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Gli assetti proprietari delle società quotate e delle banche italiane. La partecipazione nelle assemblee. Parte I

A. Gli assetti proprietari delle società quotate

Lo sviluppo del sistema capitalistico moderno si è basato in larghissima parte sulla creazione, da parte degli operatori del mercato, di società commerciali la proprietà delle quali viene determinata sulla base di un titolo rappresentativo del capitale conferito (cc.dd. società di capitali) . La facilità con cui tali titoli potevano essere commerciati ha comportato, insieme con l’attribuzione dell’amministrazione della società a soggetti strutturalmente diversi dai soci e il beneficio della responsabilità limitata all’apporto di capitale, una “spersonalizzazione” dell’attività imprenditoriale rispetto ai soggetti proprietari dell’impresa. La separazione che si viene quindi a creare diviene pertanto il principale nodo che il diritto societario è chiamato ad affrontare .

Un aspetto di particolare importanza, nell’elaborazione delle scelte di policy del legislatore societario, è costituito dall’individuazione di quale categoria di sistema finanziario sia applicabile alla realtà di un determinato Paese e, di conseguenza, quali possano essere le configurazioni degli assetti della proprietà azionaria delle società quotate. Solo una corretta analisi di questi temi consente infatti di modulare le scelte legislative in relazione al tessuto economico delle società di capitali.

In relazione alle modalità con cui le imprese e le società vengono finanziate, i sistemi finanziari sono distinti in:

(i) outsider financial systems, nei quali la fonte di finanziamento fondamentale è costituito dagli apporti di capitale di rischio da parte di investitori istituzionali o piccoli risparmiatori, veicolati verso le società da mercati borsistici particolarmente grandi e liquidi;

(ii) insider financial systems, che invece finanziano l’economia reale principalmente per mezzo del capitale di debito raccolto tra il pubblico dagli intermediari creditizi , con scarso sviluppo, quindi, del mercato borsistico.

Di regola a un sistema finanziario outsider è associata una proprietà azionaria “diffusa”, in cui cioè la proprietà azionaria delle società quotata è “dispersa” tra un numero estremamente grande di azionisti (c.d. public company); mentre a un sistema insider corrisponde una proprietà azionaria che può essere, rispettivamente, “ristretta” (nel caso in cui vi siano uno o più azionisti di riferimento, oltre a una rilevante parte di flottante) ovvero “chiusa” (se uno o più soggetti detengono una partecipazione azionaria di controllo). E’ notoriamente risaputo che al primo modello appartengono i Paesi dell’area anglosassone (principalmente gli Stati Uniti e il Regno Unito), mentre nel secondo vengono fatti rientrare i Paesi dell’Europa continentale .

Senza pretendere di entrare nelle specifiche peculiarità dei casi nazionali , balza subito agli occhi come la distinzione dei vari Paesi in relazione agli assetti proprietari ricalchi la tradizionale distinzione tra Paesi di common e civil law. Nel corso degli ultimi anni sono state avanzate alcune teorie per spiegare il perché di tale relazione. A tal proposito, ci limitiamo a citare le due che hanno attirato maggiormente il dibattito degli studiosi:

(i) La teoria c.d. law and finance , secondo la quale il grado di dispersione della proprietà dipende dal grado di protezione offerto dall’ordinamento giuridico agli azionisti di minoranza. La tesi si basa sull’assunto che i Paesi di common law riescano a garantire una protezione maggiore rispetto ai Paesi della civil law tedesca e a quelli scandinavi (che, a loro volta, tutelano di più le minoranze rispetto ai Paesi della civil law francese) . In tempi molto recenti, alcune delle risultanze empiriche che sostengono la dottrina sono state contestate .

