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Diritto allo sciopero: natura giuridica e limiti nella più recente giurisprudenza di legittimità

Diritto allo sciopero: natura giuridica e limiti nella più recente giurisprudenza di legittimità
Diritto allo sciopero: natura giuridica e limiti nella più recente giurisprudenza di legittimità

Abstract

Il presente contributo si pone come obiettivo quello di fornire una sintetica panoramica dei profili principali del diritto allo sciopero esercitato dal lavoratore subordinato, prendendo spunto dalle indicazioni emerse  dalle ultime pronunce della Corte di Cassazione che hanno delineato i contorni dell’istituto.

L’angolo di visuale non sarà limitato ad un approccio casistico, in quanto si tenterà di inquadrare le più recenti acquisizioni della prassi giudiziale in una prospettiva sistematica di più ampio respiro, così da collocare il diritto vivente nel relativo contesto normativo di riferimento.

 

1. Inquadramento normativo (cenni)

Il diritto allo sciopero rinviene il proprio fondamento super-primario nell’articolo 40 della  Costituzione.

Tuttavia, il Costituente non ha disciplinato l’istituto, limitandosi a riconoscerne l’esistenza e a rinviare alle leggi ordinarie per ciò che concerne la disciplina di dettaglio relativa all’esercizio del diritto.

Lo sciopero trova cittadinanza anche nelle fonti sovranazionali, come si desume dall’articolo 28 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, che espressamente consacra il diritto dei lavoratori di “ricorrere, in caso di conflitti...ad azioni
collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”
.

All’indomani dell’approvazione del Trattato di Lisbona, la Carta ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione, con un conseguente rafforzamento della tutela dei diritti in essa sanciti, ivi compreso il diritto di sciopero.

L’equiparazione ai trattati ha ricadute applicative notevoli, che si concretizzano nella possibilità di adire la Corte di Giustizia in occasione di controversie in cui il lavoratore lamenti un’indebita compressione delle prerogative ad esso riconosciute; ciò sempre che si ricada in materie in cui l’Unione Europea esercita la propria competenza.

Come anticipato, la Costituzione rinvia alla legge ordinaria per quanto concerne la regolamentazione del diritto di sciopero.

Tale delega è stata esercitata tardivamente dal legislatore, che solo nel 1990 ha approvato la legge n.146 relativa “all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali” e alla “salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”. Attraverso la citata legge, il cui ambito applicativo è in ogni caso limitato ai servizi in parola, è stata anche istituita una Commissione di garanzia deputata a dare attuazione alla disciplina posta, vigilando sulla sua corretta applicazione.

La cornice normativa di riferimento, in disparte interventi settoriali volti a regolamentare lo sciopero di peculiari tipologie di lavoratori (personale di polizia, assistenti di volo), è completata dai contratti collettivi e dagli accordi sindacali di ciascun comparto, nei quali le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi pubblici essenziali concordano con le rappresentanze sindacali “le prestazioni indispensabili” che sono tenute ad assicurare i lavoratori nell’ambito dei menzionati servizi.

In conclusione, può osservarsi come il legislatore abbia optato per un sistema in cui compete all’autonomia collettiva formulare le regole da rispettare in occasione del conflitto, laddove invece la legge ha il compito di stabilire il perimetro entro cui deve svilupparsi l’azione negoziale delle parti sociali.

2. Natura giuridica del diritto di sciopero

L’evidenziato fondamento super-primario del diritto di sciopero è stato più volte messo in risalto dalla giurisprudenza di legittimità, che attraverso una “actio finium regundorum” ha puntualmente distinto l’istituto da figure che sono ad esso assimilabili solo sotto il profilo effettuale della assenza del dipendente dal posto di lavoro.

Emblematica in tal senso è la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella Sentenza del 16 settembre 2016, n. 18195, in cui si evidenzia l’ontologica differenza tra il diritto di sciopero e  le altre ipotesi di assenza giustificata dal lavoro.

Contrariamente a fattispecie quali astensione dovuta a malattia o infortunio, lo sciopero costituisce “una delle pochissime ipotesi di “autotutela” di bisogni e pretese individuali e collettive di rilievo primario che determina la sospensione degli obblighi contrattuali tra le parti, tra i quali anche l’obbligo contributivo per il datore di lavoro” .

Partendo da tale premessa, la Corte va oltre il profilo schiettamente giuridico e proietta il diritto di sciopero in una dimensione “sociale”, espressamente qualificandolo come “esercizio di un diritto costituzionale individuale ma ad esercizio collettivo”.

