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Consuetudine canonica: analisi della disciplina positiva

Mercato
Ph. Stefania Fiorenza / Mercato

Indice:

1. Introduzione e sinossi dei canoni

2. Il Codice pio-benedettino

2.1 Premessa generale

2.2 I singoli canoni e i punti certi

2.3 Quale comunità può dar vita ad una consuetudine?

2.4 L'animus communitatis

2.5 La rationabilitas

3. Il Codice del 1983

3.1 Premessa. Le differenze testuali rispetto ai canoni precedenti

3.2 Le novità apportate dal legislatore

3.2.1 L'animus communitatis

3.2.2 Rationabilitas e consuetudo secundum legem

3.2.3 Il tempo necessario a prescrivere

3.2.4 Il consenso speciale

3.2.5 La communitas capax recipiendi

4. Conclusione

 

1. Introduzione e sinossi dei canoni

La nostra indagine, che ha ripercorso almeno schematicamente l'evoluzione nel tempo delle teorie sulla consuetudine in ambito canonico e della relativa disciplina, approda adesso alle ultime due tappe, le più recenti: la doppia codificazione latina, del 1917 e del 1983 (resta invece escluso dall'indagine il Codice orientale, porto d'approdo di una diversa traditio). Entrambe concentrano la disciplina in sei canoni e, anche se nel prosieguo le esamineremo distintamente, mi sembra opportuno presentare, anzitutto, al lettore le disposizioni in sinossi, disposte secondo l'ordine del Codice pio-benedettino. Le differenze di rilievo sono marcate in grassetto.

Codice del 1917 (Lib. I tit. II)

Codice del 1983 (Lib. I tit. II)

Can. 25. Consuetudo in Ecclesia vim legis a consensu competentis Superioris ecclesiastici unice obtinet.

Can. 23 - Ea tantum consuetudo a communitate fidelium introducta vim legis habet, quae a legislatore approbata fuerit, ad normam canonum qui sequuntur.

Can. 26. Communitas quae legis ecclesiasticae saltem recipiendae capax est, potest consuetudinem inducere quae vim legis obtineat.

Can. 25 - Nulla consuetudo vim legis obtinet, nisi a communitate legis saltem recipiendae capaci cum animo iuris inducendi servata fuerit.

Can. 27. par. 1. Iuri divino sive naturali sive positivo nulla consuetudo potest aliquatenus derogare; sed neque iuri ecclesiastico praeiudicium affert, nisi fuerit rationabilis et legitime per annos quadraginta continuos et completos praescripta; contra legem vero ecclesiasticam quae clausulam contineat futuras consuetudines prohibentem, sola praescribere potest rationabilis consuetudo centenaria aut immemorabilis.

par. 2. Consuetudo quae in iure expresse reprobatur non est rationabilis.

Can. 24 - § 1. Nulla consuetudo vim legis obtinere potest, quae sit iuri divino contraria. 

§ 2. Nec vim legis obtinere potest consuetudo contra aut praeter ius canonicum, nisi sit rationabilis; consuetudo autem quae in iure expresse reprobatur, non est rationabilis.

 

Can. 28. Consuetudo praeter legem, quae scienter a communitate cum animo se obligandi servata sit, legem inducit, si pariter fuerit rationabilis et legitime per annos quadraginta continuos et completos praescripta.

Can. 26 - Nisi a competendi legislatore specialiter fuerit probata, consuetudo vigenti iuri canonico contraria aut quae est praeter legem canonicam, vim legis obtinet tantum, si legitime per annos triginta continuos et completos servata fuerit; contra legem vero canonicam, quae clausulam contineat futuras consuetudines prohibentem, sola praevalere potest consuetudo centenaria aut immemorabilis.

Can. 29. Consuetudo est optima legum interpres.

Can. 27 - Consuetudo est optima legum interpres.

Can. 30. Firmo praescripto can. 5, consuetudo contra legem vel praeter legem per contrariam consuetudinem aut legem revocatur; sed, nisi expressam de iisdem mentionem fecerit, lex non revocat consuetudines centenarias aut immemorabiles, nec lex generalis consuetudines particulares.

Can. 28 - Firmo praescripto can. 5, consuetudo, sive contra sive praeter legem per contrariam consuetudinem aut legem revocatur; sed, nisi expressam de iis mentionem faciat, lex non revocat consuetudines centenarias aut immemorabiles, nec lex universalis consuetudines particulares.

Va da sé che l'indagine deve muovere dal Codice anteriore e spiegare le differenze illustrando il testo più recente.

 

2. Il Codice pio-benedettino

2.1 Premessa generale

Secondo la distinzione usuale tra i nostri storici del diritto, il Codice del 1917 corrisponde più ad una “consolidazione” che ad una “codificazione” propriamente detta. Almeno per come si presenta: Fantappié, in particolare, sostiene ormai da tempo che sia stato applicato secondo una mentalità “positivistica” che sarebbe dovuta restar estranea ai suoi interpreti.[1] Invero, il can. 5 prevedeva bensì un effetto di tabula rasa, ma solo rispetto alle consuetudini contrarie, generali o particolari, con la possibilità di tollerare solo quelle ultracentenarie o immemorabili;[2] tutt'altro discorso, invece, per la fonte legislativa e per quella dottrinale, oggetto del can. 6, che vale la pena riportare per esteso.

Can. 6. Codex vigentem huc usque disciplinam plerumque retinet, licet opportunas immutationes afferat. Itaque:

1.deg. Leges quaelibet, sive universales sive particulares, praescriptis huius Codicis oppositae, abrogantur nisi de particularibus legibus aliud expresse caveatur;

2.deg. Canones qui ius vetus ex integro referunt, ex veteris iuris auctoritate, atque ideo ex receptis apud probatos auctores interpretationibus, sunt aestimandi;

3.deg. Canones qui ex parte tantum cum veteri iure congruunt, qua congruunt, ex iure antiquo aestimandi sunt; qua discrepant, sunt ex sua ipsorum sententia diiudicandi;

4.deg. In dubio num aliquod canonum praescriptum cum veteri iure discrepet, a veteri iure non est recedendum;

5.deg. Quod ad poenas attinet, quarum in Codice nulla fit mentio, spirituales sint vel temporales, medicinales vel, ut vocant, vindicativae, latae vel ferendae sententiae, eae tanquam abrogatae habeantur;

6.deg. Si qua ex ceteris disciplinaribus legibus, quae usque adhuc viguerunt, nec explicite nec implicite in Codice contineatur, ea vim omnem amisisse dicenda est, nisi in probatis liturgicis libris reperiatur, aut lex sit iuris divini sive positivi sive naturalis.”   

Il principio generale è dunque la conservazione (cfr. §1). Ma di cosa, esattamente?

