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Dimostrare di produrre permanentemente in un contesto industriale di "obiettivo zero difetti"

1. I documenti legislativi di riferimento

- Direttiva della Comunità Europea n° 85/374/CEE del 25 luglio 1985 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee L 210 del 07-08-1985 pag. 29-33), relativa al:

“Riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi”

recepita in Italia con:

Decreto del Presidente della Repubblica n°224 del 24 maggio 1988

Tale Direttiva è stata integrata, nel 1999, con la Direttiva della Comunità Europea n° 1999/34/CEE del 10 maggio 1999 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee L 141 del 04-06-1999 pag. 20-21)

e recepita in Italia con Decreto Legislativo n° 25 del 2 febbraio 2001.

Tali Decreti sono stati recentemente recepiti ed abrogati dal “Codice del Consumo” (cioè il Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005) agli articoli n°114 ÷ 127.

- Direttiva della Comunità Europea n° 2001/95/CE del 3 dicembre 2001 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee L 11 del 15-01-2002 pag. 04-17), relativa alla:

“Sicurezza generale dei prodotti”

e recepita in Italia con Decreto Legislativo n°172 del 21 maggio 2004, a sua volta recentemente recepito ed abrogato dal “Codice del Consumo” (cioè il Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005) agli articoli n°102 ÷ 113.

2. L’inversione dell’onere della prova

Il fatto che, in un processo civile, non debba essere più il consumatore danneggiato a dimostrare la responsabilità del produttore, ma spetti a quest’ultimo produrre le prove che dimostrino la sua estraneità agli eventi contestatigli, cambia sostanzialmente la posizione processuale delle due parti in causa.

Questo principio giuridico, universalmente noto come:

inversione dell’onere della prova

costituisce un peso di non poco conto in fase processuale, in quanto è evidente come sia molto più semplice negare l’esistenza di qualcosa piuttosto che doverne dare dimostrazione in modo sufficientemente attendibile da poter essere ritenuta, da parte del giudice, un valido elemento di prova.

Questo modo di operare risulta essere l’elemento portante della

Direttiva Europea sulla Responsabilità Civile Prodotti

il cui scopo è quello di dare una reale possibilità al cittadino europeo di arrivare a tutelare efficacemente i propri diritti, disattesi da prodotti normalmente acquistati sul mercato che, risultati costruttivamente difettosi, gli hanno provocato danno.

Con questa direttiva spetta pertanto al consumatore dimostrare, al momento dell’istruttoria processuale:

- il difetto evidenziatasi nel prodotto successivamente al suo acquisto,

- l’entità del danno subito,

- il nesso causale tra prodotto difettoso ed il conseguente danno subito,

mentre passa a carico del produttore l’onere di dimostrare la sua “non responsabilità” per i fatti a lui contestati, cioè che il prodotto era da ritenersi esente da difetti al momento della sua messa in circolazione.

Nonostante ciò, l’effettiva applicazione di tale Direttiva Comunitaria da parte dei consumatori, pur essendo un elemento di fondamentale importanza nella tutela dei loro diritti, è stata richiesta unicamente in un numero estremamente limitato di casi.

La motivazione di un comportamento così incongruo è da ricercarsi nel fatto che, per oltre 20 anni, da un punto di vista legale non era stato effettivamente compreso in che cosa consistesse realmente la prova da dover fornire, in ambito giudiziario, per arrivare a dimostrare il difetto del prodotto.

Gran parte della classe forense riteneva infatti che, per dimostrare il difetto, fosse necessario utilizzare tutta una serie di argomentazioni tecnico-scientifiche, per altro estremamente difficoltose non solo da presentare in un dibattito giudiziario, ma soprattutto da far comprendere ed accettare dall’organismo giudicante.

Per tale motivo solo pochi studi legali, particolarmente preparati in materia ed unicamente a fronte di danni particolarmente rilevanti, hanno deciso di intraprendere con il loro cliente un percorso giudiziario così incerto e difficoltoso.

Questo modo di concepire l’applicazione della legge, pur se efficiente nel conseguimento dello scopo, manca però totalmente di quella efficacia che, invece, il legislatore aveva così palesemente posto in evidenza nella redazione dell’articolo n°5 del D.P.R. n°224 del 24 maggio 1988, nel quale si affermava che:

1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui:

a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;

b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere,

c) il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

2. Un prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato messo in circolazione successivamente ad esso.

3. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie.

Questo punto della legge è divenuto, per la prima volta, elemento fondamentale di riferimento nell’ambito della sentenza n°20985, emessa il giorno 8 ottobre 2007 dalla III Sezione Civile della Corte Italiana di Cassazione, in merito alla vertenza giudiziaria intentata da Tizia contro la società Alfa.

La massima giurisprudenziale derivante da questa sentenza, può essere così espressa:

In materia di tutela del consumatore nei confronti dei danni da prodotti difettosi, il primo comma dell’art. 8, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 va interpretato nel senso che il danneggiato deve provare, oltre al danno ed alla connessione causale tra difetto e danno, che:

l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative

e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi dell’art. 5 D.P.R. n. 224/1988.

