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Diritto all’oblio nel revenge porn

Tramonto
Ph. Enrico Gusella / Tramonto

Oblio, deriva dal termine latino oblivium, di cui è dato l’etimo a oblivione, cioè dimenticanza. 

Oscilla tra il diritto dell’individuo al rispetto della propria riservatezza e dignità e il diritto alla libertà di informazione e manifestazione del pensiero.

Frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia europea, oggi il diritto all’oblio è esercitabile dal singolo relativamente a quei dati personali che si intendono eliminare dal web, qualora la conservazione degli stessi non sia, in primis, conforme al Regolamento Generale sulla protezione dei dati (UE/2016/679) e quando reca danno e pregiudizio al soggetto ritratto.

Una prima riflessione è rivolta all’esigenza di affermazione, notorietà e ricerca del consenso, tipica di una società che da più spazio al virtuale che al reale. E quindi, quanta contraddittorietà nel far emergere il diritto ad essere dimenticati (dal web) quando vi è l’estremo bisogno di apparire ed essere notati nel cyberspace?

È proprio questo a rappresentare un punto cruciale, e di non poco conto, nell’elaborazione di quei parametri entro cui è esercitabile il diritto all’oblio in rete.

A ben vedere, l’esposizione e la preservazione della propria persona sono due fenomeni che viaggiano di pari passo, presentando, tuttavia, notevoli divergenze: per esempio è bastevole un click affinché venga postata una foto ma non è altrettanto semplice togliere dalla rete quello stesso contenuto che nel frattempo è stata copiato, salvato e successivamente divulgato.

Diversi sono gli esempi in merito la mancata applicazione del diritto in questione in rete: il caso T. Cantone ha fatto emergere un vuoto normativo rispetto l’adozione di strumenti di tutela per chi è vittima di vendetta pornografica. La giovane, infatti, ottenne un provvedimento d’urgenza (ex articolo 700 codice penalec.) attraverso cui sarebbero stati eliminati i materiali aventi contenuto sessualmente esplicito ma non le è stato concesso l’esercizio del diritto ad essere dimenticata.

Solo a seguito dell’evento suicidario e dell’intervento dei legali della ragazza, è stato creato un meccanismo chiamato “metodo emme” che ha permesso di individuare, e censurare, i contenuti pirata. Ciò rilevato, il diritto in questione appare più come forma che come sostanza.

È stato pensato come eventuale rimedio al dilagante fenomeno del revenge porn il procedimento di deindicizzazione, propedeutico all’attuazione del c.d. diritto all’oblio: inizia con la richiesta, da parte dell’interessato, generalmente, al motore di ricerca di eliminare ogni riferimento della propria persona riconducibile ad un fatto, o ad un’immagine, per sé lesiva e dannosa. Solo in un secondo momento, qualora cioè il motore di ricerca non dovesse accettare tale richiesta, il richiedente potrà rivolgersi al Garante o all’Autorità Giudiziaria. Di contro, in caso di accettazione della richiesta di rimozione, i link ottenuti dalla ricerca su quel hosting provider non compariranno più ma è possibile che quelle stesse informazioni possano ancora circolare nel web.

La causa? Il punto di ritorno, come un effetto boomerang, è sempre lo stesso: il cyberspace non dimentica!

Da questo assunto si evince come “deindicizzazione” non è sinonimo di “eliminazione immediata e permanente” del contenuto. Tale meccanismo si presenta come corollario del diritto alla autodeterminazione informativa che permette all’interessato di richiedere che la notizia diventi difficilmente reperibile e non che sia espunta dal web definitivamente.

Per tale ragione, il sistema fino ad ora descritto è stato preso in considerazione ai fini di limitare l’accesso a quei link lesivi per la dignità, per la riservatezza, l’immagine, il decoro, l’onore di un soggetto: una soluzione che, tuttavia, non tutela la vittima tout court.

 

1. La responsabilità del Internet Service Provider

Il reato di revenge porn ha trovato terreno fertile con l’incrementarsi di piattaforme di messaggistica e dei social network. Per tale ragione è fondamentale analizzare se ed eventualmente in che termini è responsabile l’Internet Service Provider (ISP).

