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Giovanni Falcone e la separazione delle carriere in magistratura

Giovanni Falcone
Giovanni Falcone

In questi giorni di fermento per le iniziative dell’Unione delle Camere Penali e per i referendum sulla giustizia, riteniamo doveroso pubblicare l’intervista che Giovanni Falcone rilascio a Mario Pirani il 3 ottobre del 1991.

Nell’intervista Giovanni Falcone affermava: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l'obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para- giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell'azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell'Esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte. Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell'ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti".

Queste parole gli procurarono ulteriore ostracismo.

Ecco il testo dell’intera intervista.

 

Una serie di porte inchiavardate che si aprono solo dietro preventivo riconoscimento proteggono, anche a Roma, all' interno del pur vigilatissimo ministero della Giustizia, l' ufficio dove lavora Giovanni Falcone: malgrado non sia ormai in prima linea questo magistrato resta evidentemente uno degli uomini più invisi alla mafia.

Per questo, dopo aver intervistato (Repubblica del 28 settembre) il celebre ex procuratore di New York, Rudolph Giuliani, con il quale Falcone collaborò al tempo dell' inchiesta contro "Cosa nostra", gli abbiamo rivolto alcune domande su quali sono, sulla base della sua specifica esperienza, i punti deboli della lotta alla criminalità organizzata. Prima, però, gli abbiamo chiesto quale sia, a suo avviso, la spiegazione sul perché sia fallita a suo tempo la strategia da lui impersonata (pool, maxi processi, uso dei pentiti) e che, per la prima volta, dopo l'epoca del prefetto Mori, aveva messo a segno alcuni significativi successi.

 

Sono state le influenze mafiose che hanno indotto l'apparato dello Stato a ripiegare sui vecchi metodi, da sempre inefficaci? Le gelosie corporative dei magistrati? Le titubanze di una classe politica, condizionata da connivenze difficili da sciogliere? Una congiura sotterranea?

"Nessun complotto, nessun complotto. La verità è più semplice, più impalpabile, più desolante.

Quando nell' 84, grazie alle rivelazioni di Buscetta, furono emessi una serie di mandati, che sfociarono poi nel maxi- processo contro numerosi imputati, e caddero dai loro piedistalli personaggi eccellenti come l'ex sindaco Ciancimino e i potenti fratelli Salvo, il Time dedicò una copertina alla Sicilia, intitolata Break-down on the mafia (Colpo vincente sulla mafia). Ci stavamo muovendo, finalmente, con metodi in qualche modo comparabili a quelli messi in atto negli Stati Uniti contro Cosa nostra. Purtroppo, per una serie di ragioni, quello che avrebbe dovuto essere il primo colpo si è limitato ad essere l'unico".

 

Nessun complotto contro i pool Lei accenna ad una "serie di ragioni", ma le lascia nel vago. Vorrebbe essere più esplicito?

"Come le ho detto non si è trattato affatto di un complotto, ma, oserei dire, di una crisi di rigetto dalle molteplici origini. Non bisogna dimenticare che allora, ed anche dopo, vi era chi sosteneva la non esistenza della mafia come organizzazione complessa, coi suoi vertici, i suoi capi, i suoi gregari, un suo proprio dinamismo e strategia; e soprattutto una struttura molto forte e duratura. La visione riduttiva di una mafia essenzialmente molecolare, che proliferava grazie ad un clima diffuso ma contro cui vi era poco da fare, se non cercare, con poco successo, di perseguire di volta in volta i singoli delitti, cozzava con la filosofia del pool e dei maxi processi. Questa aveva anche fatto cadere anche tanti luoghi comuni, come l' impossibilità di utilizzare i pentiti o di arrivare ad individuare i colpevoli nei delitti di mafia. Venne, così, alimentata la preoccupazione che, se si seguitava con la strategia dei pool, si sarebbe lasciato via libera a una furia repressiva la quale, per combattere la mafia, avrebbe anche finito per travolgere ordinamenti stabiliti e tradizionali".

 

Forse avevate anche creato eccessive aspettative?

"Indubbiamente. Giocò anche contro di noi il timore di alcuni settori di partito che le inchieste si prestassero a speculazioni politiche. Si scatenò, quindi, una controffensiva di proporzioni gigantesche e alcune giuste critiche furono stravolte in accuse distruttive: il pool venne definito un centro di potere, le difficoltà naturali dei maxi processi vennero enfatizzate, gli errori commessi da altri magistrati in situazioni diverse (vedi caso Tortora) vennero strumentalizzate contro di noi, attacchi feroci vennero mossi al protagonismo dei giudici e, persino, all' uso delle scorte.