Il produttore, invece, deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. n. 224/1988) che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

Questa sentenza evidenzia in modo incontrovertibile la semplicità, se non la banalità, del percorso giudiziario che ogni avvocato comunitario potrà perseguire per arrivare a far condannare una impresa di produzione che abbia immesso sul mercato un prodotto il quale, successivamente al suo acquisto, sia risultato difettoso ed abbia creato danno all’acquirente per un valore uguale o superiore ai 387 euro.

Il comportamento anomalo del prodotto diviene quindi prova legalmente sufficiente per ritenere che questo fosse già oggettivamente difettoso al momento della sua immissione sul mercato (Vedere specificatamente pag. 11 della sentenza alla riga 16 e seguenti).

L’articolo n°5 del D.P.R. n°224 del 24 maggio 1988 (citato precedentemente), è divenuto l’articolo n°117 del Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005 (attualmente in vigore), comunemente noto come “Codice del Consumo”.

3. Le forme di tutela da adottare da parte delle imprese di produzione

In considerazione di quanto detto precedentemente, l’unica possibilità che rimane ad una impresa di produzione per evitare una condanna per Responsabilità Civile Prodotti è quindi quella di far valere, a suo favore, quanto indicato:

- Nell’articolo 118 del Codice del Consumo (Esclusione della responsabilità):

1. La responsabilità è esclusa:

a) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione;

b) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione;

c) se il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né lo ha fabbricato e distribuito nell’esercizio della sua attività professionale;

d) se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante;

e) se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso;

f) nel caso del produttore o fornitore di una parte componente o di una materia prima, se il difetto è interamente dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che la ha utilizzata.

- Nell’articolo 120 del Codice del Consumo (Prova):

1) Il danneggiato deve provare il difetto, il danno e la connessione causale tra difetto e danno.

2) Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la sua responsabilità secondo le disposizioni dell’articolo 118. Ai fini dell’esclusione di responsabilità prevista dall’articolo 118, comma 1, lettera b), e sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

3) Se è verosimile che il danno sia stato causato da un difetto del prodotto, il giudice può ordinare che le spese della consulenza tecnica siano anticipate dal produttore.

Nella quasi totalità dei casi, però, l’organizzazione chiamata in giudizio potrà dimostrare l’esclusione della propria responsabilità appellandosi unicamente al punto b) dell’articolo 118 in abbinamento al comma 2) dell’articolo 120, e cioè.

Il produttore non è responsabile dei danni causati da un suo prodotto difettoso se prova che, tenuto conto delle circostanze, è lecito ritenere che il difetto che ha causato il danno non esistesse quando il prodotto è stato messo in circolazione e quindi sia insorto solo successivamente.

Se si considera che, in un dibattito giudiziario, vale sempre il principio giuridico secondo cui:

una “specifica tecnica” è un sicuro elemento di riferimento nell’applicazione delle norme giuridiche,

l’unica specifica tecnica, attualmente esistente, che indichi tutte quelle attività necessarie e sufficienti ad una organizzazione per produrre con tutti quegli accorgimenti necessari ad impedire l’immissione sul mercato di prodotti difettosi (cioè quelle attività complessivamente indicate dal legislatore con il termine “circostanze” ) e, più specificatamente:

- la pianificazione delle attività necessarie alla realizzazione del prodotto,

- il coordinamento e la documentazione di ogni attività finalizzata ad eseguire ed a controllare il proprio processo produttivo,

- il coordinamento e la documentazione di tutte le azioni intraprese per prevenire l’insorgere delle non conformità,

è la norma internazionale:

UNI EN ISO 9001:2000

la quale, in ambito europeo, viene identificata anche come norma armonizzata, cioè una norma specificatamente richiamata in una o più Direttive Comunitarie.

Se il produttore o l’importatore non dà prova esaustiva che il prodotto sia stato realizzato rispettando tutto quanto prescritto in questa norma (cioè abbia effettivamente realizzato i suoi prodotti in un effettivo contesto industriale di “obbiettivo zero difetti”), automaticamente non è neanche in grado di dimostrare la sua “non responsabilità”, con la conseguente condanna giudiziaria e l’obbligo di rifondere finanziariamente i danni arrecati dal suo prodotto difettoso.

Qualora poi l’evento lesivo abbia coinvolto non solo cose ma anche persone, la problematica per il produttore o l’importatore può farsi invece molto più seria.

Il danneggiato, in questo caso, ha infatti la possibilità di aprire nei suoi confronti un procedimento penale nel quale l’evento lesivo diviene l’ipotesi di reato mentre, l’aspetto risarcitorio, diviene un procedimento civile all’interno del processo penale.