La risposta ci viene dal §2: non tanto delle leggi intese come testi normativi,[3] quanto della communis opinio che su questi si è formata nel corso del tempo. Si conserva la “norma”, diremmo noi, non la “disposizione”, e la norma è data dalla dottrina, che fino a quel momento si era sobbarcata l'ingrato compito di mettere ordine nell'“immensum aliarum super alias coacervatarum legum cumulum” così ben descritto da Gasparri, nella prefazione al Codice stesso, prendendo a prestito un noto brano di Livio: da essa il ius ripete – non la potestas, evidentemente, ma - l'auctoritas

Si noti che il §2 parla di ius vetus, non di leges come il §1: la dottrina è il filtro o il prisma attraverso cui qualunque fonte giuridica è dovuta passare; il ius vetus, quindi, è anche il diritto positivo consuetudinario, almeno nella misura in cui possa parlarsi di consuetudini universali e di elaborazioni dottrinali che le includono. L'ipotesi non è peregrina, almeno per le consuetudini secundum legem.

Ma siccome, in diritto canonico, la dottrina stessa è fonte di diritto in via suppletiva, ecco che la convergenza dei probati auctores può costituire di per sé ius vetus. E questo spiega perché la communis opinio di impronta suareziana sia stata recepita nel Codice anche, anzi soprattutto rispetto ai tanti punti in cui mancava una disciplina legislativa. 

2.2 I singoli canoni e i punti certi

Sulla scorta del criterio interpretativo enunciato dal can. 6, comprendiamo subito come intendere il combinato disposto dei cann. 25 e 26 CIC17: ogni communitas può introdurre una consuetudo intesa come semplice dato di fatto, ma solo una communitas capax saltem recipiendi legem può introdurne una che abbia forza di legge. Forza che, tuttavia, dipende “unicamente” dal consenso del legislatore universale o particolare, accomunati sotto la dicitura generica di “superiore ecclesiastico competente”, id est secondo le rispettive sfere di giurisdizione. Insomma, questi due canoni ci dicono che la teoria di Suárez è divenuta legge della Chiesa e le altre sono state respinte; la spiegazione della consuetudine come prodotto di una duplice causa efficiente, sebbene non incorporata nella littera legis, è a sua volta “canonizzata” per effetto del can. 6; e, almeno in teoria, le dispute di teoria generale sulla natura del diritto consuetudinario sono terminate.

Tuttavia, la locuzione “communitas capax saltem recipiendi legem” non viene definita né qui né altrove nel Codice... e non ha alle proprie spalle un analogo consenso interpretativo, anche se in pratica si riconosceva senza problemi la legittimità di consuetudini almeno cittadine, senza che occorresse il possesso di potestà legifera.[4] Perciò, sempre in forza del can. 6, questo risultato deve intendersi mantenuto o recepito, ma su tutto il resto rimane aperto un dibattito che il legislatore – forse ritenendolo de minimis – ha preferito non decidere.

Invece, il can. 27 dirime il dubbio sul tempo necessario alla praescriptio consuetudinis, optando per la soluzione più severa, quella della Glossa, che richiedeva sempre il quarantennio; prescrivendo che questi anni siano completi, esclude ogni efficacia giuridica alla consuetudo inchoata, mentre il requisito della continuità vale come continuità morale, nel senso generalmente inteso. E si risolve anche il problema della consuetudo reprobata, recependo la soluzione di Suárez: è implicito, ma chiaro nel testo di legge che la semplice abrogazione non vale reprobatio della consuetudine, per la quale si richiede una dichiarazione espressa, diversa anche dalla proibizione di consuetudini future. Così si viene a creare una scala di difficoltà crescente: occorrono quarant'anni per vincere la legge pura e semplice, cento o più per quella con clausola proibente pro futuro, mentre il giudizio di riprovazione rende l'usanza irrationabilis e, perciò, incapace di ottenere mai forza di legge.[5] A questo punto, è già piuttosto chiaro che le scelte dei codificatori sono improntate ad una certa diffidenza verso la fonte consuetudinaria.

Anche il can. 28 fa propria una tesi di Suárez, precisamente quella sull'animus richiesto per la consuetudine praeter legem: la “intentio se obligandi” è la volontà di creare un obbligo là dove non c'era, quindi sono escluse le convinzioni erronee sull'esistenza di una legge, da seguirsi o contraria. Il trattamento da riservarsi a queste ultime non è chiarito, perché non si parla dell'animus richiesto negli altri casi; ma siccome è chiaro che potrebbero – al massimo – rilevare solo per il loro essere, in concreto, secundum o contra la legge vera, l'importanza pratica del problema dovrebbe essere (per lo più) superata dall'unificazione a quarant'anni della praescriptio per tutti i tipi di consuetudine.

Il can. 29 si limita a prevedere l'efficacia interpretativa della consuetudine, senza specificare se debba intendersi la secundum legem oppure quella anteriore all'introduzione della legge; entrambe le accezioni restano pertanto legittime, ma il significato più immediato del testo è certo quello che lo riferisce all'interpretazione posteriore di una legge preesistente al fenomeno interpretante.

Dal canto suo, il can. 30 sancisce l'effetto abrogativo istantaneo della legislazione sulla consuetudine (con obbligo di menzione espressa per le particolari, le ultracentenarie o le immemorabili) e chiarisce che il mutamento spontaneo del fenomeno consuetudinario è assimilato alla contra legem.

Infine, si noterà che manca una menzione del consenso speciale del legislatore; gli interpreti, però, lo hanno ritenuto implicito nel can. 25, che si ridurrebbe a un inutile doppione del 28 se l'unica forma ammessa fosse il consenso legale.[6] Ciò lascia peraltro indefinita la natura della consuetudine approvata consensu speciali.[7]

Fin qui i punti chiari e sicuri. Ma, anche se gli autori di Codici si illudono sempre di aver risolto ogni possibile controversia, o almeno ogni controversia rilevante, questo non è mai vero; nel caso del CIC 1917, poi la stessa rilevanza accordata al ius vetus faceva sì che, ovunque non vi fosse un accordo tra gli autori o una chiara inferenza dal testo codicistico, si perpetuassero i contrasti interpretativi di prima. E questo si è rivelato senz'altro vero nel caso della consuetudine.

2.3 Quale comunità può dar vita ad una consuetudine?

Il problema della definizione della communitas capax saltem recipiendi legem nasce sia dalla mancanza di una definizione legislativa sia dal fatto che la legge può riguardare tutte le categorie di persone o gruppi, ma qui non si intende una disciplina generale, bensì una legge dettata proprio per quella comunità.[8] E siccome nella Chiesa, accanto all'articolazione gerarchico-territoriale che va dalla parrocchia fino alla Santa Sede, vi sono innumerevoli realtà, associazioni di fatto o variamente approvate, persone giuridiche, Ordini religiosi etc., era ed è necessario porsi una domanda sempre affascinante e difficile: “Fin dove arriva il diritto?”. Ovvero: quali comunità sono, prese singolarmente e non per tipo, abbastanza importanti per l'ordinamento generale, o anche approvate a sufficienza, perché si possano considerare passibili di ricevere una legge loro propria?

