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Clausola penale-potere di riduzione del giudice anche nel caso di irriducibilità: viene meno l’autonomia negoziale delle parti?

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 28 settembre 2006, n. 21066:
L’autonomia negoziale delle parti, nel predisporre il tipo e il contenuto contrattuale, sta diventando sempre più un lontano ricordo di epoche passate e un valore recessivo rispetto ai superiori interessi dettati dall’esigenza della c.d. solidarietà sociale?

Una lettura superficiale di un recente arresto della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 21066 del 28.09.2006) potrebbe indurre in tal senso ma un’attenta lettera della parte in motivazione tende a ridurre, e di molto, la presunta portata innovativa del principio di diritto affermato. Sotto quest’ultimo profilo vale la pena ricordare l’enunciato che sarà, poi, oggetto di commento “Il potere di riduzione ad equità della clausola penale è previsto a tutela di un interesse generale, al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare effettivamente essere meritevole, e può essere esercitato anche qualora le parti abbiano contrattualmente convenuto l’irriducibilità della penale”.

A livello di fatto la decisione in oggetto si è trovata a dover giudicare una situazione che, peraltro, chi ha una certa frequentazione delle aule giudiziarie spesso si trova ad affrontare. Nello specifico il soggetto x stipulava, relativamente ad un immobile, un preliminare di vendita con la società y che, nelle more del definitivo, si impegnava a consegnare il bene nel termine prefissato. A garanzia della predetta obbligazione le parti pattuivano, inoltre, l’importo di una penale sancendone nel contempo l’irriducibilità. Mentre in primo grado il giudicante accertato l’inadempimento della società y riduceva l’importo della predetta penale nel giudizio di appello la Corte, pur confermando quanto prima deciso, riportava l’importo della penale dovuta a quello contrattualmente stabilito.

La Corte di Cassazione, invece, ha nuovamente ribaltato il decisum stabilendo il principio di diritto sopra descritta e, in sostanza, richiamato quanto affermato nella nota sentenza (Cass. Sez. unite 18128/2005). La sentenza delle sezioni unite, come è noto, pose fine ad un contrasto giurisprudenziale in ordine alla riducibilità o meno di ufficio della clausola penale prendendo atto, peraltro, di una evoluzione che si era, ormai, verificata sempre più costantemente a livello di giurisprudenza di merito. I punti nodali su cui si fonda il ragionamento giuridico delle Sezioni unite riprese, poi, dalla seconda sezione sono, in definitiva, riconducibili a 3 punti :

1) il potere di riduzione di ufficio si giustifica in base al superiore principio di solidarietà ex art 2 cost e di ricostituzione dell’equilibrio contrattuale sancito dalla clausola generale della buona fede che deve animare il contratto nelle rispettive fasi delle trattative, dell’esecuzione e dell’interpretazione

2) tutte le volte in cui il legislatore ha previsto l’impossibilità di un intervento di ufficio lo ha espressamente stabilito richiedendo un’esplicita eccezione della parte ( vedi ad esempio l’eccezione di annullabilità, rescissione, di prescrizione) senza dimenticare che lo stesso art 2058 c.c., a proposito del risarcimento in forma specifica, prevede che il giudice possa optare per il risarcimento per equivalente nonostante ogni contraria richiesta del danneggiato.

3) non vi è violazione dell’art 112 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché il giudice non può condannare ad una somma superiore il debitore ma ad una inferiore. Già, in precedenza, chi scrive ha sollevato, preceduto, del resto, da autorevole dottrina perplessità in ordine ad un intervento così penetrante del giudicante che corre il rischio di andare ad incidere anche su scelte di mera strategia processuale.

Da queste prime considerazioni emerge, dunque, come il principio affermato nella sentenza in commento non abbia un effetto così deflagrante ma sia, alla realtà dei fatti, solo il logico precipitato del decisum delle Sezioni Unite. Infatti, se si parte dal presupposto che la tutela dell’equilibrio contrattuale e del c.d. soggetto debole sia una sorta di principio generale che si configura come un vero e proprio potere-dovere di intervento del giiudice, in sostanza si ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale relative alle c.d clausole di esonero della responsabilità e all’applicazione di quanto disposto dall’art 1229 c.c.