(ii) La c.d. teoria politica della corporate governance , in base alla quale la maggiore concentrazione azionaria sarebbe il frutto dell’assetto politico tipico delle social democraties (in altri termini, dei Paesi a maggiore presenza di welfare state). L’influenza del sistema politico si scorgerebbe (i) nella maggiore pressione che la politica è in grado di esercitare sui manager delle società, con conseguente riduzione dei loro ambiti di discrezionalità nel perseguimento dell’obiettivo della massimizzazione del profitto per gli azionisti: ciò comporta un innalzamento dei costi d’agenzia tra amministratori e azionisti, a cui il sistema risponde mantenendo un azionista di controllo/riferimento come strumento per il monitoraggio/controllo di tali costi; (ii) nel maggiore timore, da parte della politica americana, di una grande concentrazione del potere finanziario, che ha favorito (per mezzo di provvedimenti come il National Banking Act del 1900) la frammentazione del sistema bancario su base statale; favorendo quindi l’assenza del “bancocentrismo” tipico dei Paesi a capitale concentrato e la necessità di ricorrere alla proprietà azionaria diffusa come mezzo di finanziamento .

I dati empirici dimostrano che l’Italia rientra pienamente nella categoria dei Paesi a capitale concentrato e con un sistema finanziario insider. Le maggiori specificità del sistema italiano, rispetto agli altri Paesi dell’Europa continentale, che sono state attribuite al sistema italiano sono: (i) uno scarso ammontare di partecipazioni possedute da intermediari finanziari; (ii) la presenza di strutture di gruppo “piramidali”, che tendono per loro natura ad ottenere un effetto di separazione della proprietà dal controllo . Le indagini degli ultimi mostrano come tale quadro, pur mantenendo le sue caratteristiche fondamentali, si sta lentissimamente modificando.

Azionisti di controllo/riferimento. Le analisi empiriche condotte dimostrano una riduzione della quota di capitale detenuta dagli azionisti rilevanti. Nel periodo 2005-2009 la media della partecipazione al capitale delle società del FTSE MIB degli azionisti cc.dd. strategici (cioè, che in modo diretto o indiretto esercitano il controllo sulla società) è stata del 44,87% , con una tendenza nel quadriennio preso in considerazione a una riduzione del valore medio (dal 49,03% al 44,87%) . La tendenza verso una maggiore dispersione dell’azionariato delle società quotate, seppure a ritmi molto lenti, è stata una caratteristica degli ultimi 15-20 anni: nel periodo 1996-2003, la quota posseduta dal primo azionista è passata dal 50% al 33,5%, mentre quella degli altri azionisti di riferimento è passata dal 10% all’ 11,6% , per un dato aggregato che mostra una riduzione del 14,9% (dal 60 al 45,1%), mentre tra il 2004-2006 i valori sono passati dal 32,7% per il primo azionista (13% per i rilevanti) al 27,5% (15%) , per una diminuzione aggregata del 3,2% (45,7-42,5%).

Dimensione del flottante. Un ulteriore indicatore della maggiore dispersione dell’azionariato delle società quotate è dato dalla dimensione del free float. Nel periodo 1996-2006 essa è, infatti, cresciuta dal 40% fino quasi al 55% .

Partecipazione delle istituzioni finanziarie. Nel 1996, le partecipazioni azionarie in società quotate posseduta da intermediari si attestavano al 13,74% (di cui il 9,53 da parte di banche, il 2,36 da assicurazioni, 0,76% da fondi comuni e l’1,09% da “altri”) . Nel corso degli anni successivi, il dato non sembra essersi di molto modificato: in particolare, l’evidenza che può essere maggiormente notata è la concentrazione degli investimenti degli intermediari nello stesso settore finanziario.

Nel periodo 1998-2006, infatti, la percentuale di partecipazioni rilevanti detenute dalle banche nel settore finanziario è passata dal 9,9% al 7,4%, mentre le partecipazioni nei settori industriale e dei servizi si è mantenuta sempre su valori inferiori all’1% (salvo per l’anno 2005, in cui la partecipazione nel settore industriale si era attestata all’1,5%) Peraltro, deve essere rilevato che tale valore è sceso sotto la soglia del 10% nel 2002 (9,1% rispetto al 10,9% del 2001) è andato costantemente calando fino al 7,4% del 2006.