A metà degli anni Sessanta, quando ormai si apriva una stagione nuova, un manuale istituzionale , illustrando il can. 26,ha riassunto così i termini concreti del dibattito: «Tali sono una diocesi, una provincia monastica, un istituto religioso. È controverso se lo siano una parrocchia, un vicariato foraneo, una casa religiosa, un capitolo.».[9]

In realtà, però, almeno per parrocchie e capitoli i dubbi erano pochi: contro l'opinione contraria – fondata sull'assunto che tali comunità sarebbero destinatarie solo di statuti privilegi o precetti, non però di leggi propriamente dette - si potevano, infatti, «citare i cann. 396 § 2, 403 § 2, 418 § 1 dai quali si desume la capacità dei capitoli cattedrali e collegiali, i can. 1230 §7, 1290 § 2 e le decisioni della S. R. Rota 18 e 27 luglio 1914 circa il riconoscimento di consuetudini parrocchiali».[10] Restava però un'incertezza notevole per tutte le altre realtà, sicché si rendeva necessario ragionare in termini generali.

Innanzitutto, quindi, era chiaro che la capacitas recipiendi legem doveva intendersi inclusa a fortiori nella titolarità attuale di potestà legislativa; e questo era un altro elemento in favore dei Capitoli cattedrali, cui, sotto il CIC1917, spettava il governo della Diocesi vacante. All'elenco potevano poi aggiungersi quelle comunità che avessero ottenuto la potestà di giurisdizione,[11] vuoi con atto generale o speciale del Papa o del Vescovo, vuoi per prescrizione acquisitiva, dove il possesso era ravvisato in particolare nell'inflizione di vere e proprie pene canoniche. La concessione, sebbene in misura non sempre uniforme, c'era stata per i diversi Ordini religiosi;[12] quanto al resto, occorreva un'indagine caso per caso, che però era risolutiva solo se riscontrava la titolarità di iurisdictio, non anche quando la escludeva.

All'estremo inferiore della scala, per così dire, è invece pacifico che né le abitudini di un singolo né le usanze di una famiglia possono dar luogo a consuetudini in senso proprio, sempre perché manca la potestà di giurisdizione. E non vi sono state particolari difficoltà a distinguere la communitas dalla semplice riunione occasionale, esigendo un carattere di stabilità che la rendesse, almeno potenzialmente, capace di perpetuarsi al di là delle persone dei singoli aderenti (Michiels).

Quid iuris, però, nell'intermedio mare magnum di organizzazioni che davano senz'altro vita a prassi consolidate? Nessun problema quando si verificava il consenso espresso del legislatore: allora la prassi aveva senz'altro valore giuridico, se non come consuetudine certo come privilegio; ma negli altri casi, ovviamente immancabili e numerosi?

Su questo punto, si sono scontrate due proposte di definizione generale: Michiels e van Hove ritenevano capax recipiendi, in definitiva, «ogni comunità, anche minima, istituita, approvata o riconosciuta dall'autorità ecclesiastica come vera comunità,» nel senso appena precisato, «e la cui attività non sia diretta esclusivamente al conseguimento del proprio bene privato, ma sia ordinata a promuovere il bene comune della Chiesa universale o almeno di quella sua determinata parte alla quale la comunità appartenga come parte subalterna o integrativa», dunque non solo parrocchie e case religiose, ma anche le Confraternite.[13] Invece, per van Hove, l'indispensabile riferimento a bene comune comportava esiti più restrittivi, rendendo necessario – in particolare – che l'usanza riguardasse in concreto relazioni giuridiche ad esso ordinate e che il superiore della comunità potesse considerarsi titolare di un incarico pubblico. Requisiti, sia dato aggiungere, di non certa individuazione in concreto, il che lasciava sussistere ampi margini di incertezza.[14]

2.4 L'animus communitatis

Quello che in diritto italiano è il requisito della opinio iuris, dunque alla lettera una convinzione di agire secondo una regola vincolante che già esiste, per i canonisti è quasi l'esatto contrario: si parla di animus communitatis per intendere non un'opinione, bensì un'intenzione, e precisamente quella di creare un obbligo là dove non c'era, almeno non in quei termini.

Almeno nella consuetudine praeter legem: se il requisito dell'intenzionalità occorresse anche nella contra legem era discusso nella dottrina precodiciale e tanto più sotto il Codice, che lo esigeva espressamente solo per la praeter.[15] Accanto all'ovvia interpretazione a contrario, però, non mancavano né i fautori dell'animus propriamente detto, dunque con la stessa consapevolezza richiesta per la praeter legem, né quelli di una tesi intermedia, un animus interpretativus che si poteva sostanzialmente presumere ogni volta che ci si trovava di fronte alla diuturna inosservanza di un obbligo legale, perché la semplice costanza nell'omissione basta a rendere percettibile all'esterno l'intento di recuperare la libertà.[16] Una possibile soluzione del problema consisteva nel ritenere che questa violazione generalizzata attestasse la cessazione ab intrinseco della legge, che doveva ormai considerarsi non più rispondente al bene comune, sicché si sarebbe ricaduti nel caso della praeter legem; ma anche qui non mancavano le difficoltà, prima fra tutte la consapevolezza, in ipotesi necessaria, dell'abrogazione in parola.[17]

Si intreccia con il problema dell'animus anche quello del decorso del tempo necessario alla praescriptio: van Hove vi include anche i primi atti, tenuti soltanto da alcuni membri, perché in concreto hanno spiegato efficacia orientativa sul resto della comunità; Michiels, stante il tenore del can. 26, li ritiene invece irrilevanti in termini giuridici ed esige che gli atti siano già compiuti dalla maggioranza dei membri, oppure dalla comunità come tale. 

2.5 La rationabilitas

Fin dagli albori del dibattito teorico sulla consuetudine, si scontrano una concezione “negativa” e una “positiva” del fondamentale requisito della rationabilitas.[18] Ovviamente anche qui si avvertono i riflessi del problema degli apporti rispettivi del popolo e del legislatore: chi privilegia il ruolo della comunità è, quasi automaticamente, più incline a ritener consentite tutte le consuetudini “non disapprovate” dal diritto divino o umano; viceversa, la richiesta di un giudizio positivo sul loro contenuto concreto sarà comune presso chi accentua il ruolo del legislatore e, non sempre inconsciamente, preferirebbe che il problema fosse sempre risolto mediante il consenso speciale. Ma il CIC1917, risolto definitivamente il quesito sulle cause efficienti della consuetudine, non ha speso parola per precisare il requisito della rationabilitas, a parte quando l'ha negato alla consuetudo expresse reprobata.