4. Ulteriore azione giudiziaria intentabile contro l’impresa di produzione

Se un produttore viene condannato per la direttiva sulla Responsabilità Civile Prodotti a causa di un suo specifico prodotto difettoso, diviene immediatamente logico presupporre che il suo cattivo modo di operare sia stato impiegato anche nella realizzazione di tutti quegli altri prodotti “similari” che, assieme a quello per cui è stato ritenuto colpevole, costituiscono un unico lotto di produzione (ed indicato dal legislatore con il termine generico di “prodotto”).

Questo porta immediatamente a ritenere che tutto il lotto fabbricato, o comunque un numero significativo di suoi elementi, possa risultare essere effettivamente “non conforme” indipendentemente dal fatto che il difetto, di cui si ipotizza in esso la presenza, si sia già evidenziato ed abbia arrecato danno.

Tale presupposto, per come è stata redatto il Decreto Legislativo n°172 del 21 maggio 2004 inerente alla:

Sicurezza generale dei prodotti

ed attualmente inserito nel Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005 (cioè il Codice del Consumo), diviene in giudizio l’elemento fondamentale per l’emissione di una nuova condanna.

Tra le varie restrizioni che, in questa circostanza, possono essere adottate nei confronti del fabbricante, oltre a quella di disporre, entro un termine perentorio, l’adeguamento del prodotto commercializzato agli obblighi di sicurezza previsti dal decreto (sempre che non vi sia un rischio imminente per la salute e l’incolumità pubblica), vi è anche quella di obbligare il produttore o l’importatore al ritiro dal mercato del prodotto (o comunque da provvedersi con spese a suo carico) e, ove necessario, alla sua distruzione.

5. La sostanziale “non conformità” di molte imprese alla norma ISO 9001

La 1° edizione della serie di norme sulla gestione dei sistemi qualità aziendali, universalmente conosciute come EN ISO 9000, venne messa a punto nel 1987 (cioè 2 anni dopo l’emissione della direttiva sulla Responsabilità Civile Prodotti) con il compito di stabilire le attività, sia di tipo organizzativo che operativo, da intraprendere da parte di una organizzazione per ridurre drasticamente il numero di prodotti non conformi che da essa potevano essere immessi sul mercato.

Purtroppo per impreparazione professionale di una considerevole parte dei professionisti che iniziarono a mettere in atto tale tipo di norme, al mondo imprenditoriale europeo fu riportato che gli effettivi scopi del loro utilizzo non erano quelli di creare e mettere a punto, in via prioritaria, particolari schemi organizzativi aventi come finalità la drastica riduzione del numero di prodotti non conformi e quindi produrre in un’ottica industriale di:

obbiettivo zero difetti

ma piuttosto quelli di arrivare a far certificare il proprio sistema qualità interno in modo da diversificarsi nettamente dalla concorrenza, ampliare il proprio mercato e, conseguentemente, aumentare il fatturato commerciale.

A fronte di questo obbiettivo gli imprenditori e gli organismi di certificazione hanno quindi dato il via ad un susseguirsi di richieste di certificati di conformità (da una parte) e di loro emissione (dall’altra), senza che, in moltissimi casi, vi fosse una concreta corrispondenza fra quanto attestato e l’effettiva realtà aziendale.

Questo modo di agire ha avuto, come logica conseguenza, che col passare del tempo il possesso dell’attestato di conformità ha perso sempre più la sua efficacia, vanificata dai troppi abusi commessi da tutte le parti in causa.

Per moltissime imprese, infatti, l’investimento effettuato per implementare al loro interno un sistema qualità aziendale certificato, non essendo questo stato specificatamente pianificato e messo a punto per produrre effettivamente in un contesto industriale di “zero difetti” ma solo per ottenere un “bollino” da spendere a livello commerciale, alla fine non ha consentito di conseguire né il tanto desiderato aumento di fatturato né un qualsiasi altro tipo di beneficio significativo, come ad esempio il suo utilizzo in un ambito giudiziario di Responsabilità Civile Prodotti per dare prova della propria “non responsabilità”.

Se la mancanza o la carenza di conformità di un sistema produttivo a quanto prescritto dalla norma per la gestione del sistema qualità aziendale è motivo, per il fabbricante, di condanna sia per quanto riguarda la Responsabilità Civile Prodotti che la Sicurezza Generale dei Prodotti, avere fatto certificare, da un ente esterno, la conformità di detto sistema alla norma ISO 9001 senza che detta conformità sussista effettivamente oppure sussista solo in parte, comporta per il produttore la quasi certezza, nel caso di un procedimento giudiziario, di vedersi riconosciuto il fattore aggravante dovuto alla sua “negligenza grave” nella realizzazione del prodotto, cosa questa che naturalmente si riflette negativamente sulla determinazione dell’entità della pena.