In materia di revenge porn, è dibattuta la questione circa la sussistenza o meno della responsabilità penale degli internet service provider per i contenuti illeciti pubblicati da terzi. In tale contesto, l’articolo 612 ter codice penale non fa alcun riferimento alla possibilità che il provider possa considerarsi responsabile. Paradosso dal momento in cui è proprio la combinazione tra fornitori/operatori di internet e sistemi informatici a produrre gli effetti più lesivi per la vittima.

L’Unione Europea ha elaborato un corpus normativo sulla responsabilità degli intermediari fondato su due direttive: la direttiva 2000/31/EC sul commercio elettronico (recepita in Italia dal Decreto legislativo 9 aprile 2003 n. 70) e la direttiva 2001/29/EC sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione.

Orientamento maggioritario esclude la punibilità del provider. Tuttavia la dottrina italiana, in ossequio agli articoli 16-17 del d.lgs 70/2003 (d.lgs di recepimento della direttiva europea e-commerce), individua tre tipologie di responsabilità: una prima forma a titolo di concorso commissivo tra l’autore del contenuto illecito e il provider; una seconda incentrata sulla responsabilità da reato omissivo improprio per non aver impedito il reato altrui (articolo 40 cpv. codice penale); una terza basata sulla mancata assunzione di diligenza, non avendo attuato le misure necessarie a limitare le conseguenze del reato (integrando un reato omissivo proprio).

Nello specifico, l’articolo 17 del decreto legislativo 70/2003 esenta gli ISP da un dovere generale di controllo ex ante circa la liceità o meno dei dati che trasmettono o memorizzano.

Secondo il legislatore europeo, affermare il contrario comporterebbe un onere eccessivamente gravoso per i provider, tanto da costituire una grave violazione della libertà d’impresa e del principio di neutralità della rete. Sono sempre responsabili civilmente, i provider che, venuti a conoscenza del carattere illecito, o pregiudizievole per un soggetto terzo, di un’attività svolta attraverso un proprio servizio, non informano tempestivamente l’autorità competente, ovvero se, a seguito della richiesta dell’autorità giudiziaria o amministrativa, non si attivano per eliminare i contenuti dannosi. Di contro, ne è esclusa qualora il gestore dimostri di avere assunto un atteggiamento più che diligente nel limitare il pregiudizio.

In ossequio alla sentenza 13/05/2014 n.131, della Corte di giustizia UE grande sezione, è stato stabilito che le azioni aventi ad oggetto la richiesta di rimozione, cancellazione o deindicizzazione di un contenuto presente su internet, possono essere rivolte sia a chi pubblica le informazioni sia ai gestori dei motori di ricerca. La sentenza in questione, che condannò Google alla deindicizzazione di alcuni siti internet che riportavano notizie lesive della sfera privata e della dignità di un cittadino spagnolo, ha rappresentato il punto di partenza per quanto attiene il procedimento di cancellazione. La decisione ha, infatti, rafforzato il diritto di richiedere ai motori di ricerca di effettuare quella procedura di dissociazione del proprio nome o dati personali da pagine internet e siti di natura diffamatoria, inesatta, inaccurata, offensiva o riportanti informazioni errate e non aggiornate.

Tornando nuovamente al già citato Caso Cantone, il Tribunale di Napoli Nord da una parte riconosce il ritardo dei provider nella rimozione dei contenuti sulla ragazza (ritenne sussistente la responsabilità del provider che venuto a conoscenza del fatto non si attivò per impedirne la diffusione), dall’altro nega la legittimità dell’esercizio al diritto all’oblio: a causa dell’attualità della notizia (fattore temporale) e dell’assenza di provvedimenti ad hoc dell’autorità giudiziaria. Secondo il giudice, infatti, “non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività alla conoscenza di questa vicenda”.

Per ottenere la rimozione delle pagine che la riguardavano e quindi procedere alla richiesta di cancellazione delle immagini e dei video che la ritraevano, la ragazza dovette affrontare una dura battaglia legale contro Facebook, (ma anche contro Google, Yahoo con la quali però perse) la quale fu portata a termine dalla madre dopo il suo suicidio. Facebook, opponendosi alla richiesta, ha da sempre sostenuto la teoria che non sussiste alcun obbligo di rimozione senza il preventivo intervento delle Autorità competenti né tanto meno la possibilità di effettuare un’attività di monitoraggio e rimozione dei post lesivi dei diritti della personalità, sostenendone l’eccessiva gravosità.