Per chiarire ulteriormente il concetto basti pensare al fatto che giurisprudenza pressoché costante ritiene nulle le clausole di limitazione della responsabilità stipulate dalla Banche nei confronti dei clienti quando si tratta del contenuto c.d cassette di deposito.

Come si vede, dunque, il fatto che la presenza di un’espressa clausola possa essere accantonata dall’intervento del giudice non è certo una novità della sentenza in commento e nello specifico in un caso si pone un problema di diminuzione e nell’altro di aumento. Quello che, però, lascia perplessi è che nell’ipotesi della riduzione della clausola penale l’intervento del giudice è decisamente più discrezionale ed incidente in quanto va a sindacare sull’importo della medesima mentre nell’ipotesi dell’art 1229 c.c. si ragiona di nullità. Va considerato, poi, che di fronte ai casi concreti quando ci si trasferisce dal piano astratto può risultare davvero problematico stabilire chi sia la parte veramente debole.

La clausola penale, infatti, spesso, in realtà, rappresenta uno dei pochi strumenti che a disposizione una parte per porsi in una situazione di equilibrio, almeno inizialmente, con la contro parte. Basti pensare al soggetto x che per garantirsi, di fronte all’impresa edile, il rispetto degli obblighi contrattuali stipuli una penale anche dall’importo molto elevato. Le novelle legislative che si sono susseguite in merito al contratto preliminare ed alla trascrivibilità dello stesso sono indicative in tale senso. In altre parole spesso la clausola penale non è stabilita dalla parte forte bensì da quella debole. Detto questo va evidenziato un aspetto sin qui trascurato in relazione alla questione in oggetto: l’inadempimento prescinde dalla personale economia del debitore.

Senza prendere posizione in ordine all’annoso dibattito se l’inadempimento dell’obbligazione sia una responsabilità per colpa o una responsabilità oggettiva è acclarato, però, come sia inadempiente il soggetto che si obbliga ad eseguire una prestazione che per i suoi mezzi o per le sue possibilità non sia in grado di adempiere nei modi e nei tempi stabiliti. Senza dimenticare, peraltro, come lo stesso sia in grado di rendersi conto della portata dell’eventuale danno al momento in cui sorge l’obbligazione e in tal senso si spiega la limitazione di cui all’art 1225 c.c. a differenza di quanto accade, invece, nel caso di responsabilità extra contrattuale.

Ora non si vede come l’importo stabilito nella penale non debba considerarsi come un danno prevedibile in grado di dare certezza al rapporto obbligatorio fatto salvo, ovviamente, l’eventuale risarcimento del danno ulteriore regolato dai principi generali. In conclusione si deve segnalare il concreto rischio che la parte in cui favore è stipulata la penale possa essere penalizzata dalla scelta di partenza dato che la penale, infatti, sconta il margine di alea implicito nel quantum del danno con il minor carico probatorio e magari la clausola non sia prevista per il semplice ritardo.

Un intervento a posteriori, per giunta d’ufficio (può anche essere che il debitore non eccepisca in merito in quanto non si ritiene in grado di nulla dimostrare sull’eccessività della penale una volta soccombente sull’inadempimento), corre il pericolo di svilire la portata della penale favorendo un debitore malizioso che era ben conscio della portata e dei limiti della prestazione oggetto dell’obbligazione cui si è vincolato.

Non va trascurata la contraddizione di un ordinamento che non prevede danni “punitivi” liquidabili dal giudice che non altri margini se non quelli della valutazione equitativa.

In altre parole il principio di fondo, dietro l’affermato principio di diritto, è che il giudice può condannare ad una somma inferiore sulla scorta dei principi generali ma non certo ad una somma superiore rispetto a quella che il creditore riesca, suo malgrado, a provare nonostante, e l’ipotesi non è peregrina, questi ultimi siano prima facie di maggior entità.

