parte della stessa, nonché anche attraverso la manomissione del sorteggio arbitrale in modo da assicurare l’abbinamento delle competizioni con elementi sodali agli scopi associativi.

A rafforzare la linea accusatoria, inoltre, veniva contestata la disponibilità, nonché la messa a disposizione di sim telefoniche estere, da parte dei capi dell’associazione nei confronti di alcuni direttori di gara. In questo caso il contenuto delle telefonate non poteva essere intercettato, secondo l’accusa, ma ciò bastava per dimostrare le finalità criminose dell’associazione stante la certezza della corrispondenza tra le suddette sim e gli effettivi possessori ed utilizzatori.

Il collegio giudicante, dalle risultanze del dibattimento certifica la sostanziale regolarità del sorteggio arbitrale e fonda la sua pronuncia di colpevolezza sul possesso delle schede telefoniche straniere a dimostrazione di una capacità dell’associazione di incidere sulla regolarità delle manifestazioni sportive.

A livello giuridico, il collegio qualifica il delitto di frode in competizioni sportive sulla struttura dei delitti di attentato in cui, com’è noto, o per la meritevolezza degli interessi in gioco, oppure per la natura stessa del bene giuridica, si richiede un’anticipazione della tutela penale.

Per garantire la costituzionalità di questi tipi di reati, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti sono concordi nel ritenere che non si possa prescindere quantomeno dai requisiti proprio del tentativo: l’univocità e l’idoneità degli atti a segnare la linea di discrimine con gli atti preparatori che, in quanto tali non sono punibili.

Tale ricostruzione, peraltro, viene evidenziata e rimarcata, ogni qualvolta viene analizzata la posizione di ogni singolo associato di cui si ritiene provata la colpevolezza. Si evidenza altresì, come i due predetti requisiti debbano essere valutati oggettivamente secondo un giudizio di carattere prognostico ex ante anche sulla base di quelle che sono le abitudini, le caratteristiche del contesto di riferimento.

L’aspetto interessante della sentenza in oggetto è che si ritiene raggiunta la prova della colpevolezza anche se è emerso dal dibattimento che il sorteggio arbitrale era regolare e che non vi è prova, sotto il profilo casuale, del condizionamento ai danni dei direttori di gara nell’espletamento in concreto della loro attività e sopratutto dell’alterazione del risultato sportivo.

Anzi, viene ribadito come ai fini della questione in oggetto, non rileva neppure che poi le direzioni arbitrali si siano svolte in modo corretto o meno, poiché risulta sufficiente perchè la fattispecie sia realizzata la messa in pericolo del bene giuridico tutelato.

Si aggiunge che, seppur il sorteggio fosse assolutamente regolare, il mettere, seppur nel rispetto degli stretti paletti delimitati dai criteri delle famose grigle, alcuni arbitri invece che altri è indice del dolo e della capacità di condizionamento dell’associazione.

Certo, emerge in modo radicale una posizione assolutamente differente da quella sostenuta qualche anno addietro dalla procura di Torino che inquadrò, senza prova alcuna del condizionamento sulle direzioni arbitrali, il rapporto di amicalità di alcuni degli odierni imputati con i designatori arbitrali come un comportamento eticamente scorretto ma penalmente irrilevante.

Vediamo, brevemente, alcuni punti un po’ oscuri della pronuncia che inducono a più di una riflessione.

Nelle prime pagine di motivazione, chiarendo che non verrà presa posizione sul punto, si accenna al dibattito dottrinale in merito all’articolo 49, 2° comma, Codice Penale, il cd reato impossibile che costituisce un’espressione del principio generale di offensività.

La fattispecie sul piano astratto si configura, ma non viene ritenuta punibile per la scarsa offensività del fatto come dimostra il classico esempio di scuola del furto di un chicco d’uva.

Prima facie, più che una pronuncia di colpevolezza, sembra quasi che venga offerta una indicazione per un motivo di appello alle difese.

Ulteriormente, nelle pagine successive, pur ribadendo l’elemento fondante delle sim straniere, si valuta la prova di colpevolezza come debole, quasi a far trasparire una mancanza di unanimità nel collegio giudicante.