L’essenza “relazionale” dello sciopero, come si vedrà nel seguente paragrafo, è una acquisizione consolidata della prassi giurisprudenziale, tant’è che la Corte di Cassazione vi fa espresso riferimento anche laddove si tratta di delineare i limiti all’esercizio del diritto in parola.

3. Limiti all’esercizio del diritto

Come anticipato, era intenzione del Costituente demandare al legislatore ordinario la fissazione del concreto ambito e delle modalità attuative dello sciopero.

Tale scelta, oltre a desumersi dalla formulazione volutamente generica dell’articolo 40 della Carta, risultava anche la più coerente, vista l’impossibilità di imbrigliare in un testo denso di principi un fenomeno che nella prassi può assumere le più variegate forme.

Quanto immaginato dal legislatore costituzionale, tuttavia, non può dirsi pienamente realizzato, vista la mancanza di una legge attuativa che disciplini in modo organico e omnicomprensivo le modalità di esercizio del diritto.

L’assenza di una cornice normativa di riferimento ha imposto agli interpreti di porre rimedio alla lacuna, onde evitare che possa configurarsi nell’ordinamento un diritto la cui attribuzione risulti indiscriminata e sottratta a qualsiasi forma di contemperamento con coesistenti situazioni soggettive di pari rango.

In tale contesto, ancora una volta è risultata decisiva l’opera di supplenza svolta dalla Corte di Cassazione, la quale ha provveduto a individuare gli eccezionali ostacoli che possono frapporsi alla libera esplicazione del diritto costituzionale in parola.

A tal uopo, la recente Sentenza della Corte di Cassazione del 3 dicembre 2015, n. 24653 ha specificato come lo sciopero sia in linea di principio scevro da vincoli, “se non quelli che si rinvengono in norme che tutelano posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario, come il diritto alla vita o all’incolumità personale, o, quantomeno, su un piano paritario, come il diritto alla libertà di iniziativa economica .

Ciò premesso, la Corte ha ritenuto illegittime le forme di protesta rimesse all’arbitrio dei lavoratori interessati, stigmatizzando lo sciopero attuato mediante modalità prive di alcuna predeterminazione.

Il diritto di sciopero, infatti, nasce e si sviluppa nell’ambito di una realtà che coinvolge una pluralità di interlocutori, sicché l’illiceità di tali condotte “isolate” si annida nella circostanza che esse “snaturano la forma e la finalità tipicamente collettive” dell’istituto in parola.

Siffatte forme di astensione, che nella concreta fattispecie in esame consistevano nella facoltà del singolo lavoratore di decidere quando e per quanto tempo assentarsi dal lavoro, esorbitano dal diritto costituzionale attribuito dall’articolo 40 della Costituzione, in quanto espongono il datore di lavoro “ai pregiudizi derivanti dall’impossibilità di prevenire i rischi alla produttività e all’organizzazione gestionale dell’azienda”.

Analogamente, come da ultimo ribadito dal Tribunale di Melfi in una sentenza del 15 luglio 2011, risulta lesiva dei limiti esterni del diritto di sciopero la condotta di chi si spinga oltre una legittima attività di persuasione degli altri dipendenti per indurli a scioperare, “ponendo in essere concreti atti nei confronti del personale non aderente all’agitazione o interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale”.

Concludendo, nell’individuazione dei confini del diritto in parola è risultata decisiva la funzione nomofilattica svolta dalla giurisprudenza di legittimità, che è stata in grado di fornire valide coordinate ermeneutiche destinate ad essere concretizzate dai tribunali di merito.

L’operato della Corte di Cassazione è stato ancor più imprescindibile ove si consideri che non esiste una definizione legislativa dello sciopero, circostanza che ha reso ancor più complessa l’individuazione dei relativi limiti entro cui esercitare tale diritto.

4. L’incerto confine con le prestazioni dovute

La breve disamina sin qui svolta, pur facendo luce su alcuni profili teorici rilevanti dell’istituto, di certo non è sufficiente a fugare i molteplici dubbi che quotidianamente emergono nella prassi applicativa.

Ciò non deve stupire, visto che nel silenzio della legge è la stessa giurisprudenza di legittimità a riconoscere che “I lineamenti del concetto sono stati individuati sul piano giuridico tenendo conto della storia e delle prassi delle relazioni industriali” (così, Cassazione Civile, sezione Lavoro del 4 ottobre 2011, n. 20270).