L’autonomia negoziale delle parti, nel predisporre il tipo e il contenuto contrattuale, sta diventando sempre più un lontano ricordo di epoche passate e un valore recessivo rispetto ai superiori interessi dettati dall’esigenza della c.d. solidarietà sociale?

Una lettura superficiale di un recente arresto della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 21066 del 28.09.2006) potrebbe indurre in tal senso ma un’attenta lettera della parte in motivazione tende a ridurre, e di molto, la presunta portata innovativa del principio di diritto affermato. Sotto quest’ultimo profilo vale la pena ricordare l’enunciato che sarà, poi, oggetto di commento “Il potere di riduzione ad equità della clausola penale è previsto a tutela di un interesse generale, al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare effettivamente essere meritevole, e può essere esercitato anche qualora le parti abbiano contrattualmente convenuto l’irriducibilità della penale”.

A livello di fatto la decisione in oggetto si è trovata a dover giudicare una situazione che, peraltro, chi ha una certa frequentazione delle aule giudiziarie spesso si trova ad affrontare. Nello specifico il soggetto x stipulava, relativamente ad un immobile, un preliminare di vendita con la società y che, nelle more del definitivo, si impegnava a consegnare il bene nel termine prefissato. A garanzia della predetta obbligazione le parti pattuivano, inoltre, l’importo di una penale sancendone nel contempo l’irriducibilità. Mentre in primo grado il giudicante accertato l’inadempimento della società y riduceva l’importo della predetta penale nel giudizio di appello la Corte, pur confermando quanto prima deciso, riportava l’importo della penale dovuta a quello contrattualmente stabilito.

La Corte di Cassazione, invece, ha nuovamente ribaltato il decisum stabilendo il principio di diritto sopra descritta e, in sostanza, richiamato quanto affermato nella nota sentenza (Cass. Sez. unite 18128/2005). La sentenza delle sezioni unite, come è noto, pose fine ad un contrasto giurisprudenziale in ordine alla riducibilità o meno di ufficio della clausola penale prendendo atto, peraltro, di una evoluzione che si era, ormai, verificata sempre più costantemente a livello di giurisprudenza di merito. I punti nodali su cui si fonda il ragionamento giuridico delle Sezioni unite riprese, poi, dalla seconda sezione sono, in definitiva, riconducibili a 3 punti :

1) il potere di riduzione di ufficio si giustifica in base al superiore principio di solidarietà ex art 2 cost e di ricostituzione dell’equilibrio contrattuale sancito dalla clausola generale della buona fede che deve animare il contratto nelle rispettive fasi delle trattative, dell’esecuzione e dell’interpretazione

2) tutte le volte in cui il legislatore ha previsto l’impossibilità di un intervento di ufficio lo ha espressamente stabilito richiedendo un’esplicita eccezione della parte ( vedi ad esempio l’eccezione di annullabilità, rescissione, di prescrizione) senza dimenticare che lo stesso art 2058 c.c., a proposito del risarcimento in forma specifica, prevede che il giudice possa optare per il risarcimento per equivalente nonostante ogni contraria richiesta del danneggiato.

3) non vi è violazione dell’art 112 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché il giudice non può condannare ad una somma superiore il debitore ma ad una inferiore. Già, in precedenza, chi scrive ha sollevato, preceduto, del resto, da autorevole dottrina perplessità in ordine ad un intervento così penetrante del giudicante che corre il rischio di andare ad incidere anche su scelte di mera strategia processuale.

Da queste prime considerazioni emerge, dunque, come il principio affermato nella sentenza in commento non abbia un effetto così deflagrante ma sia, alla realtà dei fatti, solo il logico precipitato del decisum delle Sezioni Unite. Infatti, se si parte dal presupposto che la tutela dell’equilibrio contrattuale e del c.d. soggetto debole sia una sorta di principio generale che si configura come un vero e proprio potere-dovere di intervento del giiudice, in sostanza si ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale relative alle c.d clausole di esonero della responsabilità e all’applicazione di quanto disposto dall’art 1229 c.c.