Nonostante ciò, Il Tribunale di Napoli Nord ha teorizzato che l’assenza di un generale obbligo di sorveglianza per l’hosting provider e la mancanza di un provvedimento giudiziario che impone di eliminare quanto pubblicato sulla propria piattaforma, non esula lo stesso a rimuovere tempestivamente i contenuti e le informazioni segnalati dagli utenti. Affermare il contrario significherebbe autorizzare l’ulteriore diffusione di immagini sessualmente esplicite e violare il c.d. diritti della personalità.

Importante è cogliere l’aspetto per cui il consenso inizialmente prestato dalla vittima rispetto l’invio dei video agli indagati, non coinciderebbe nel placet della ragazza alla diffusione di quegli stessi contenuti su una svariata gamma di piattaforme, rientrando il comportamento nell’ambito dell’illecito trattamento e della diffamazione.

Un punto da non sottovalutare è il modus operandi del Provider: essi traggono profitto dalla elaborazione delle informazioni prodotte dagli utenti. Ciò posto dovrebbero, all’evenienza, sostenere anche i costi derivanti dalla realizzazione di fatti illeciti e pregiudizievoli per il singolo utente leso. Lo scopo di lucro delle piattaforme può porre queste in conflitto con le esigenze di protezione degli interessi degli utenti. Tuttavia, appare irragionevole imporre ai gestori dei siti obblighi di attivazione eventualmente presidiati dalla sanzione penale: in mancanza di una disposizione legislativa, si dovrà fare riferimento alle regole attinenti al concorso di persone, verificando l’effettivo contributo apportato alla commissione del reato.

Allo stato attuale, attendersi che gli intermediari della Rete operino, in via preventiva e cautelativa, un controllo sui propri siti e server al fine di impedire l’esistenza di materiale illecito non è realistico.

Gran parte degli ISP ha adottato una strategia che si fonda sulla logica del “prevenire è meglio che curare”. Hanno optato per forme di autoregolamentazione che offrono linee guida in materia di contenuti vietati ed illeciti sulla Rete e sulle loro piattaforme, nonché termini d’uso idonei a specificare agli utenti le loro responsabilità e i contenuti di cui è vietata la pubblicazione. L’attività di cancellazione e di segnalazione è sotto il controllo e la supervisione degli stessi provider in modo da limitare (il più possibile) fenomeni criminosi: dal terrorismo agli hate speech.

Attualmente, piattaforme quali YouTube, Facebook e Twitter hanno adottato propri codici di autoregolamentazione.

La Suprema Corte nel 2018 ha accolto una diversa soluzione: «l’amministratore del blog, il quale non elimina i commenti offensivi pubblicati dagli utenti, risponde di un autonomo reato di diffamazione». Alla stregua di quanto sostenuto dalla Corte, l’amministratore del blog sarebbe responsabile penalmente poiché con il suo comportamento, contribuisce alla circolazione del contenuto prodotto dall’utente. Con questa soluzione, fondata su un precedente giurisdizionale, si è cercato di aggirare l’assenza di una normativa ad hoc che attribuisca rilevanza penale alla condotta del provider, in termini di concorso di persone.

L’orientamento espresso della Corte appare, però, fragile. In realtà, la Suprema Corte ha cercato di trasferire sul piano penale quanto sostenuto dalla giurisprudenza civile, secondo cui è sufficiente la segnalazione del privato perché scatti l’obbligo di eliminare le informazioni illecite memorizzate. Tale operazione, però, contrasta con l’articolo 25 Cost. in quanto ammette una forma di responsabilità priva di fondamento legale e si pone in contrasto con il diritto positivo, in base al quale il provider è tenuto a rimuovere i contenuti illeciti immessi nella rete previa richiesta dell’autorità giudiziaria.

Alla luce di ciò sembra chiaro che la disciplina vigente debba essere riformata perché ricca di lacune e scarna di rimedi pratici, concreti ed immediati a tutela della vittima di revenge porn.

Cass. pen., sez. V, sent. n. 12546 del 8 novembre 2018

Sent. Corte di giustizia europea (Grande Sezione) 13 maggio 2014, C-131/12, in eur-lex.europa.eu

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Tribunale di Napoli Nord, sez. II civile, procedimento per reclamo iscritto al n. 9799/2016, ordinanza del 03.11.2016, in www.iurisprudentia.it