Giotto racconta sui muri di Padova l’uomo del ‘300

Giotto, particolare della Cappella degli Scrovegni, Padova
Giotto, particolare della Cappella degli Scrovegni, Padova

Giotto racconta sui muri di Padova l’uomo del ‘300

Non è il caso di provarsi a recensire, secondo le regole, il mirabile percorso che Vittorio Sgarbi ha chiamato “mostra” dettando un titolo che è un invito e una promessa: “Giotto e il suo tempo”, a Padova fino al 29 aprile2001. E neppure ci soccorre la superba raccolta di studi che non possiamo permetterci di avvilire a “catalogo”. Non resta che l’umiltà di un consiglio, quello di raggiungere il museo degli Olivetani e da lì iniziare la visita che si rivelerà una marcia di gloria, segnata da tappe luminose, che Giotto il novatore e i suoi allievi e seguaci lasciarono, 7 secoli fa, nella Città del Santo, Padova. Il prossimo 8 gennaio ricorre l’anniversario della morte del pittore avvenuta nel 1337. Per l’occasione a Firenze si terrà una messa in suffragio del patriarca della pittura italiana nel duomo di Santa Maria del Fiore. Le ossa ritrovate e recentemente attribuite a Giotto saranno tumulate nella cripta della cattedrale. Un rito significativo per rimarcare l’importanza di questo artista universale e attualissimo.                                                                                                                                       
 

Giovanni Michelucci, lavoro nei campi, 3 fioretti, xilografie
Giovanni Michelucci, lavoro nei campi, 3 fioretti, xilografie


Nell’immaginario collettivo Giotto è da sempre il pittore per antonomasia, la leggenda ne ha elaborato il mito, la storia classificato il genio. In Toscana, fino a pochi anni fa sulle piazze nei giorni di mercato, gli ultimi aedi popolari vantavano i prodotti o propiziavano la vendita di un bove cantando in versi anche l’apologia del pastorello che “prese un giorno una pietra e poi su quella ci fece la figura di un’agnella”.  Lo aveva preceduto un santo come Francesco, e lo accompagnerà un poeta quale Dante; l’amore, il canto e l’immagine introdurranno al nuovo mattino della civiltà. Sono sempre tanti i sintomi che avvertono della imminente primavera, ma è l’albero in fiore che sancisce col suo tripudio di luce: Giotto è il miracolo della fiorita, piena, superba, ineludibile, è colui che spalanca le porte di un’era nuova, che sostituisce i simboli con la realtà e restituisce una sacralità alle cose di tutti i giorni, anche le più semplici, secondo il suggerimento di Francesco. È il più moderno dei pittori e il più antico; come il Cristo dantesco anche Giotto è romano.

Giovanni Michelucci, i covoni, xilografia
Giovanni Michelucci, i covoni, xilografia

Se le etichette non si addicono ai grandi, quella gotica è troppo stretta per abbracciare la monumentalità monolitica, la compattezza conclusa delle sue figure, spesso bozzoli chiusi nel loro magistero formale che lascia a poche pieghe il compito di rivelare il corpo nella sua forma e posizione. Chi avrà suggerito a Enrico Scrovegni, noto prestatore di denari, l’idea di recuperare il paradiso celeste facendone costruire uno sulla porta di casa? Per questo suo grande merito diviene perfino facile sopportare il peccato dell’usura, anche i celesti avranno a suo tempo pensato la stessa cosa. Nelle sacre rappresentazioni del nostro pittore la drammaticità recupera l’azione, le figure si muovono, agiscono e partecipano l’evento con sentimenti umani, la Madonna piange il Cristo morto gridando i versi di Jacopone: “Figlio, figlio, figlio!”. Gli atteggiamenti e i gesti non sono più stereotipati ma stati d’animo trasfigurati dall’arte, l’umano e il divino ricongiunti come nei “Fioretti”. nelle “Vite dei Santi”, nelle “Leggende Cristiane”. Come i suoi predecessori anche Giotto, in particolare agli Scrovegni, riempie totalmente pareti e volte che gli vengono affidate, non si tratta di una serie di quadri ma di un mondo che avvolge i fedeli non permettendo altre distrazioni. Ma in lui l’autorità assume il tono familiare, con il dovuto rispetto si è fatti partecipi della scena, attori e spettatori.                                                                                                                                       

Senza nulla togliere alla bellezza e maestosità delle sue tavole, è facile constatare che il Giotto più vero, più nuovo, più umano e più grande è quello degli affreschi. La tecnica che non permette indugi o ripensamenti, che mette a nudo istinti e propositi dell’artista, trova nel mugellano quella sapiente spontaneità serpeggiante, come un fuoco costantemente attizzato, nei racconti affrescati. Fasce sovrapposte che garriscono sotto la volta affrescata degli Scrovegni come bandiere affidate ai venti del tempo.  L’affresco è la tecnica più modesta e spontanea, seppure la più assoluta, è il tipo di pittura da sempre ricorrente nei sogni degli artisti, è quella che invita all’espressione senza togliere niente, fuor che il superfluo, e nulla concedere oltre il necessario. Nel nostro tempo l’ha invocata Sironi, muri agli artisti, fu chiesto, perché la grande decorazione tornasse, in quel momento che apparve di rinascita anche per le arti, a narrare almeno negli edifici pubblici la storia degli uomini. Giotto ebbe muri e impeto per dipingerli, con lui l’arte tornò di tutti; aristocrazia e popolo leggevano la stessa Bibbia, sulle pareti delle chiese, nella traduzione in una lingua universale dalla quale era facile comprendere il mistero della salvezza grazie alla persuasione operata dalla bellezza.                 Nessuno, è ovvio, penserebbe cambiare un solo segno nel magico complesso di questa cappella, nessuno potrebbe pensare le grandi scene giottesche “separate dal muro e collocate, magari private dalle cornici, in un magazzino di affreschi staccati”, come scrive Gian Lorenzo Mellini, ma chiunque può chiedersi cosa abbiano in comune con il realismo delle figure e la compostezza delle composizioni, le triturate tarsie che riquadrano le scene, indice del permanere nella decorazione di un gusto che oggi diremmo datato, legato a modi convenzionali, di ricordo greco, insomma non ancora tradotto secondo la pittura, in quelle che saranno plastiche volute, morbidi ghirigori.                              

La mostra-itinerario di Padova è soprattutto un percorso di affreschi, alle tavole è affidato un compito più didattico come la possibilità del confronto diretto. Jacopo Avanzi, Giusto de’ Menabuoni, Guariento, Altichiero da Zevio, Nicoletto Semitecolo, Jacopo da Verona, autori con nomi da fiaba agreste in un tempo aperto alla speranza; un tempo che vedeva abbinati realtà e favola nel segno della fede, e la sacralità permeare ogni atto, ogni oggetto, ogni pensiero degli uomini. Non è stato ancora chiarito se è l’ambiente a segnare l’artista o, antica querelle, l’autore a imprimere alla natura circostante il proprio stile.                                                                                                                                 

Giovanni Michelucci era convinto di ritrovare Giotto nella sobrietà e armonia della campagna mugellana: i popolani, le case, le capanne. Cosa sono le capanne di Giotto? Si chiedeva il vecchio architetto, queste strane scatole appoggiate sul terreno, piccole per l’uomo che ci sta accanto ma immense per la fantasia perché, concludeva, ad abitarle è un angelo, si avverte, si sente, si tocca con mano.  

Sigfrido Bartolini

Articolo uscito sul quotidiano Libero il 24 Dicembre 2000