Chiaramente, «riproducendo tali disposizioni il ius vetus […] concordano i canonisti nel ritenere irrazionabili anche quelle consuetudini che contengono peccato o spingono al peccato, quelle che ledono la costituzione della Chiesa sia opponendosi alla sua potestà di ordine, di giurisdizione o di magistero, sia contrastando alle prerogative annesse a tali potestà, e quelle infine che contrastano alle finalità ed alla natura della Chiesa o ad alcuno dei suoi istituti.».[19] Concordano, in altre parole, sulla necessità che sussista almeno la rationabilitas “negativa”, il nulla osta, per così dire, rispetto al diritto divino e agli scopi istituzionali della Chiesa. Resta però aperta la discussione sull'esigenza di una rationabilitas “positiva”, che si potrebbe a questo punto anche tradurre “ragionevolezza” ma che viene a coincidere con un requisito specifico della legge canonica, l'ordinatio ad bonum commune. La maggioranza degli interpreti la ritiene necessaria, almeno se non si tratta di abrogazione pura e semplice ma di “obrogazione” ossia sostituzione della disciplina legale con un'altra;[20] tuttavia, la sufficienza della rationabilitas “negativa” ha conservato patroni di peso (Michiels, van Hove,[21] Fedele, Conte da Coronata, Cicognani). Va comunque detto che lo spessore della controversia è soprattutto teorico, non pratico: «In pratica, la razionabilità positiva della consuetudine si presume fino a prova in contrario ogni qual volta la consuetudine versi in materia di per sé onesta e moralmente possibile e si siano verificate le condizioni richieste dalla legge per la sua introduzione.».[22]

 

3. Il Codice del 1983

3.1 Premessa. Le differenze testuali rispetto ai canoni precedenti

Nonostante i pochi decenni che li separano, i Codici del 1917 e del 1983 sono espressione di ecclesiologie notevolmente diverse, che si possono schematizzare pressapoco in questi termini: il primo sottolinea soprattutto l'elemento gerarchico ed è preoccupato di salvaguardare le prerogative del coetus dominans – i chierici – da ogni possibile ingerenza del laicato; il secondo, oltre a formalizzare veri e propri diritti soggettivi, anche e soprattutto nei confronti dell'autorità, comprende l'esistenza della gerarchia alla luce e in vista dell'unità del Popolo di Dio, di cui fanno parte tutti, chierici e laici. Di qui disposizioni come il can. 129, che abilita il laico idoneo a cooperare all'esercizio della potestà di governo; di qui un recupero di favore verso il fenomeno associativo nella Chiesa, anche quando non vi sia ancora un giudizio di approvazione da parte dell'autorità ecclesiastica su quel singolo coetus; di qui – per quel che adesso ci interessa maggiormente – un approccio molto meno diffidente verso il fenomeno consuetudinario.

Il mutamento di indirizzo è visibile, prima ancora che nelle novità normative (che sono relativamente poche), proprio in quelle differenze di redazione tra vecchi e nuovi canoni, che in genere non hanno ricadute pratiche immediate, ma sono proprio indice di questo diverso teorizzare.

Ciò vale, in primo luogo, per il nuovo can. 23: il caposaldo della dottrina suareziana è chiaramente mantenuto, ma adesso si pone in primo piano l'introduzione della consuetudine da parte della comunità, rispetto a cui l'intervento del legislatore si configura come un dato esterno, una approbatio, sempre necessaria però alla produzione dei suoi effetti giuridici.[23] Inoltre, i canoni successivi sono formulati in termini negativi, precisano cioè quali consuetudini non li possano produrre, il che sottintende una regola generale favorevole; non per nulla, il vecchio can. 27 §1 - “...neque iuri ecclesiastico praeiudicium affert, nisi...” - diviene un più circoscritto e neutro “Nec vim legis obtinere potest consuetudo contra aut praeter ius canonicum, nisi...” (can. 24 §2). Di segno contrario può apparire, semmai, solo il fatto che adesso la menzione della communitas capax saltem recipiendi legem segua il requisito della rationabilitas e non lo preceda; ma qui occorre considerare che esso dev'essere tenuto in considerazione, prima ancora che dall'autorità ecclesiastica, anzitutto dai membri della comunità nella loro azione concreta.

Per il resto, le norme del nuovo Codice si preoccupano – giustamente – di risolvere almeno alcune      delle controversie interpretative.

3.2 Le novità apportate dal legislatore

3.2.1 L'animus communitatis

Il primo chiarimento riguarda il requisito dell'animus, che adesso è inequivocabilmente riferito a tutti i tipi di consuetudine; viene infatti espresso come “animus iuris inducendi” (can. 25) per includere anche il diritto interpretativo e quello soggettivo, cioè la liberazione pura e semplice dalla legge.[24] Il dibattito dottrinale sulla sua necessità nella consuetudine contra legem è quindi superato e, stante la specificazione “iuris inducendi”, dovrà dirsi che, se l'usanza è diretta alla pura e semplice abrogazione, l'intento perseguito sarà necessariamente la libertà, l'eliminazione del vincolo giuridico, mentre se sostituisce la disciplina legale con un'altra l'animus – senza presupporre una consapevolezza generale di tutti i dettagli della prima – riguarderà piuttosto, come suggeriva Fedele sotto il CIC anteriore, il nuovo comportamento e la sua introduzione come obbligatorio; lo stesso dicasi, mutatis mutandis, per la consuetudine contra legem subrogante, che cioè aggiunga a quella legale un'altra condotta consentita.

3.2.2 Rationabilitas e consuetudo secundum legem

Per un problema risolto, tuttavia, se ne è aperto uno nuovo: il requisito della rationabilitas è imposto dal can. 24 §2 solo per le consuetudini contra o praeter ius. Questo può intendersi in tre modi: o la consuetudine secundum legem, pur interpretando la legge, non ha essa stessa forza di legge; o la si considera sempre rationabilis; oppure non è necessario che lo sia.[25]

La prima tesi appare improbabile per più ragioni, non ultima il radicale mutamento di significato che dovrebbe ascriversi ad un canone, il 27, rimasto inalterato e perciò da interpretarsi, ai sensi del can. 6, tenendo conto anche della traditio canonica.[26]

La seconda sembra la più plausibile: essa presuppone l'esistenza di una legge e, se assumiamo la rationabilitas in senso positivo, ogni legge la deve possedere; in caso di ambiguità testuale, se uno dei significati possibili risultasse irrationabilis, andrebbe scartato a priori perché non potrebbe mai dare luogo a una lex, quindi non ci sarebbe bisogno di far ricorso alla consuetudine interpretativa; ne segue che quest'ultima dirime solo i contrasti tra opzioni che siano tutte dotate di rationabilitas.