Tutto questo era espressione di una reazione naturale e spontanea, senza alcun bisogno di ricorrere a dietrologie, di un sistema basato su equilibri pietrificati. La stessa polemica di Sciascia nei confronti dei professionisti dell'antimafia venne letta come un attacco al pool".

 

Ma non può certo negare che oltre che con Orlando e i gesuiti, Sciascia ce l'avesse con il giudice Borsellino, che era il suo più stretto collaboratore ?

"Non lo nego affatto, ma ho sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. La sua critica ai criteri di nomina di Borsellino venne da altri enfatizzata proprio per colpire una innovazione rivoluzionaria, essenziale per condurre davvero la lotta alla mafia: quella di privilegiare nelle nomine di prima linea il criterio di professionalità sulle aspettative automatiche di carriera, basate sull' età. Ora Borsellino era stato nominato procuratore a Marsala in base al merito e non all' età. Sciascia osservò che i vecchi criteri andavano osservati, almeno fino a quando non ne fossero sanciti dei nuovi".

 

Aveva torto?

"Forse non aveva colto il valore esemplare di quella nomina. Certo, è evidente che di fronte ad un meccanismo automatico, la scelta professionale comporta il rischio di raccomandazioni e d' influenze anche politiche. Queste, peraltro, hanno altri mezzi per farsi sentire e non si possono esorcizzare i rischi facendosi scudo con l' anzianità. Se così fosse non si capisce cosa ci stia a fare il Csm: basterebbe un impiegato addetto all' aggiornamento del registro anagrafico dei magistrati.

Comunque è un grave handicap per la giustizia che certi posti decisivi vengano assegnati come premio e non in base alle esigenze del servizio. Del resto la storia della mia esperienza siciliana parla da sola: la nomina di Meli a consigliere istruttore di Palermo nell' ' 87 segnò la prima battuta d' arresto; poi seguì nell' ' 88 l'inchiesta del Csm su Borsellino e la vanificazione del pool. Quel nucleo di forze venne disperso. Subentrò la stanchezza e la delusione. Il terreno conquistato contro la mafia fu via via eroso. Frattanto, nel corso di queste laceranti vicende, i politici venivano affermando che il nuovo codice di procedura avrebbe messo a posto tutto".

 

E così non è stato?

"La questione centrale, che non riguarda solo la criminalità organizzata, sta nel trarre tutte le conseguenze sul piano dell'ordinamento giudiziario che il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio comporta. Se questa riforma dell' ordinamento non sopravviene rapidamente il nuovo processo è destinato a fallire. Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l'obbiettivo.

E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell' Esecutivo.

È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte. Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell' ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti".

 

L' investigazione deve fare un grande salto. Se non sbaglio si vuole un processo all' americana (come si vede nei film), ma con una magistratura assolutamente all' italiana. Nei processi di mafia il nuovo codice non ha, dunque, risolto nulla?

"Si può dire che siamo in una delicatissima fase di transizione in cui si contrappongono due concezioni, quelle che già si scontrarono sui pool, tra chi sostiene che ogni magistrato può essere titolare di ogni tipo d' indagine e chi, come il sottoscritto, reputa illusorio per questa via arrivare ad indagini con risultati processuali apprezzabili nei confronti di una criminalità organizzata che opera su scala nazionale e internazionale. Cosa facciamo? Seguitiamo a contrapporgli il procuratore di Patti o di S. Maria Capua Vetere, sol perché la polverizzazione individuale delle competenze della magistratura impedirebbe il suo condizionamento politico? E come rendere compatibile il coordinamento delle indagini tra una polizia con struttura sempre più centralizzata e una magistratura polverizzata nel territorio? Come arrivare a una strategia d' intervento su larga scala? Un passo in avanti mi sembra la recente proposta di concentrare le inchieste sulla criminalità organizzata dalle 159 procure presso i tribunali alle 26 procure presso la Corti d' Appello. Occorrerebbe ora orientarsi alla creazione di una struttura di procuratori esclusivamente dedicati a questo tipo d' indagini e processi".

 

Resta il fatto che i colpevoli non vengono scoperti o che i processi seguitino a concludersi con scarcerazioni e assoluzioni. Tutta colpa del nuovo codice?