Ma se, in un processo per “Responsabilità Civile Prodotti” una società si ritrova, nonostante la certificazione, ad essere condannata per il suo sistema qualità interno non sufficientemente conforme alla norma, nella quasi totalità dei casi vi sono tutti i presupposti giuridici perché il produttore si trovi nella condizione di poter a sua volta agire in giudizio nei confronti:

- sia dell’organismo di certificazione,

- sia dell’eventuale struttura di consulenza a cui si è rivolto perché lo guidasse nella messa a punto del proprio sistema qualità interno,

citandoli separatamente o congiuntamente per

inadempimento contrattuale

(come ad esempio evidenziato, in Italia, dall’articolo 2222 e seguenti del codice Civile) ed inserendo, nella somma richiesta a risarcimento del cattivo servizio ricevuto, l’ammontare complessivo (o quota parte) delle spese da lui sostenute a causa della condanna o delle condanne da egli subite.

Le motivazioni legali, da sostenersi da parte del produttore, per attivare questo tipo di azione di rivalsa, fanno riferimento al fatto che:

- sia l’operato della struttura di consulenza, concretatosi nella definizione delle linee di indirizzo e nella successiva supervisione dell’implementazione del sistema,

- sia l’operato dell’organismo di certificazione, concretatosi nel rilascio di un attestato di conformità senza che vi fossero i presupposti per la sua emissione,

ha di fatto indotto il produttore a ritenere corretta la sua maniera di operare (anche se effettivamente questo non era vero), esponendolo così a subire una condanna giudiziaria quando, se entrambe le strutture avessero svolto con professionalità il proprio incarico, quasi certamente avrebbe potuto evitarla.

Altre conseguenze pratiche a cui si troverà a dover far fronte un imprenditore citato in giudizio per “Responsabilità Civile Prodotti” sono sicuramente, oltre naturalmente alla gravissima immagine negativa che la vicenda giudiziaria indurrà nella sua clientela o possibile clientela:

- Un significativo aumento del premio assicurativo associato alla copertura di questo tipo di rischi con la possibilità, se recidivo, di non trovare una sola compagnia di assicurazioni disposta a stipulare con lui una nuova polizza, od a prolungare quella scaduta, anche nel caso in cui vi fosse da parte sua la disponibilità a pagare qualunque somma gli venisse richiesta (come già capita negli Stati Uniti).

- Il quasi certo inizio, per la società oggetto di condanna, di un rapporto estremamente difficoltoso e delicato con le banche che le garantiscono il normale flusso finanziario.

In detti istituti di credito, per i fatti accaduti, non potrà che insorgere una oggettiva perdita di fiducia nell’imprenditorialità di questa organizzazione e quindi nella sua capacità di rimanere costantemente competitiva sul mercato, con tutte le conseguenze che un giudizio negativo di questo tipo obbligatoriamente comporta (anche nell’ottica delle nuove valutazioni industriali di una impresa cogentemente richieste nell’ambito di “Basilea 2”).

- La possibilità di poter essere chiamato in giudizio in ogni paese dell’Unione Europea in cui mette in commercio i propri prodotti.

Per delineare in modo sufficientemente esaustivo la vastità di questo problema si può affermare che, salvo rare eccezioni o settori industriali particolari come quello medicale oppure aeronautico, ogni azienda che opera sul mercato vi immette, annualmente, un numero di prodotti difettosi che può essere così stimato:

- Da qualche unità a qualche decina di unità (nel migliore dei casi) se il sistema produttivo interno rimane condizionato unicamente da fattori che, in gergo tecnico, vengono definiti “errori casuali” e quindi, come tali, non prevedibili a priori e piuttosto difficili da rilevare nel periodo di tempo, in genere abbastanza limitato, in cui questi risultano rimanere attivi.

- Interi lotti di produzione qualora, all’interno del processo produttivo, si verifichino degli “errori sistematici”, molto più facilmente rilevabili dall’operatore e quindi con una probabilità piuttosto bassa di far pervenire sul mercato dei prodotti difettosi.

- La totalità della produzione effettuata qualora, il difetto, risulti dovuto ad un errore di progettazione.

A titolo di esempio, per questo specifico caso, si può fare riferimento a quanto capitato alla società automobilistica MERCEDES BENZ con la sua “Classe A” per la quale, non avendo specificatamente pianificato tra le prove su strada da effettuare quella denominata “dell’alce”, tutte le auto che si fossero trovate in quella particolare condizione di utilizzo avrebbero quasi sicuramente perso l’assetto di guida, con tutte le conseguenze negative che un tale fattore ha sia sul veicolo in movimento sia sui passeggeri presenti al suo interno.

Considerando infine

- che la direttiva sulla “responsabilità civile prodotti” si applica, ad ogni prodotto, per 10 anni a partire dal momento della sua immissione sul mercato,

- che moltissime tipologie di prodotti, un volta divenuti difettosi, hanno la possibilità di arrecare danno a cose e/persone e quindi, ciascuno di essi, può essere motivo per una azione giudiziaria di rivalsa nei confronti del suo produttore od importatore,

si capisce facilmente quanto la problematica presentata in questo documento possa essere determinante per le imprese europee di produzione.