Tuttavia, possiede una sua plausibilità anche la terza tesi. Si può fondarla ponendo una distinzione tra il §1 e il §2 del can. 24: la non contrarietà al diritto divino è necessaria per ogni consuetudine, ma la rationabilitas solo per quelle contra o praeter legem, vuoi perché il Codice ha accolto la sua concezione positiva,[27] vuoi perché, anche rispetto a quella negativa, difficilmente possono darsi i problemi di contrasto con le logiche essenziali di un istituto giuridico, o di nocività radicale, che pacificamente rendono comunque irrationabilis una consuetudine.     

La differenza pratica tra le due posizioni, per la verità, non sembra grandissima, soprattutto perché – se si considera la legge come dato testuale – un interprete di media abilità avrà comunque quasi sempre modo di risolvere altrimenti il proprio dubbio e dichiarare, all'occorrenza, che ci si trova di fronte alla semplice osservanza di una legge certa oppure ad una consuetudine sicuramente contra legem.[28] Tuttavia, in quest'atteggiamento sembra insito un rischio da cui mette opportunamente in guardia Eduardo Baura, che merita di essere citato per esteso: “L’asserzione del can. 27 secondo cui la consuetudine è ottima interprete delle leggi, non può essere intesa, a mio modo di vedere, in relazione con il testo della legge (altri sarebbero in grado di capire meglio della comunità le formulazioni legali), ma in riferimento all’applicazione della legge alla realtà da essa regolata. D’altra parte, non va dimenticato che l’attività legislativa consiste spesso nell’interpretare la realtà, nello scoprire ciò che di normativo si trova nella stessa vita comunitaria per astrarlo in formule normative. In questo senso, occorre vedere nella consuetudine la migliore interprete della realtà e riconoscerne, perciò, il valore normativo, vale a dire occorre presumere che la realtà è ordinata. Partendo da questo presupposto non desta, dunque, meraviglia, la facilità con cui è stata da sempre attribuita alla consuetudine la sua condizione di fonte suppletiva; in effetti, se la realtà sociale, come sopra rilevato, costringe il legislatore a tenerne conto al momento di legiferare e le consuetudini devono essere considerate come le migliori interpreti della legge e della realtà, ne consegue l’obbligo anche per i membri della comunità di rispettare le legittime consuetudini, cioè, la normatività per tutta la comunità delle consuetudini praeter legem e secundum legem.”.

E in questo senso si potrebbe forse concludere che la consuetudine interpretativa è essa stessa garante della rationabilitas della legge.

3.2.3 Il tempo necessario a prescrivere

Forse la novità più significativa in termini di concreto favore per la fonte consuetudinaria: il termine viene ridotto da quarant'anni a trenta. Nel corso dei lavori, per la verità, si era prevista la riduzione a vent'anni, ma tra le osservazioni allo Schema CIC del 1980 si è fatta notare quella del Card. Bafile, che invocava il mantenimento del quarantennio temendo collusioni e connivenze in sede locale, in danno della disciplina generale. Donde l'innalzamento del termine; e la risposta favorevole della Commissione dice molto sul clima ecclesiale di quegli anni.

3.2.4 Il consenso speciale

Il nuovo testo del can. 26, oltre a prevedere espressamente il consenso speciale del legislatore – anzi, dovrebbe dirsi ora, la specialis approbatio – e il fatto che esso supera la necessità del compimento del termine legale, implica chiaramente che ciò che così ottiene forza di legge è pur sempre una consuetudine. Ciò non è privo di ricadute importanti in termini di teoria generale, costituendo una sconfessione dello schema suareziano; si spiega con – e a sua volta conforta – la riconduzione dell'intervento del legislatore ad un momento che, per mutuare un'espressione degli amministrativisti, sono tentato di chiamare “integrativo dell'efficacia” rispetto ad un fenomeno che, rispondendo ai vari requisiti e anzitutto alla rationabilitas (comunque concepita) può già considerarsi perfetto.   

3.2.5 La communitas capax recipiendi

L'ultima novità ha risolto forse il dubbio più importante di tutti, ma non si trova all'interno dei canoni sulla consuetudine: per gettare luce sul concetto di communitas capax saltem recipiendi legem, il legislatore ha preferito un metodo indiretto e introdotto una nuova norma nell'ambito della disciplina sugli statuti dell'universitas, precisamente il can. 94 §3:

Quae statutorum praescripta vi potestatis legislativae condita et promulgata sunt, reguntur praescriptis canonum de legibus.

Intanto, va premesso che, ai sensi del §1, gli statuti sono propriamente le norme di funzionamento di un'universitas personarum o di un'universitas rerum, che non è la nostra “universalità di beni”, ma piuttosto un patrimonio destinato ad uno scopo specifico e l'organizzazione ad hoc chiamata a gestirlo.[29]

Già da questo risulta chiaro che sarebbe almeno strano richiedere normalmente l'esercizio della potestà legislativa per l'approvazione degli statuti; e infatti i cann. 114 §1 e 116 §2 ci dicono che la forma normale è l'atto amministrativo, precisamente il decreto. (Essi si riferiscono alle persone giuridiche, ma va notato che, ex can. 115 §1, ogni persona giuridica, nella Chiesa, è un'universitas rerum o un'universitas personarum, sebbene non viceversa).

Quel che conta ai nostri fini, però, è che il can. 94 §3 implica che gli statuti potrebbero essere approvati per legge. Anzi, “condita atque promulgata”, quindi posti dal legislatore.

Ma allora ne segue che sono astrattamente capaci di ricevere una legge – appunto questa legge loro propria che sarebbero gli statuti[30] - o tutte quante le universitates rerum e personarum oppure, e meglio, quelle per cui astrattamente si può giustificare un intervento così incisivo della potestà legifera: quelle che potrebbero ottenere la personalità giuridica perché, a norma del can. 114 §1, sono “universitates sive personarum sive rerum in finem missioni Ecclesiae congruentem, qui singulorum finem transcendit, ordinatae.”.

In altri termini: la controversia tra Michiels e van Hove viene decisa d'imperio e si trova una via media.

La comunità deve per prima cosa essere una vera comunità, non una riunione occasionale: e infatti il can. 95 disciplina il regolamento (ordo) da seguirsi in riunioni del genere, che è altra cosa rispetto agli statuti.

E siccome ogni raggruppamento stabile ha un proprio scopo, si interviene su quest'ultimo, assoggettandolo ad un duplice requisito: a) la congruenza con la missione affidata alla Chiesa da Dio, come dire l'idoneità ad inserirsi nell'ambito delle molteplici iniziative di apostolato o lato sensu benefiche;[31] b) la trascendenza rispetto ai fini dei singoli che costituiscono o compongono l'universitas.