"È un codice di altissima civiltà giuridica, ma, per renderlo pienamente operativo, non può essere lasciato monco delle indispensabili strutture materiali e di una riforma dell' ordinamento della magistratura, come ho cercato di spiegare. Del resto ce lo conferma proprio l' esperienza processuale. Il vecchio codice privilegiava il reato associativo, che, d' altra parte, era difficile da appurare quando si arrivava al dunque. Col nuovo codice bisogna provare soprattutto i delitti specifici, di cui l' associazione mafiosa costituisce il quadro di riferimento (già col maxi-processo ci eravamo attenuti alla ricerca dei delitti specifici su cui incardinare le accuse). Ma come arrivarci senza un grande salto di qualità e di organizzazione della capacità investigativa, atta ad individuare e provare i fatti specifici (quindi micro- spie, infiltrati, agenti sotto copertura, pentiti, sofisticate indagini patrimoniali e quant' altro)?"

 

L'utilizzazione dei pentiti è stata sovente disattesa dalle corti di seconda e terza istanza. Lei reputa ancora possibile la loro utilizzazione?

"Su questo punto ci sono state enormi polemiche che non toccano l'essenza del pentitismo come elemento probatorio. Sbaglia chi confonde i collaboratori di giustizia, gente che ammette i propri reati e chiama la correità di altri, con i delatori o gli informatori. È , comunque, materia di grande delicatezza su cui si gioca la professionalità del magistrato che deve vagliare nel concreto l' attendibilità delle dichiarazioni. Queste possono rivelarsi utilissime o creare problemi d' inquinamento probatorio di dimensioni incredibili. Sta al libero convincimento del giudice accertarne la fondatezza e cercare i riscontri: ad esempio Buscetta diceva il vero quando mi dichiarò che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi, ma per il mandato di cattura il necessario riscontro mi venne dalle indagini patrimoniali sull' accusato. Ciò detto ho fiducia nel programma di protezione dei pentiti che sta entrando in vigore anche da noi, speriamo con risultati utili".

 

È necessaria una specie di Fbi anche in Italia?

"Vorrei fare una premessa di carattere più generale sul rapporto magistratura-polizia: ebbene io credo che sia profondamente sbagliata la concezione, che si evince anche dal nuovo codice, secondo cui il Pm è il capo effettivo, addirittura operativo, della polizia giudiziaria. Si è confuso l' organo investigativo con l' organo dell' esercizio dell' azione penale. Il controllo di un Pm che indica alla polizia i modelli giuridici validi e ne controlla l' applicazione è una norma di civiltà, ma il timore che una polizia giudiziaria troppo indipendente possa ledere l' indipendenza della magistratura si è tradotto nella pericolosa e velleitaria utopia di un Pm, magari di prima nomina, superpoliziotto per diritto. È questa una delle cause della attuale situazione catastrofica, in cui la polizia giudiziaria è indotta a deresponsabilizzarsi, attende istruzioni e si appiattisce sull' inadeguatezza del Pm, divenuto punto di riferimento di ogni possibile errore".

 

Una sola agenzia addestrata e agguerrita Negli Stati Uniti una struttura a disposizione del procuratore nelle inchieste contro "Cosa nostra" è la cosiddetta "Strike force". Il gruppo interforze di cui si parla come di una futura Fbi italiana è qualcosa di analogo?

"Non direi: la forza d' urto americana è basata su una collaborazione interdisciplinare tra uomini delle varie agenzie (Fbi, antidroga, delitti fiscali, dogane, polizia territoriale). Da noi abbiamo tre organismi - Carabinieri, Ps e GdF - con competenze promiscue e indifferenziate. Si dice che questo esalta una concorrenza positiva ma non è vero niente: non serve a nessuno che tutti e tre lavorino sulle stesse indagini e questo provoca solo duplicazioni e intralci reciproci. Occorre puntare ad una agenzia investigativa, come c' è in tutti i paesi, un corpo bene addestrato e professionalmente agguerrito. Forse, però, sarebbe opportuno procedere per gradini intermedi, sulla base di una idea guida, iniziando con un coordinamento dei vertici e andando avanti con progressive modifiche per arrivare ad un corpo unico d' investigatori".

 

La trasmissione di Samarcanda-Costanzo ha lasciato, tra gli altri, qualche strascico polemico circa la sua posizione. Non le sembra il caso di chiarirla meglio?

"Posso solo dire che nutro sempre il timore che, a volte, il parlare di mafia, confondendo cose giuste e accuse generiche, possa concludersi con una glorificazione involontaria di Cosa nostra, la quale accresce la sua influenza quando le parole non sono seguite da fatti; allo stesso tempo, però, sono convinto che una delle maggiori spinte e aiuti alla lotta alla mafia venga dalla consapevolezza del fenomeno, dal coinvolgimento della opinione pubblica, dalle denunce della stampa e della Tv.

Dunque, più se ne parla e meglio è: a condizione che si abbia consapevolezza della responsabilità delle cose che si dicono".