1. I documenti legislativi di riferimento

- Direttiva della Comunità Europea n° 85/374/CEE del 25 luglio 1985 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee L 210 del 07-08-1985 pag. 29-33), relativa al:

“Riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi”

recepita in Italia con:

Decreto del Presidente della Repubblica n°224 del 24 maggio 1988

Tale Direttiva è stata integrata, nel 1999, con la Direttiva della Comunità Europea n° 1999/34/CEE del 10 maggio 1999 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee L 141 del 04-06-1999 pag. 20-21)

e recepita in Italia con Decreto Legislativo n° 25 del 2 febbraio 2001.

Tali Decreti sono stati recentemente recepiti ed abrogati dal “Codice del Consumo” (cioè il Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005) agli articoli n°114 ÷ 127.

- Direttiva della Comunità Europea n° 2001/95/CE del 3 dicembre 2001 (Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee L 11 del 15-01-2002 pag. 04-17), relativa alla:

“Sicurezza generale dei prodotti”

e recepita in Italia con Decreto Legislativo n°172 del 21 maggio 2004, a sua volta recentemente recepito ed abrogato dal “Codice del Consumo” (cioè il Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005) agli articoli n°102 ÷ 113.

2. L’inversione dell’onere della prova

Il fatto che, in un processo civile, non debba essere più il consumatore danneggiato a dimostrare la responsabilità del produttore, ma spetti a quest’ultimo produrre le prove che dimostrino la sua estraneità agli eventi contestatigli, cambia sostanzialmente la posizione processuale delle due parti in causa.

Questo principio giuridico, universalmente noto come:

inversione dell’onere della prova

costituisce un peso di non poco conto in fase processuale, in quanto è evidente come sia molto più semplice negare l’esistenza di qualcosa piuttosto che doverne dare dimostrazione in modo sufficientemente attendibile da poter essere ritenuta, da parte del giudice, un valido elemento di prova.

Questo modo di operare risulta essere l’elemento portante della

Direttiva Europea sulla Responsabilità Civile Prodotti

il cui scopo è quello di dare una reale possibilità al cittadino europeo di arrivare a tutelare efficacemente i propri diritti, disattesi da prodotti normalmente acquistati sul mercato che, risultati costruttivamente difettosi, gli hanno provocato danno.

Con questa direttiva spetta pertanto al consumatore dimostrare, al momento dell’istruttoria processuale:

- il difetto evidenziatasi nel prodotto successivamente al suo acquisto,

- l’entità del danno subito,

- il nesso causale tra prodotto difettoso ed il conseguente danno subito,

mentre passa a carico del produttore l’onere di dimostrare la sua “non responsabilità” per i fatti a lui contestati, cioè che il prodotto era da ritenersi esente da difetti al momento della sua messa in circolazione.

Nonostante ciò, l’effettiva applicazione di tale Direttiva Comunitaria da parte dei consumatori, pur essendo un elemento di fondamentale importanza nella tutela dei loro diritti, è stata richiesta unicamente in un numero estremamente limitato di casi.

La motivazione di un comportamento così incongruo è da ricercarsi nel fatto che, per oltre 20 anni, da un punto di vista legale non era stato effettivamente compreso in che cosa consistesse realmente la prova da dover fornire, in ambito giudiziario, per arrivare a dimostrare il difetto del prodotto.

Gran parte della classe forense riteneva infatti che, per dimostrare il difetto, fosse necessario utilizzare tutta una serie di argomentazioni tecnico-scientifiche, per altro estremamente difficoltose non solo da presentare in un dibattito giudiziario, ma soprattutto da far comprendere ed accettare dall’organismo giudicante.

Per tale motivo solo pochi studi legali, particolarmente preparati in materia ed unicamente a fronte di danni particolarmente rilevanti, hanno deciso di intraprendere con il loro cliente un percorso giudiziario così incerto e difficoltoso.

Questo modo di concepire l’applicazione della legge, pur se efficiente nel conseguimento dello scopo, manca però totalmente di quella efficacia che, invece, il legislatore aveva così palesemente posto in evidenza nella redazione dell’articolo n°5 del D.P.R. n°224 del 24 maggio 1988, nel quale si affermava che:

1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui:

a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;

b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere,

c) il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

2. Un prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato messo in circolazione successivamente ad esso.

3. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie.

Questo punto della legge è divenuto, per la prima volta, elemento fondamentale di riferimento nell’ambito della sentenza n°20985, emessa il giorno 8 ottobre 2007 dalla III Sezione Civile della Corte Italiana di Cassazione, in merito alla vertenza giudiziaria intentata da Tizia contro la società Alfa.

La massima giurisprudenziale derivante da questa sentenza, può essere così espressa:

In materia di tutela del consumatore nei confronti dei danni da prodotti difettosi, il primo comma dell’art. 8, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 va interpretato nel senso che il danneggiato deve provare, oltre al danno ed alla connessione causale tra difetto e danno, che:

l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative

e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi dell’art. 5 D.P.R. n. 224/1988.