Nel caso delle assicurazioni si assiste a un trend sostanzialmente assimilabile: tra il 2000 e il 2006, la percentuale di partecipazioni rilevanti nella finanza è passata dal 7% al 2,9%, mente la stessa percentuale nel settore industriale si è mantenuta tra lo 0,1% e lo 0,6%, punto massimo toccato nel 2004. Si nota quindi come, pur nella permanenza di una maggiore concentrazione delle partecipazioni azionarie detenute dal settore finanziario nel settore stesso, la tendenza sia verso una riduzione di tali forme d’investimento.

Le strutture piramidali e la separazione della proprietà dal controllo. Nel corso del decennio 1990-2000, le evidenze hanno mostrato una riduzione nell’utilizzo delle strutture piramidali e una conseguente riduzione del grado di complessità dei gruppi societari: se, nel 1990, il valore medio nei primi dieci gruppi non pubblici era di cinque livelli gerarchici, questo era sceso nel 2000 a un massimo di tre. Conseguentemente, si è assistito a una riduzione dell’effetto leva e quindi del livello di separazione tra proprietà e controllo : il valore è passato dal 2,4% all’1,8% .

A contribuire a una sostanziale decremento dell’effetto di separazione della proprietà dal controllo si aggiunge la rilevante riduzione dell’impiego delle azioni senza diritto di voto, passate nel periodo 1990-2007 dal 47% al 13% . Il dato interessante sottolineato dalla letteratura economica è la presenza di un trade-off, come modalità di controllo della società quotata, tra le strutture piramidali e la presenza di assetti coalizionali:le società quotate controllate da coalizioni formali (cioè, in presenza di un vero e proprio accordo tra gli azionisti che detengono almeno il 30% del voting capital) sono passate, nel periodo 1990-2007, dal 4,7 al 16%, mentre quelle controllate da coalizioni informali (definite sulla base dell’appartenenza alla stessa famiglia e/o dai comportamenti in sede di elezione del board)sono passate dal 5,6 all’11,7%, per un totale aggregato di quasi il 30% (corrispondente al 50% della capitalizzazione di borsa) . Sembra ragionevole presumere che il trade-off possa essere determinato dalla minore concentrazione della proprietà azionaria, specialmente in capo al primo azionista.

B. La proprietà delle banche quotate

Il principale avvenimento storico riguardante l’assetto proprietario delle principali banche italiane, negli ultimi vent’anni, è stata un’opera di privatizzazione del settore che ha portato lo Stato a scomparire totalmente dal novero dei soggetti partecipanti al capitale delle banche: nell’arco degli undici anni che vanno dal D.Lgs. 356/1990, che consentì la trasformazione delle banche pubbliche in SpA (c.d. privatizzazione formale), fino all’ultima privatizzazione bancaria sostanziale (il collocamento della terza tranche del capitale della BNL, nel dicembre 2001) lo Stato italiano ha dismesso completamente una presenza azionaria nel settore bancario valutabile intorno al 75% (e che rappresentava il 90% degli impieghi alle imprese e l’80% dei depositi ).

La privatizzazione del settore ha visto però il sorgere di un nuovo soggetto, le Fondazioni di origine bancaria (FOB), che ha assunto una posizione di particolare rilevanza in quanto azionista di maggioranza relativa in numerosi gruppi bancari. Un elemento non meno importante è stato il notevole consolidamento del settore, iniziato (e, in larga parte causato) dall’adozione del modello privatistico della S.p.A, e che si è concretizzato in una vasta serie di operazioni di fusione e acquisizione. Nel corso degli anni Novanta, sono avvenute 3 fusioni di grande importanza:

• Fusione tra Cassamarca e Cassa di Risparmio di Verona: costituzione di Unicredito (1995);

• Fusione tra il Credito Italiano (che aveva acquisito Rolo Banca 1473, anch’essa frutto di aggregazioni minori) e Unicredito (che aveva incorporato, nel frattempo, la Cassa di risparmio di Torino): costituzione di Unicredito Italiano (1998);

• Fusione tra l’Istituto San Paolo e l’IMI: nasce San Paolo IMI (1998), che successivamente acquista il Banco di Napoli.