Il secondo aspetto si apprezza meglio rispetto ad una tipica universitas rerum: la disposizione testamentaria in favore dell'anima, precisamente il legato di denaro o di beni perché, con esso o con la rendita, si provveda alla celebrazione periodica di Messe in suffragio del disponente. Pure se per la Chiesa è molto importante che tutte le pie volontà vengano onorate, anche a prescindere dalla validità a norma di diritto statale (cfr. can. 1299 §2), qui è chiaro che lo scopo dell'universitas si identifica con quello del singolo; essa dunque non potrà mai essere eretta in persona giuridica; e infatti il can. 1303 §1 n. 1 la chiama “pia fondazione non autonoma”, prescrivendo che vada affidata alla gestione di una persona giuridica già esistente, che curerà l'esecuzione di tutti i relativi oneri.  Un altro esempio potrebbe essere una sorta di cooperativa di consumo, dove il vantaggio mutualistico fosse specialmente rivolto ai poveri, per consentir loro di procurarsi i beni di prima necessità a cifre poco più che simboliche: lo scopo sarebbe bensì caritativo, ma non fuoruscirebbe dal perimetro degli associati e ad assicurarlo basterebbe l'accordo interno.

In definitiva, quindi, oggi si devono considerare capaci di ricevere una legge – e di dar vita ad una consuetudine – tutte le organizzazioni che rispondono alle caratteristiche del can. 114 §§1-2: attività   più ampia rispetto agli scopi o all'interesse personale dei singoli che vi partecipano o le hanno dato vita; fine di carità o di pietà, anche consistente in opere temporali, come da §2. Invece, contrariamente alla tesi di van Hove, non è necessario che l'universitas agisca in nome della Chiesa o per un fine pubblico: queste sono caratteristiche distintive delle persone giuridiche pubbliche (can. 116 §1), ma accanto ad esse il Codice ha introdotto quelle private, che, senza possedere tali requisiti, operano però comunque ai sensi del can. 114 §1 (dunque in termini “non pubblicistici” stricto sensu, però “superindividuali”). In altre parole, “bene comune” e “fine pubblico” non sono sinonimi, il primo può essere perseguito anche da organizzazioni private, tanto che esse potrebbero essere destinatarie di leggi rivolte a ciascuna singolarmente e sono, di fatto, capaci di dar vita a consuetudini obbliganti. Non una conclusione di poco conto.

 

4. Conclusione

Ho necessariamente lasciato molto nella penna: mi è sembrato opportuno non scendere nel dettaglio dei dibattiti odierni sulla consuetudine, spesso appassionanti, ma troppo ricchi di spunti e di argomenti per una prima presentazione del tema; né ho voluto pormi sul terreno delle valutazioni contingenti sull'effettività del diritto o trattare, insieme con questo, l'argomento quasi gemello dell'accettazione della legge. Confido però che, terminati questi tre articoli connessi, il lettore paziente avrà avuto modo di apprezzare i pregi del metodo storico per l'illustrazione del diritto vigente e anche per la sua integrazione: può vedere da sé quanti argomenti trattati da Suárez non siano oggetto di disciplina espressa, innanzitutto la actuum frequentia. E se avessi dedicato più spazio al dibattito contemporaneo, si apprezzerebbe meglio anche il peso della stabilità: la dottrina canonica, oggi, a volte corre il rischio di ragionare sugli istituti come se dovesse rifondarli ex novo; ma questo comporta necessariamente la riapertura di tutta una serie di problemi che potevano considerarsi risolti, nonché una certa dose di libertà rispetto al testo legale e la sostanziale disistima per la traditio canonica. . Questa e quello sono invece – a mio avviso e con tutti i limiti che indubbiamente possono avere – l'unico fondamento sicuro per speculazioni sempre lecite, ma tanto più azzardate quanto più si pretenda di affrontare in solitaria argomenti di complessità somma. Del resto, se la consuetudine ha un valore in senso assiologico, prima che normativo, non può che trattarsi di una prudenzialità simile a quella dell'opinio communis. Che è poi la traditio canonica nel suo momento statico. Tout se tient.

 

[1]     La tesi è già ben visibile nella sua poderosa indagine sul retroterra dottrinale dei secoli precedenti e sui protagonisti del processo codificatorio, edita come C. Fantappié, Chiesa romana e modernità giuridica, Milano 2008 (2 voll.); in seguito, cfr. spec. Id., Storia e significato del Codice pio-benedettino, in J.D. Zbigniew Janczewski (cur.), Kodeks Pio-Benedyktyński między tradycją a rozwojem, Varsavia 2017, pagg. 45-68; Vantaggi e limiti della codificazione del 1917, in J. Miñambres (cur.), Diritto canonico e culture giuridiche nel centenario del Codex iuris canonici del 1917. Atti del XVI Congresso Internazionale della Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo, Roma 4-7 ottobre 2017, Roma 2019, pagg. 63-92); e da ultimo, in termini più generali, Per un cambio di paradigma. Diritto canonico, teologia e riforme nella Chiesa , Bologna 2019

[2]     “Can. 5. Vigentes in praesens contra horum statuta canonum consuetudines sive universales sive particulares, si quidem ipsis canonibus expresse reprobentur, tanquam iuris corruptelae corrigantur, licet sint immemorabiles, neve sinantur in posterum reviviscere; aliae, quae quidem centenariae sint et immemorabiles, tolerari poterunt, si Ordinarii pro locorum ac personarum adiunctis existiment eas prudenter submoveri non posse; ceterae suppressae habeantur nisi expresse Codex aliud caveat.

[3]     Anche se in concreto i redattori dei canoni hanno spesso riecheggiato anche il tenore letterale delle disposizioni anteriori, sia per riverenza sia per evitar di ingenerare il dubbio che alla novità di espressione corrispondessero novità di significato: p.es. il can. 27 §1 segue molto da vicino il dettato della Quum tanto.

[4]     Cfr., proprio per il suo carattere compilativo, L. Ferraris, s.v. Consuetudo, n. 74, in Id., Prompta Bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica, t. II (lett. C), Parigi 1852, coll, 1308-9, che non impiega affatto tale espressione ma ricorre alla quadripartizione in consuetudo generalissima ossia estesa a tutto il mondo cristiano, generalis che abbraccia almeno una provincia, specialis (una villa o un pagus) e specialissima, seguita cioè solo da una minoranza e perciò priva di forza obbligante ma capace di indurre una presunzione in favore dei suoi utenti effettivi, quando manchino elementi di segno contrario. F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum ad Codicis normam exactum, vol. I, Roma 1938, pag. 349, nt. 30, richiamano però altri autori che, implicitamente, seguono Suárez, perché definiscono specialissima la consuetudine osservata da chi non potrebbe ricevere una legge e le attribuiscono valore, semmai, ad instar privilegii. A sua volta, G. D'Annibale, Summula Theologiae moralis, vol. I, Roma 1904, pagg. 233-6, oltre a scegliere di parlar solo della consuetudine praeter legem, l'unica cui si confaccia la definizione isidoriana, la divide in universale e particolare, che vige “in una dioecesi, vel in oppido alicujus dioecesis” (pag. 234), e sembrerebbe richiedere la capacità di porre una legge... ma in nota si riporta a Suárez e aggiunge il personarum coetus.