La casistica giurisprudenziale, del resto, evidenzia come sia controversa la stessa sussumibilità di determinate condotte nell’alveo del diritto di sciopero, soprattutto considerando la formulazione generica dell’articolo 40 della Costituzione e le variegate forme in cui può manifestarsi la protesta dei lavoratori.

Rebus sic stantibus, risulta quasi fisiologico che la Corte di Cassazione sia spesso chiamata a distinguere lo sciopero dalle altre possibili cause di astensione dal lavoro, le quali a loro volta possono essere sia legittime che illecite.

A tal uopo utili indicazioni emergono dalla pronuncia dell’8 novembre 2015, n. 17770, in cui nitidamente si afferma che “ci si colloca al di fuori del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere” .

Partendo da tale premessa, la Corte distingue il legittimo diritto di sciopero dal c.d. sciopero delle mansioni, che non rappresenta null’altro che il “rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni legittimamente richiedibili al lavoratore”, con la conseguenza che un tale comportamento può configurare una responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente.

Così delineati i contorni del diritto di sciopero, deve escludersi dal perimetro dell’istituto il rifiuto di sostituire un collega assente, nonostante l’obbligo in tal senso previsto dalla contrattazione collettiva; ciò in quanto, in fattispecie analoghe, ad essere violato è “un limite interno, o definitorio, dello sciopero, consistente nell’astensione dal lavoro per l’autotutela dei propri interessi”, come da ultimo ribadito nella sentenza della Corte di Cassazione del 26 gennaio 2016, n. 1350.

5. Brevi riflessioni conclusive

Questo breve contributo, pur avendo evidenziato i profili dogmatici più condivisi del diritto di sciopero, non fa altro che testimoniare come ogni trattazione che ambisca a ricostruire l’istituto con pretese di completezza e universalità sia destinata a fallire.

Il diritto di sciopero è intimamente legato alle concrete forme in cui viene esercitato e, come tale, una sua descrizione è possibile (e ha senso) solo avendo riguardo alla realtà sociale in cui si manifesta.

Quanto detto trova conferme nella stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha da tempo accantonato un approccio generalizzante e preferisce descrivere il fenomeno in termini fattuali.

In conclusione, seppur non si può dare di esso una definizione astratta, lo sciopero si può riscontrare in concreto, risolvendosi “nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione”, come ribadito nitidamente dalla citata pronuncia dell’8 novembre 2015, n. 17770.

Abstract

Il presente contributo si pone come obiettivo quello di fornire una sintetica panoramica dei profili principali del diritto allo sciopero esercitato dal lavoratore subordinato, prendendo spunto dalle indicazioni emerse  dalle ultime pronunce della Corte di Cassazione che hanno delineato i contorni dell’istituto.

L’angolo di visuale non sarà limitato ad un approccio casistico, in quanto si tenterà di inquadrare le più recenti acquisizioni della prassi giudiziale in una prospettiva sistematica di più ampio respiro, così da collocare il diritto vivente nel relativo contesto normativo di riferimento.

 

1. Inquadramento normativo (cenni)

Il diritto allo sciopero rinviene il proprio fondamento super-primario nell’articolo 40 della  Costituzione.

Tuttavia, il Costituente non ha disciplinato l’istituto, limitandosi a riconoscerne l’esistenza e a rinviare alle leggi ordinarie per ciò che concerne la disciplina di dettaglio relativa all’esercizio del diritto.

Lo sciopero trova cittadinanza anche nelle fonti sovranazionali, come si desume dall’articolo 28 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, che espressamente consacra il diritto dei lavoratori di “ricorrere, in caso di conflitti...ad azioni
collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”
.

All’indomani dell’approvazione del Trattato di Lisbona, la Carta ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione, con un conseguente rafforzamento della tutela dei diritti in essa sanciti, ivi compreso il diritto di sciopero.

L’equiparazione ai trattati ha ricadute applicative notevoli, che si concretizzano nella possibilità di adire la Corte di Giustizia in occasione di controversie in cui il lavoratore lamenti un’indebita compressione delle prerogative ad esso riconosciute; ciò sempre che si ricada in materie in cui l’Unione Europea esercita la propria competenza.

Come anticipato, la Costituzione rinvia alla legge ordinaria per quanto concerne la regolamentazione del diritto di sciopero.

Tale delega è stata esercitata tardivamente dal legislatore, che solo nel 1990 ha approvato la legge n.146 relativa “all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali” e alla “salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”. Attraverso la citata legge, il cui ambito applicativo è in ogni caso limitato ai servizi in parola, è stata anche istituita una Commissione di garanzia deputata a dare attuazione alla disciplina posta, vigilando sulla sua corretta applicazione.