L’opera di aggregazione è proseguita anche negli Anni Duemila: a metà del decennio, erano rinvenibili cinque grandi player: Unicredito Italiano, San Paolo IMI; Capitalia; Banca Monte dei Paschi di Siena. Questi diventeranno tre, con le fusioni del biennio 2006-2007 tra Unicredito Italiano e Capitalia (da cui nasce il Gruppo Unicredit) e tra Intesa e San Paolo IMI (da cui nasce il gruppo Intesa SanPaolo) .

La privatizzazione del settore ha comportato, con riguardo all’assetto proprietario delle banche quotate, un generale processo di riduzione della concentrazione della proprietà azionaria: nel periodo 1992-1996 (periodo, peraltro, che ha visto alcune tra le principali privatizzazioni bancarie della storia italiana ) il grado di concentrazione azionaria (misurato secondo l’indicatore della partecipazione del primo azionista, c.d. indice “c1”) si è ridotto del 14%, passando dal 55,8 al 41%: tale evidenza viene confermata dalla riduzione dell’indice “c3” (concentrazione data dalla somma dei tre principali azionisti) che passa dal 66,6 al 61,6% e dell’indice “c(art. 120 TUF)” che indica l’incidenza delle partecipazioni rilevanti (cioè, superiori al 2%) sul totale del capitale sociale, che scende dal 70,5 al 64,5% .

Il dato più interessante, relativo al periodo preso in esame, non attiene però tanto il grado di concentrazione della proprietà in termini assoluti, quanto in termini relativi (id est, in relazione al novero delle società quotate): nel 1996, l’indice “c1” delle società quotate si attestava al 47,3%, circa sei punti in più del dato relativo agli istituti di credito quotati : tale caratteristica sembra frutto, a nostro modesto avviso, delle modalità di privatizzazione delle banche pubbliche occorse nel quadriennio di riferimento, che in quattro casi su cinque è avvenuta per mezzo di collocamento in borsa e solo in un caso con trattativa privata .

Nel corso degli anni Duemila, tale situazione di fatto non sembra essersi modificata: nel 2006, l’indice “c1” e “c3” per le banche quotate era rispettivamente del 26,3% e del 39%, mentre per le quotate non finanziarie i medesimi indici erano del 45,1% e del 53,6% (dato che testimonia, peraltro, la tendenziale diluizione della proprietà azionaria nella quotate che abbiamo constatato nella precedente sezione). In particolare, Le FOB continuano a mantenere un ruolo estremamente rilevante: tale valore è cresciuto dal 12,5 del 1990 fino al 18,6% del 2007 .

Inoltre, le stesse concentrano totalmente i loro investimenti in azioni quotate nel settore bancario: tale valore, infatti, si attesta al 5,5% del totale delle società quotate, con assenza di partecipazioni in società non finanziarie . Le evidenze potrebbero indurre a ritenere che le FOB possano svolgere un funzione di “nocciolo duro” in seno agli assetti proprietari bancari che, dalla privatizzazione del settore, si sono lentamente orientati verso un modello di proprietà “ristretta” piuttosto che “chiusa”.

Di estremo interesse è verificare l’ingresso di investitori esteri nel capitale delle banche italiane: assumendo come periodo di riferimento il 1990-2007, si nota come tale presenza sia di molto cresciuta tra il 1990 e il 1998 (dal 1,8 all’8,5%) per poi declinare leggermente al 6,1% nel 2007 . Qualche riflessione può essere indotta dal confronto con le politiche d’investimento tenute dai foreign investors verso le società non finanziarie: nel periodo 1990-1998: il dato mostra una leggera diminuzione (6,7-4,9%), a fronte di un notevole incremento nel 1998-2007 (12%).