Il produttore, invece, deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. n. 224/1988) che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

Questa sentenza evidenzia in modo incontrovertibile la semplicità, se non la banalità, del percorso giudiziario che ogni avvocato comunitario potrà perseguire per arrivare a far condannare una impresa di produzione che abbia immesso sul mercato un prodotto il quale, successivamente al suo acquisto, sia risultato difettoso ed abbia creato danno all’acquirente per un valore uguale o superiore ai 387 euro.

Il comportamento anomalo del prodotto diviene quindi prova legalmente sufficiente per ritenere che questo fosse già oggettivamente difettoso al momento della sua immissione sul mercato (Vedere specificatamente pag. 11 della sentenza alla riga 16 e seguenti).

L’articolo n°5 del D.P.R. n°224 del 24 maggio 1988 (citato precedentemente), è divenuto l’articolo n°117 del Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005 (attualmente in vigore), comunemente noto come “Codice del Consumo”.

3. Le forme di tutela da adottare da parte delle imprese di produzione

In considerazione di quanto detto precedentemente, l’unica possibilità che rimane ad una impresa di produzione per evitare una condanna per Responsabilità Civile Prodotti è quindi quella di far valere, a suo favore, quanto indicato:

- Nell’articolo 118 del Codice del Consumo (Esclusione della responsabilità):

1. La responsabilità è esclusa:

a) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione;

b) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione;

c) se il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né lo ha fabbricato e distribuito nell’esercizio della sua attività professionale;

d) se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante;

e) se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso;

f) nel caso del produttore o fornitore di una parte componente o di una materia prima, se il difetto è interamente dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che la ha utilizzata.

- Nell’articolo 120 del Codice del Consumo (Prova):

1) Il danneggiato deve provare il difetto, il danno e la connessione causale tra difetto e danno.

2) Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la sua responsabilità secondo le disposizioni dell’articolo 118. Ai fini dell’esclusione di responsabilità prevista dall’articolo 118, comma 1, lettera b), e sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

3) Se è verosimile che il danno sia stato causato da un difetto del prodotto, il giudice può ordinare che le spese della consulenza tecnica siano anticipate dal produttore.

Nella quasi totalità dei casi, però, l’organizzazione chiamata in giudizio potrà dimostrare l’esclusione della propria responsabilità appellandosi unicamente al punto b) dell’articolo 118 in abbinamento al comma 2) dell’articolo 120, e cioè.

Il produttore non è responsabile dei danni causati da un suo prodotto difettoso se prova che, tenuto conto delle circostanze, è lecito ritenere che il difetto che ha causato il danno non esistesse quando il prodotto è stato messo in circolazione e quindi sia insorto solo successivamente.

Se si considera che, in un dibattito giudiziario, vale sempre il principio giuridico secondo cui:

una “specifica tecnica” è un sicuro elemento di riferimento nell’applicazione delle norme giuridiche,

l’unica specifica tecnica, attualmente esistente, che indichi tutte quelle attività necessarie e sufficienti ad una organizzazione per produrre con tutti quegli accorgimenti necessari ad impedire l’immissione sul mercato di prodotti difettosi (cioè quelle attività complessivamente indicate dal legislatore con il termine “circostanze” ) e, più specificatamente:

- la pianificazione delle attività necessarie alla realizzazione del prodotto,

- il coordinamento e la documentazione di ogni attività finalizzata ad eseguire ed a controllare il proprio processo produttivo,

- il coordinamento e la documentazione di tutte le azioni intraprese per prevenire l’insorgere delle non conformità,

è la norma internazionale:

UNI EN ISO 9001:2000

la quale, in ambito europeo, viene identificata anche come norma armonizzata, cioè una norma specificatamente richiamata in una o più Direttive Comunitarie.

Se il produttore o l’importatore non dà prova esaustiva che il prodotto sia stato realizzato rispettando tutto quanto prescritto in questa norma (cioè abbia effettivamente realizzato i suoi prodotti in un effettivo contesto industriale di “obbiettivo zero difetti”), automaticamente non è neanche in grado di dimostrare la sua “non responsabilità”, con la conseguente condanna giudiziaria e l’obbligo di rifondere finanziariamente i danni arrecati dal suo prodotto difettoso.

Qualora poi l’evento lesivo abbia coinvolto non solo cose ma anche persone, la problematica per il produttore o l’importatore può farsi invece molto più seria.

Il danneggiato, in questo caso, ha infatti la possibilità di aprire nei suoi confronti un procedimento penale nel quale l’evento lesivo diviene l’ipotesi di reato mentre, l’aspetto risarcitorio, diviene un procedimento civile all’interno del processo penale.