La cornice normativa di riferimento, in disparte interventi settoriali volti a regolamentare lo sciopero di peculiari tipologie di lavoratori (personale di polizia, assistenti di volo), è completata dai contratti collettivi e dagli accordi sindacali di ciascun comparto, nei quali le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi pubblici essenziali concordano con le rappresentanze sindacali “le prestazioni indispensabili” che sono tenute ad assicurare i lavoratori nell’ambito dei menzionati servizi.

In conclusione, può osservarsi come il legislatore abbia optato per un sistema in cui compete all’autonomia collettiva formulare le regole da rispettare in occasione del conflitto, laddove invece la legge ha il compito di stabilire il perimetro entro cui deve svilupparsi l’azione negoziale delle parti sociali.

2. Natura giuridica del diritto di sciopero

L’evidenziato fondamento super-primario del diritto di sciopero è stato più volte messo in risalto dalla giurisprudenza di legittimità, che attraverso una “actio finium regundorum” ha puntualmente distinto l’istituto da figure che sono ad esso assimilabili solo sotto il profilo effettuale della assenza del dipendente dal posto di lavoro.

Emblematica in tal senso è la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella Sentenza del 16 settembre 2016, n. 18195, in cui si evidenzia l’ontologica differenza tra il diritto di sciopero e  le altre ipotesi di assenza giustificata dal lavoro.

Contrariamente a fattispecie quali astensione dovuta a malattia o infortunio, lo sciopero costituisce “una delle pochissime ipotesi di “autotutela” di bisogni e pretese individuali e collettive di rilievo primario che determina la sospensione degli obblighi contrattuali tra le parti, tra i quali anche l’obbligo contributivo per il datore di lavoro” .

Partendo da tale premessa, la Corte va oltre il profilo schiettamente giuridico e proietta il diritto di sciopero in una dimensione “sociale”, espressamente qualificandolo come “esercizio di un diritto costituzionale individuale ma ad esercizio collettivo”.

L’essenza “relazionale” dello sciopero, come si vedrà nel seguente paragrafo, è una acquisizione consolidata della prassi giurisprudenziale, tant’è che la Corte di Cassazione vi fa espresso riferimento anche laddove si tratta di delineare i limiti all’esercizio del diritto in parola.

3. Limiti all’esercizio del diritto

Come anticipato, era intenzione del Costituente demandare al legislatore ordinario la fissazione del concreto ambito e delle modalità attuative dello sciopero.

Tale scelta, oltre a desumersi dalla formulazione volutamente generica dell’articolo 40 della Carta, risultava anche la più coerente, vista l’impossibilità di imbrigliare in un testo denso di principi un fenomeno che nella prassi può assumere le più variegate forme.

Quanto immaginato dal legislatore costituzionale, tuttavia, non può dirsi pienamente realizzato, vista la mancanza di una legge attuativa che disciplini in modo organico e omnicomprensivo le modalità di esercizio del diritto.

L’assenza di una cornice normativa di riferimento ha imposto agli interpreti di porre rimedio alla lacuna, onde evitare che possa configurarsi nell’ordinamento un diritto la cui attribuzione risulti indiscriminata e sottratta a qualsiasi forma di contemperamento con coesistenti situazioni soggettive di pari rango.

In tale contesto, ancora una volta è risultata decisiva l’opera di supplenza svolta dalla Corte di Cassazione, la quale ha provveduto a individuare gli eccezionali ostacoli che possono frapporsi alla libera esplicazione del diritto costituzionale in parola.

A tal uopo, la recente Sentenza della Corte di Cassazione del 3 dicembre 2015, n. 24653 ha specificato come lo sciopero sia in linea di principio scevro da vincoli, “se non quelli che si rinvengono in norme che tutelano posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario, come il diritto alla vita o all’incolumità personale, o, quantomeno, su un piano paritario, come il diritto alla libertà di iniziativa economica .

Ciò premesso, la Corte ha ritenuto illegittime le forme di protesta rimesse all’arbitrio dei lavoratori interessati, stigmatizzando lo sciopero attuato mediante modalità prive di alcuna predeterminazione.

Il diritto di sciopero, infatti, nasce e si sviluppa nell’ambito di una realtà che coinvolge una pluralità di interlocutori, sicché l’illiceità di tali condotte “isolate” si annida nella circostanza che esse “snaturano la forma e la finalità tipicamente collettive” dell’istituto in parola.