Per chiarire ulteriormente il concetto basti pensare al fatto che giurisprudenza pressoché costante ritiene nulle le clausole di limitazione della responsabilità stipulate dalla Banche nei confronti dei clienti quando si tratta del contenuto c.d cassette di deposito.

Come si vede, dunque, il fatto che la presenza di un’espressa clausola possa essere accantonata dall’intervento del giudice non è certo una novità della sentenza in commento e nello specifico in un caso si pone un problema di diminuzione e nell’altro di aumento. Quello che, però, lascia perplessi è che nell’ipotesi della riduzione della clausola penale l’intervento del giudice è decisamente più discrezionale ed incidente in quanto va a sindacare sull’importo della medesima mentre nell’ipotesi dell’art 1229 c.c. si ragiona di nullità. Va considerato, poi, che di fronte ai casi concreti quando ci si trasferisce dal piano astratto può risultare davvero problematico stabilire chi sia la parte veramente debole.

La clausola penale, infatti, spesso, in realtà, rappresenta uno dei pochi strumenti che a disposizione una parte per porsi in una situazione di equilibrio, almeno inizialmente, con la contro parte. Basti pensare al soggetto x che per garantirsi, di fronte all’impresa edile, il rispetto degli obblighi contrattuali stipuli una penale anche dall’importo molto elevato. Le novelle legislative che si sono susseguite in merito al contratto preliminare ed alla trascrivibilità dello stesso sono indicative in tale senso. In altre parole spesso la clausola penale non è stabilita dalla parte forte bensì da quella debole. Detto questo va evidenziato un aspetto sin qui trascurato in relazione alla questione in oggetto: l’inadempimento prescinde dalla personale economia del debitore.

Senza prendere posizione in ordine all’annoso dibattito se l’inadempimento dell’obbligazione sia una responsabilità per colpa o una responsabilità oggettiva è acclarato, però, come sia inadempiente il soggetto che si obbliga ad eseguire una prestazione che per i suoi mezzi o per le sue possibilità non sia in grado di adempiere nei modi e nei tempi stabiliti. Senza dimenticare, peraltro, come lo stesso sia in grado di rendersi conto della portata dell’eventuale danno al momento in cui sorge l’obbligazione e in tal senso si spiega la limitazione di cui all’art 1225 c.c. a differenza di quanto accade, invece, nel caso di responsabilità extra contrattuale.

Ora non si vede come l’importo stabilito nella penale non debba considerarsi come un danno prevedibile in grado di dare certezza al rapporto obbligatorio fatto salvo, ovviamente, l’eventuale risarcimento del danno ulteriore regolato dai principi generali. In conclusione si deve segnalare il concreto rischio che la parte in cui favore è stipulata la penale possa essere penalizzata dalla scelta di partenza dato che la penale, infatti, sconta il margine di alea implicito nel quantum del danno con il minor carico probatorio e magari la clausola non sia prevista per il semplice ritardo.

Un intervento a posteriori, per giunta d’ufficio (può anche essere che il debitore non eccepisca in merito in quanto non si ritiene in grado di nulla dimostrare sull’eccessività della penale una volta soccombente sull’inadempimento), corre il pericolo di svilire la portata della penale favorendo un debitore malizioso che era ben conscio della portata e dei limiti della prestazione oggetto dell’obbligazione cui si è vincolato.

Non va trascurata la contraddizione di un ordinamento che non prevede danni “punitivi” liquidabili dal giudice che non altri margini se non quelli della valutazione equitativa.

In altre parole il principio di fondo, dietro l’affermato principio di diritto, è che il giudice può condannare ad una somma inferiore sulla scorta dei principi generali ma non certo ad una somma superiore rispetto a quella che il creditore riesca, suo malgrado, a provare nonostante, e l’ipotesi non è peregrina, questi ultimi siano prima facie di maggior entità.