4. Ulteriore azione giudiziaria intentabile contro l’impresa di produzione

Se un produttore viene condannato per la direttiva sulla Responsabilità Civile Prodotti a causa di un suo specifico prodotto difettoso, diviene immediatamente logico presupporre che il suo cattivo modo di operare sia stato impiegato anche nella realizzazione di tutti quegli altri prodotti “similari” che, assieme a quello per cui è stato ritenuto colpevole, costituiscono un unico lotto di produzione (ed indicato dal legislatore con il termine generico di “prodotto”).

Questo porta immediatamente a ritenere che tutto il lotto fabbricato, o comunque un numero significativo di suoi elementi, possa risultare essere effettivamente “non conforme” indipendentemente dal fatto che il difetto, di cui si ipotizza in esso la presenza, si sia già evidenziato ed abbia arrecato danno.

Tale presupposto, per come è stata redatto il Decreto Legislativo n°172 del 21 maggio 2004 inerente alla:

Sicurezza generale dei prodotti

ed attualmente inserito nel Decreto Legislativo n°206 del 6 settembre 2005 (cioè il Codice del Consumo), diviene in giudizio l’elemento fondamentale per l’emissione di una nuova condanna.

Tra le varie restrizioni che, in questa circostanza, possono essere adottate nei confronti del fabbricante, oltre a quella di disporre, entro un termine perentorio, l’adeguamento del prodotto commercializzato agli obblighi di sicurezza previsti dal decreto (sempre che non vi sia un rischio imminente per la salute e l’incolumità pubblica), vi è anche quella di obbligare il produttore o l’importatore al ritiro dal mercato del prodotto (o comunque da provvedersi con spese a suo carico) e, ove necessario, alla sua distruzione.

5. La sostanziale “non conformità” di molte imprese alla norma ISO 9001

La 1° edizione della serie di norme sulla gestione dei sistemi qualità aziendali, universalmente conosciute come EN ISO 9000, venne messa a punto nel 1987 (cioè 2 anni dopo l’emissione della direttiva sulla Responsabilità Civile Prodotti) con il compito di stabilire le attività, sia di tipo organizzativo che operativo, da intraprendere da parte di una organizzazione per ridurre drasticamente il numero di prodotti non conformi che da essa potevano essere immessi sul mercato.

Purtroppo per impreparazione professionale di una considerevole parte dei professionisti che iniziarono a mettere in atto tale tipo di norme, al mondo imprenditoriale europeo fu riportato che gli effettivi scopi del loro utilizzo non erano quelli di creare e mettere a punto, in via prioritaria, particolari schemi organizzativi aventi come finalità la drastica riduzione del numero di prodotti non conformi e quindi produrre in un’ottica industriale di:

obbiettivo zero difetti

ma piuttosto quelli di arrivare a far certificare il proprio sistema qualità interno in modo da diversificarsi nettamente dalla concorrenza, ampliare il proprio mercato e, conseguentemente, aumentare il fatturato commerciale.

A fronte di questo obbiettivo gli imprenditori e gli organismi di certificazione hanno quindi dato il via ad un susseguirsi di richieste di certificati di conformità (da una parte) e di loro emissione (dall’altra), senza che, in moltissimi casi, vi fosse una concreta corrispondenza fra quanto attestato e l’effettiva realtà aziendale.

Questo modo di agire ha avuto, come logica conseguenza, che col passare del tempo il possesso dell’attestato di conformità ha perso sempre più la sua efficacia, vanificata dai troppi abusi commessi da tutte le parti in causa.

Per moltissime imprese, infatti, l’investimento effettuato per implementare al loro interno un sistema qualità aziendale certificato, non essendo questo stato specificatamente pianificato e messo a punto per produrre effettivamente in un contesto industriale di “zero difetti” ma solo per ottenere un “bollino” da spendere a livello commerciale, alla fine non ha consentito di conseguire né il tanto desiderato aumento di fatturato né un qualsiasi altro tipo di beneficio significativo, come ad esempio il suo utilizzo in un ambito giudiziario di Responsabilità Civile Prodotti per dare prova della propria “non responsabilità”.

Se la mancanza o la carenza di conformità di un sistema produttivo a quanto prescritto dalla norma per la gestione del sistema qualità aziendale è motivo, per il fabbricante, di condanna sia per quanto riguarda la Responsabilità Civile Prodotti che la Sicurezza Generale dei Prodotti, avere fatto certificare, da un ente esterno, la conformità di detto sistema alla norma ISO 9001 senza che detta conformità sussista effettivamente oppure sussista solo in parte, comporta per il produttore la quasi certezza, nel caso di un procedimento giudiziario, di vedersi riconosciuto il fattore aggravante dovuto alla sua “negligenza grave” nella realizzazione del prodotto, cosa questa che naturalmente si riflette negativamente sulla determinazione dell’entità della pena.