[5]     A meno che, si può ragionare sulla scorta del Dottore Esimio, le circostanze non siano tanto mutate da far ritenere cessato ab intrinseco questo giudizio, nel senso che ne sia venuta meno la stessa ratio. Ma si tratta di un'ipotesi tanto rara che il legislatore poteva lasciarla alla considerazione degli interpreti.

[6]     Tuttavia, va notata l'importanza dell'avverbio “unice”: esso implica il rigetto delle tesi dello Schulte, che - notano F.X. Wernz – P. Vidal, op. cit., pag. 348, propugnava la recezione in ambito canonico delle tesi della Scuola storica e dunque l'introduzione della consuetudine come quid iuris da parte della comunità.

[7]     Invero, la formulazione del can. 25 parrebbe implicare che essa resterebbe consuetudine anziché divenire legge, ma Wernz-Vidal assimilano questo caso alla compilazione di norme consuetudinarie e vi applicano, quindi, la soluzione suareziana della doppia autorità.

[8]     Lo nota opportunamente A. Blat, Commentarium textus Codicis Iuris Canonici, vol. I, Roma 1921, pag. 111.

[9]     M. da Casola, Compendio di Diritto Canonico, Genova 1967, pag. 89.

[10]    A. Ravà, Consuetudine (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto vol. IX, Milano 1961, pag. 445, nt. 15, che cita a sostegno Michiels, van Hove e Cavigioli..

[11]    Infatti, se ogni organizzazione si dà regole interne, a volte semplicemente sotto forma di prassi consolidate, solo quelle che possiedono la potestà di giurisdizione possono emanare vere e proprie leggi, con facoltà di derogare al diritto comune. Secondo la teoria allora dominante, va forse precisato, la giurisdizione era attributo nativo solo della Chiesa come tale o dello Stato; tutte le altre organizzazioni dovevano ottenerla da una delle due “società perfette”, altrimenti si consideravano titolari di semplice potestas dominativa sui propri iscritti, assimilabile a quella del padrone (dominus) sul dipendente e giustificabile con il carattere volontario dell'associazione (se, invece, la legge avesse imposto l'iscrizione obbligatoria, ciò avrebbe quasi certamente implicato la concessione di iurisdictio).

[12]    Cfr. F. Suárez, Tractatus de legibus ac Deo legislatore, Lib. IV, Cap. VI.

[13]    A. Ravà, op. cit., pag. 445.

[14]    Altra questione del tempo, cui mi limito ad accennare perché dovrebbe considerarsi ormai superata, riguarda la possibilità che consuetudini legittime nascessero in comunità eretiche o scismatiche, almeno in quanto l'usanza concretamente in gioco non fosse un'innovazione determinata proprio dall'eresia o dallo scisma. Il problema, sorto in origine specialmente riguardo alla forma canonica del matrimonio, resa obbligatoria dal Concilio di Trento, si poneva perché, in linea di principio, i battezzati in altra confessione cristiana erano considerati tenuti ad osservare comunque le leggi della Chiesa Cattolica, anche quelle mere ecclesiasticae ossia il diritto umano. Il Codice del 1983 si è, però, orientato in senso contrario, sicché il problema della legittimità di consuetudine derogante alle norme cattoliche sembra escluso in radice; semmai, qualora singoli gruppi chiedano come tali di entrare nella Chiesa Cattolica (è accaduto nel corso del processo che ha portato all'istituzione degli Ordinariati personali per ex-Anglicani), occorrerà una disamina attenta di ciò che essi hanno praticato in precedenza, affinché sia subito chiaro cosa si possa conservare e cosa vada invece cambiato.

[15]    Cfr., anche per riferimenti, A. Ravà, op. cit., pagg. 449-50.

[16]    Ma più che di un particolare atteggiamento della volontà si tratta, all'evidenza, di una semplificazione probatoria.

[17]    L'animus non occorreva rispetto ad un istituto affine ma diverso, la “legge non accettata dal popolo”, che, se non osservata dalla sua introduzione, perdeva forza obbligante sul piano morale (ragion per cui il Codice non se ne occupava, ma gli autori lo ritenevano conservato). Restava però in vigore anche se infrangerla non poteva più considerarsi peccato, quindi detto istituto non poteva risolvere il problema in discorso.

[18]    E. Jordan, Recensione a R. Wehrlé, De la coutumedans le droit canonique. Essai hidstorique s'étendant de les origines de l'Église au pontificat de Pie XI, Parigi 1928, in Révue d'histoire de l'Église de France 66 (1929), pagg. 50-5, qui 52, le fa risalire rispettivamente a Bernardo da Parma e all'Hostiensis.

[19]    A. Ravà, op. cit., pagg. 451-2.

[20]    Generalmente, infatti, i canonisti si sono espressi, soprattutto prima del CIC 1917, secondo la quadripartizione di Tituli ex corpore Ulpiani, 1.3: “Lex aut rogatur, id est fertur, aut abrogatur id est prior lex tollitur, aut derogatur, id est pars primae legis tollitur, aut subrogatur, id est adicitur aliquid primae legi, aut obrogatur, id est mutatur aliquid ex prima lege.”. Essa concorre però nell'uso con la dicotomia di Modestino, D.50.16.102, “Derogatur legi aut abrogatur: derogatur legi cui pars detrahitur; abrogatur legi cum prorsus tollitur.”.

[21]    Il quale però, come si è visto supra, finisce per richiedere qualcosa di analogo alla rationabilitas positiva in un ambito diverso, quello dei requisiti della communitas.

[22]    A. Ravà, op. cit., pag. 452.

[23]    Dietro alla novità si trova un ricco retroterra di suggestioni dottrinali: “Non desta [...] meraviglia che la canonistica postconciliare, forte dell’impulso dato dall’ecclesiologia del Vaticano II alla posizione attiva di tutti i battezzati all’interno della Chiesa, abbia voluto rivedere il tema del soggetto attivo della consuetudine canonica. Si è, infatti, osservato come la corresponsabilità all’edificazione della Chiesa di tutti gli incorporati mediante il battesimo al popolo di Dio, basata sul sacerdozio comune, di cui al n. 10 della Lumen Gentium, implichi il riconoscimento della cooperazione attiva dei fedeli nella creazione della norma consuetudinaria. Si è anche affermato che il ruolo attivo dei laici nella missione della Chiesa si potrebbe manifestare fra l’altro nella creazione di consuetudini canoniche. I diversi autori hanno poi cercato differenti aspetti della teologia conciliare su cui fondare il fenomeno consuetudinario nella Chiesa, mettendo sempre in risalto la funzione attiva della comunità. Si è così voluto riscontrare nella presenza della legge e della consuetudine un’esigenza della struttura comunionale della Chiesa, poiché il popolo accetta una legge che non ha promulgato e il legislatore approva una consuetudine da lui non prodotta; altri hanno creduto di poter trovare le radici ecclesiologiche del fenomeno consuetudinario nel sensus fidei del popolo di Dio, giacché, come il fedele è capace di esprimere comunionalmente il senso della fede della Chiesa, a maggior ragione sarebbe in grado di produrre una norma consuetudinaria, perché questa altro non rappresenterebbe che la ordinatio practica della regula fidei creduta ”. E. Baura, La consuetudine, in www.bibliothecacanonica.net, con ampi riferimenti.