Siffatte forme di astensione, che nella concreta fattispecie in esame consistevano nella facoltà del singolo lavoratore di decidere quando e per quanto tempo assentarsi dal lavoro, esorbitano dal diritto costituzionale attribuito dall’articolo 40 della Costituzione, in quanto espongono il datore di lavoro “ai pregiudizi derivanti dall’impossibilità di prevenire i rischi alla produttività e all’organizzazione gestionale dell’azienda”.

Analogamente, come da ultimo ribadito dal Tribunale di Melfi in una sentenza del 15 luglio 2011, risulta lesiva dei limiti esterni del diritto di sciopero la condotta di chi si spinga oltre una legittima attività di persuasione degli altri dipendenti per indurli a scioperare, “ponendo in essere concreti atti nei confronti del personale non aderente all’agitazione o interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale”.

Concludendo, nell’individuazione dei confini del diritto in parola è risultata decisiva la funzione nomofilattica svolta dalla giurisprudenza di legittimità, che è stata in grado di fornire valide coordinate ermeneutiche destinate ad essere concretizzate dai tribunali di merito.

L’operato della Corte di Cassazione è stato ancor più imprescindibile ove si consideri che non esiste una definizione legislativa dello sciopero, circostanza che ha reso ancor più complessa l’individuazione dei relativi limiti entro cui esercitare tale diritto.

4. L’incerto confine con le prestazioni dovute

La breve disamina sin qui svolta, pur facendo luce su alcuni profili teorici rilevanti dell’istituto, di certo non è sufficiente a fugare i molteplici dubbi che quotidianamente emergono nella prassi applicativa.

Ciò non deve stupire, visto che nel silenzio della legge è la stessa giurisprudenza di legittimità a riconoscere che “I lineamenti del concetto sono stati individuati sul piano giuridico tenendo conto della storia e delle prassi delle relazioni industriali” (così, Cassazione Civile, sezione Lavoro del 4 ottobre 2011, n. 20270).

La casistica giurisprudenziale, del resto, evidenzia come sia controversa la stessa sussumibilità di determinate condotte nell’alveo del diritto di sciopero, soprattutto considerando la formulazione generica dell’articolo 40 della Costituzione e le variegate forme in cui può manifestarsi la protesta dei lavoratori.

Rebus sic stantibus, risulta quasi fisiologico che la Corte di Cassazione sia spesso chiamata a distinguere lo sciopero dalle altre possibili cause di astensione dal lavoro, le quali a loro volta possono essere sia legittime che illecite.

A tal uopo utili indicazioni emergono dalla pronuncia dell’8 novembre 2015, n. 17770, in cui nitidamente si afferma che “ci si colloca al di fuori del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere” .

Partendo da tale premessa, la Corte distingue il legittimo diritto di sciopero dal c.d. sciopero delle mansioni, che non rappresenta null’altro che il “rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni legittimamente richiedibili al lavoratore”, con la conseguenza che un tale comportamento può configurare una responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente.

Così delineati i contorni del diritto di sciopero, deve escludersi dal perimetro dell’istituto il rifiuto di sostituire un collega assente, nonostante l’obbligo in tal senso previsto dalla contrattazione collettiva; ciò in quanto, in fattispecie analoghe, ad essere violato è “un limite interno, o definitorio, dello sciopero, consistente nell’astensione dal lavoro per l’autotutela dei propri interessi”, come da ultimo ribadito nella sentenza della Corte di Cassazione del 26 gennaio 2016, n. 1350.

5. Brevi riflessioni conclusive

Questo breve contributo, pur avendo evidenziato i profili dogmatici più condivisi del diritto di sciopero, non fa altro che testimoniare come ogni trattazione che ambisca a ricostruire l’istituto con pretese di completezza e universalità sia destinata a fallire.

Il diritto di sciopero è intimamente legato alle concrete forme in cui viene esercitato e, come tale, una sua descrizione è possibile (e ha senso) solo avendo riguardo alla realtà sociale in cui si manifesta.

Quanto detto trova conferme nella stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha da tempo accantonato un approccio generalizzante e preferisce descrivere il fenomeno in termini fattuali.

In conclusione, seppur non si può dare di esso una definizione astratta, lo sciopero si può riscontrare in concreto, risolvendosi “nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione”, come ribadito nitidamente dalla citata pronuncia dell’8 novembre 2015, n. 17770.