Ma se, in un processo per “Responsabilità Civile Prodotti” una società si ritrova, nonostante la certificazione, ad essere condannata per il suo sistema qualità interno non sufficientemente conforme alla norma, nella quasi totalità dei casi vi sono tutti i presupposti giuridici perché il produttore si trovi nella condizione di poter a sua volta agire in giudizio nei confronti:

- sia dell’organismo di certificazione,

- sia dell’eventuale struttura di consulenza a cui si è rivolto perché lo guidasse nella messa a punto del proprio sistema qualità interno,

citandoli separatamente o congiuntamente per

inadempimento contrattuale

(come ad esempio evidenziato, in Italia, dall’articolo 2222 e seguenti del codice Civile) ed inserendo, nella somma richiesta a risarcimento del cattivo servizio ricevuto, l’ammontare complessivo (o quota parte) delle spese da lui sostenute a causa della condanna o delle condanne da egli subite.

Le motivazioni legali, da sostenersi da parte del produttore, per attivare questo tipo di azione di rivalsa, fanno riferimento al fatto che:

- sia l’operato della struttura di consulenza, concretatosi nella definizione delle linee di indirizzo e nella successiva supervisione dell’implementazione del sistema,

- sia l’operato dell’organismo di certificazione, concretatosi nel rilascio di un attestato di conformità senza che vi fossero i presupposti per la sua emissione,

ha di fatto indotto il produttore a ritenere corretta la sua maniera di operare (anche se effettivamente questo non era vero), esponendolo così a subire una condanna giudiziaria quando, se entrambe le strutture avessero svolto con professionalità il proprio incarico, quasi certamente avrebbe potuto evitarla.

Altre conseguenze pratiche a cui si troverà a dover far fronte un imprenditore citato in giudizio per “Responsabilità Civile Prodotti” sono sicuramente, oltre naturalmente alla gravissima immagine negativa che la vicenda giudiziaria indurrà nella sua clientela o possibile clientela:

- Un significativo aumento del premio assicurativo associato alla copertura di questo tipo di rischi con la possibilità, se recidivo, di non trovare una sola compagnia di assicurazioni disposta a stipulare con lui una nuova polizza, od a prolungare quella scaduta, anche nel caso in cui vi fosse da parte sua la disponibilità a pagare qualunque somma gli venisse richiesta (come già capita negli Stati Uniti).

- Il quasi certo inizio, per la società oggetto di condanna, di un rapporto estremamente difficoltoso e delicato con le banche che le garantiscono il normale flusso finanziario.

In detti istituti di credito, per i fatti accaduti, non potrà che insorgere una oggettiva perdita di fiducia nell’imprenditorialità di questa organizzazione e quindi nella sua capacità di rimanere costantemente competitiva sul mercato, con tutte le conseguenze che un giudizio negativo di questo tipo obbligatoriamente comporta (anche nell’ottica delle nuove valutazioni industriali di una impresa cogentemente richieste nell’ambito di “Basilea 2”).

- La possibilità di poter essere chiamato in giudizio in ogni paese dell’Unione Europea in cui mette in commercio i propri prodotti.

Per delineare in modo sufficientemente esaustivo la vastità di questo problema si può affermare che, salvo rare eccezioni o settori industriali particolari come quello medicale oppure aeronautico, ogni azienda che opera sul mercato vi immette, annualmente, un numero di prodotti difettosi che può essere così stimato:

- Da qualche unità a qualche decina di unità (nel migliore dei casi) se il sistema produttivo interno rimane condizionato unicamente da fattori che, in gergo tecnico, vengono definiti “errori casuali” e quindi, come tali, non prevedibili a priori e piuttosto difficili da rilevare nel periodo di tempo, in genere abbastanza limitato, in cui questi risultano rimanere attivi.

- Interi lotti di produzione qualora, all’interno del processo produttivo, si verifichino degli “errori sistematici”, molto più facilmente rilevabili dall’operatore e quindi con una probabilità piuttosto bassa di far pervenire sul mercato dei prodotti difettosi.

- La totalità della produzione effettuata qualora, il difetto, risulti dovuto ad un errore di progettazione.

A titolo di esempio, per questo specifico caso, si può fare riferimento a quanto capitato alla società automobilistica MERCEDES BENZ con la sua “Classe A” per la quale, non avendo specificatamente pianificato tra le prove su strada da effettuare quella denominata “dell’alce”, tutte le auto che si fossero trovate in quella particolare condizione di utilizzo avrebbero quasi sicuramente perso l’assetto di guida, con tutte le conseguenze negative che un tale fattore ha sia sul veicolo in movimento sia sui passeggeri presenti al suo interno.

Considerando infine

- che la direttiva sulla “responsabilità civile prodotti” si applica, ad ogni prodotto, per 10 anni a partire dal momento della sua immissione sul mercato,

- che moltissime tipologie di prodotti, un volta divenuti difettosi, hanno la possibilità di arrecare danno a cose e/persone e quindi, ciascuno di essi, può essere motivo per una azione giudiziaria di rivalsa nei confronti del suo produttore od importatore,

si capisce facilmente quanto la problematica presentata in questo documento possa essere determinante per le imprese europee di produzione.