[24]    Detto altrimenti: ius viene usato in zeugma. Le figure retoriche sono generalmente aliene dallo stile del legislatore – anche canonico, almeno quando codifica – ma lo sforzo di concisione e condensazione dei precetti può comportare il ricorso ad espedienti di questo genere.

[25]    I lavori preparatori non aiutano affatto. Semmai offrono un minimo di supporto alla seconda tesi, ma sembra che l'intera materia della consuetudine sia stata ben poco discussa.

[26]    Cfr. peraltro, su questo canone, V. de Paolis, Il Libro I del Codice: norme generali, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1995, pag. 310: «La fonte di tale asserto è il diritto romano, dove si voleva indicare una regola per comprendere il significato di una legge che aveva avuto origine da una consuetudine. Una consuetudine fatta legge per intervento del superiore va interpretata in base alla stessa consuetudine. Nel Codice non risulta chiaro il senso. Se vuole conservare lo stesso significato che aveva nel diritto romano, allora non è nel posto giusto. Sarebbe meglio collocato sotto il titolo riguardante le leggi. Se invece si intende parlare della consuetudine come distinta dalla legge, allora si può intendere della consuetudine secundum legem. Ma tale consuetudine non è propriamente una consuetudine distinta dalla legge. Se invece si volesse indicare la consuetudine praeter o contra legem, allora non si tratterebbe tanto di interpretazione della legge, quanto piuttosto della creazione di una nuova norma distinta dalla legge, che è appunto la consuetudine.». Sorprende che l'illustre Autore non consideri affatto l'ipotesi della legge oggettivamente o anche solo soggettivamente dubbia, rispetto a cui già una prassi consolidata e pacifica – pure a prescindere dagli altri requisiti – potrebbe ben assumere rilievo dirimente. Vero è che per lui tali leggi «È come se non esistessero», in forza del can. 14 (Ibid., pag. 290); ma un esito così drastico dovrebbe essere ammesso solo al termine del procedimento interpretativo, pena l'inutilità totale dei cann. 17 e 18; e in questo procedimento può ben inserirsi anche la consuetudine, poco importa se con valore di interpretazione autentica oppure no. Certo, per lui la consuetudo secundum legem può esser facilmente ricondotta alla praeter (pag. 308) e si comprende il perché: se dove c'è il dubbio manca obbligo legale, è facile dire che non c'è la legge. Ma di nuovo, qui si confondono due momenti distinti del lavoro interpretativo, quello in cui il dubium iuris affiora e quello in cui – eventualmente – si conclude di non poterlo risolvere.   

[27]    Come ad es. sembra intendere E. Baura, op. cit.: “Al di là della posizione che ogni autore adotti rispetto all’intellettualismo moderato tomista o al volontarismo moderato suareziano, la letteratura canonistica è concorde nell’insistere sulla necessità della razionalità della norma (ed essa viene espressamente richiesta, proprio nel caso della consuetudine, dal vigente Codice, al can. 24 § 2). E poiché la ragione umana è determinata dalla realtà oggettiva, la razionalità della norma non è altro che l’adeguazione della norma a quella realtà oggettiva, che peraltro la ragione apprende come regola. […] [S]i avrebbe una visione riduttiva della razionalità se si limitasse la sua operatività alla sola conformazione della norma con il diritto divino. Poiché la norma è una regola, un ordine, un’organizzazione strutturante della società, essa deve necessariamente adeguarsi alla realtà sociale di cui pretende essere regola, altrimenti non ordinerà né strutturerà, ma sarà o vana, perché impossibile da compiere, oppure perniciosa perché creerà un disordine o introdurrà uno squilibrio nella vita sociale. E’ questo uno degli aspetti del realismo in cui consiste la razionalità, che porta, appunto, a vedere nell’atto normativo un atto prudenziale, giacché eccellenti norme nella teoria potrebbero rivelarsi nella pratica inutili o nocive se non corrispondono alle circostanze reali della comunità a cui si pretendono applicare.”. Tuttavia, egli conclude che “la normatività dell’ordine sociale è sempre sottoposta alla condizione essenziale della razionalità, sia che la consuetudine consista nell’introduzione di un ordine secundum legem o praeter legem...”.

[28]    Come spesso avviene, le norme sull'interpretazione del diritto non precisano in quale ordine si dovrebbe far ricorso ai vari metodi consentiti; tuttavia, dal can. 17 si desume la priorità dell'interpretazione letterale e sistematica; il “contesto” in cui ricercare il “significato proprio” delle parole della legge può ben includere la consuetudine, ma la molteplicità di fonti scritte a disposizione porterà facilmente a trascurarla.

[29]    “Universitas rerum seu fundatio autonoma constat bonis seu rebus, sive spiritualibus sive materialibus, eamque, ad normam iuris et statutorum, moderantur sive una vel plures personae physicae sive collegium.

[30]    Diversamente dal can. 29 sui decreti generali, il can. 94 §3 non dice che gli statuti posti in tal modo siano leggi e si limita ad assimilarli; ma l'assimilazione sembra più che sufficiente ai fini della capacitas. In ogni caso cfr. V. de Paolis, op. vol. cit., pag. 362: “La qualifica per cui le disposizioni degli statuti soggiacciono alle disposizioni sulle leggi riguarda l'autorità che crea tali statuti e li promulga: è tale autorità che deve avere la potestà legislativa. In questo caso gli statuti hanno tutte le caratteristiche, anche formali, per essere leggi particolari. Il principio perciò per cui sono retti dalle disposizioni dei canoni sulle leggi non sembra semplicemente un'applicazione per analogia o dovuto semplicemente alla disposizione del legislatore.”.

[31]    Purché di ispirazione propriamente religiosa e cattolica, altrimenti non vi sarebbe nessun motivo di porsi il problema della loro personalità giuridica in ambito ecclesiale, meno ancora dell'astratta idoneità a dar vita ad una consuetudine canonica. Rispondono certamente al requisito in commento tutti gli scopi che rientrano in uno dei diritti soggettivi del fedele disciplinati dai cann. 208-30; per il resto vale la precisazione del §2: “Fines, de quibus in § 1, intelleguntur qui ad opera pietatis, apostolatus vel caritatis sive spiritualis sive temporalis attinent.”.