Quello che, però, desta ancora maggiori dubbi è che da un lato si indica come dal processo sia emerso che la commissione di comportamenti eticamente scorretti fosse pratica costante dell’ambiente calcistico e dall’altro viene tenuta ferma la sussistenza dell’associazione.

Infatti, se si può ritenere coerente il suddetto indirizzo sulla base dell’assunto che una pronuncia di colpevolezza sarebbe stata emanata anche nei confronti di questi altri accadimenti, se solo questi fossero stati oggetto di indagini e del procedimento, risulta contraddittorio pensare a degli associati come i designatori arbitrali che al tempo stesso facevano parte della associazione e contemporaneamente perseguivano scopi contrastanti.

Se, riprendendo quelle che sono le stesse affermazioni del collegio, l’idoneità e l’univocità degli atti vanno valutati secondo quelli che sono i contesti di riferimento, ancora una volta emerge la sensazione di trovarsi di fronte ad una sentenza di assoluzione nelle motivazioni e di condanna nel dispositivo.

In proposito, vale la pena di ricordare come solo nelle more dello scoppio di questo famoso scandalo, il novellato codice di giustizia ha espressamente sancito il divieto di rapporti tra tesserati e designatori arbitrali.

A parere dello scrivente, però, quanto viene affermato potrebbe avere conseguenze destabilizzanti su tutto il mondo del calcio che, al momento vengono sottaciute.

Valga un esempio concreto: da almeno 2-3 stagioni al fine di garantire il regolare svolgimento sotto il profilo economico dei campionati, le società inadempienti nei confronti dei propri tesserati, per quanto concerne gli obblighi contrattuali, da valutarsi per ogni trimestre del campionato in corso, subiscono punti di penalizzazione in classifica.

L’assurdo, stante la ratio alla base di questa introduzione regolamentare, è che, valutando un rapporto di costi-benefici, molte società, in particolare nella Lega Pro, sono inadempienti ai predetti obblighi già dopo il primo mese e non a campionato in corso o sul finire del medesimo. Se secondo il collegio, ai fini della configurazione del delitto di frode in competizioni sportive, rileva il dolo generico della condotta materiale ed è sufficiente che il requisito della mendacio appaia esistente prima facie anche se in concreto inesistente, poiché rileva solo la messa in pericolo del bene giuridico tutelato, nell’esempio citato, indubbiamente siamo ad un livello superiore. Infatti, il non essere adempienti appena si è partiti, configura sotto l’aspetto soggettivo l’elemento del dolo.

Anche il requisito della mendacio può ritenersi sussistente se si pensa che tali condotte fanno ritenere come solvibili società che, invece, non lo sono.

A questo, però, va aggiunto che l’acquistare elementi di maggior valore tecnico che comportano elevati costi, non facendoli acquisire nel contempo alle società concorrenti – se trattandosi di reati di pericolo non rileva il verificarsi dell’evento naturalistico – realizza indubbiamente un’alterazione della competizione sportiva e dei valori in campo. E tutto questo anche se, per ipotesi, nessuno degli atleti che incidono maggiormente nella gestione economica non scendesse in campo.

Il solo fatto di non permettere ad altre società di acquisirli attraverso una rappresentazione mendace di una solidità inesistente nonché una conseguente alterazione dei costi di mercato, configura un’alterazione o una messa in pericolo della sana competizione sportiva.

In conclusione, se va riconosciuto al collegio di Napoli l’improbo compito di discernere in mezzo ad una grande mole di atti e di dichiarazioni, i fatti dalle interpretazioni e dalle dicerie, quanto emerso sul piano della statuizione di diritto potrebbe avere conseguenze di non poco conto sul futuro di quella che è la prima sette industrie del nostro paese, come dimostrato dall’ultimo esempio citato. In merito basti pensare a quella che l’attuale situazione della nostra lega pro, al momento attuale; ritorna così attuale il richiamo iniziale operato dal collegio giudicante all’articolo 49, 2° comma, Codice Penale.