Per spiegare tale andamento, si potrebbe ipotizzare che la maggiore protezione alle minoranze azionarie offerte dall’entrata in vigore del TUF possa avere spinto gli investitori stranieri non solo a investire maggiormente sul mercato italiano (dato peraltro evidenziato da alcuni autori ) ma anche a diversificare il loro portafoglio d’investimento azionario. Allo stato attuale (dati aggiornati al 2009) la presenza di investitori istituzionali esteri nel capitale delle banche quotate nel FTSE MIB è del 26,97% (rispetto a una media del FTSE MIB del 24,25%): il dato viene commentato da alcuni autori notando come sussista una relazione inversa (con riguardo all’intero indice FTSE MIB) tra partecipazione degli investitori istituzionali esteri e grado di concentrazione azionaria: difatti, la percentuale di capitale posseduta dagli azionisti core nel settore bancario è del 42,08%, mentre la media è del 44,87%.

In conclusione, diviene interessante verificare alcune delle tendenze che abbiamo sopra menzionato con un’analisi dell’azionariato delle banche quotate aggiornata all’anno in corso . Sul campione delle 24 banche ammesse alla negoziazione,

• in 10 casi è presente un controllo di diritto e quindi una struttura proprietaria chiusa (41,66% del campione);

• Nell’ambito della categoria della struttura azionaria di riferimento sono presenti 4 casi, di cui uno a controllo familiare (diversi membri della stessa famiglia, la cui percentuale si attesta al 61%). La percentuale sul totale del campione è del 16,66%;

• Una struttura tendenzialmente frammentata (per quanto non con le percentuali di possesso azionario tipiche della public company anglosassone ), in cui rientrano 4 casi (16,66%);

• Sei banche popolari, che sono state separate dalla categoria precedente per via del loro peculiare assetto (25%).

Per quanto attiene in particolare il ruolo delle FOB, esse detengono il 6,53 % delle partecipazioni rilevanti negli istituti quotati (si va da un valore di 0, invero, per molte banche fino a un massimo di cinque). Il dato viene influenzato ovviamente dalla presenza di numerose banche (16) in cui le FOB non sono presenti; in quanto queste, come S.p.A., non sono sorte in applicazione del processo di privatizzazione dettato dalle leggi Amato-Ciampi: la loro partecipazione diviene infatti apprezzabile nelle principali banche-capogruppo quotate per capitalizzazione , ove detengono l’80% delle partecipazioni. In queste società bancarie, le FOB controllano una partecipazione media (semplice) del 7,41%, rispetto a una partecipazione media degli altri soggetti partecipanti del 3,73%. Inoltre, in due casi su cinque una FOB è anche l’azionista di maggioranza relativa della banca.

Anche alla luce dell’iter storico della “de-pubblicizazzione” del settore del credito, ci sembra difficile ritenere che vi sia stato una specifica intentio legislatoris nel creare un noyeau dur intorno alle FOB : è molto più probabile che il fenomeno sia da imputare al consolidamento del settore avvenuta successivamente alla privatizzazione, circostanza che risulta provata dal fatto che le cinque maggiori banche-capogruppo sono state anche quelle maggiormente oggetto di tale fenomeno, come abbiamo visto sopra.

Il valore medio del flottante, nel campione di riferimento, è del 47,53%: l’evidenza dimostra come, con un free float, addirittura inferiore alla maggioranza delle azioni negoziate sui mercati, la contendibilità della banca e quindi il meccanismo del mercato per il controllo societario diventa, nella maggior parte dei casi, estremamente difficile. Tale difficoltà viene poi ulteriormente accresciuta, nelle quattro banche ad azionariato tendenzialmente frammentato (le uniche, quindi, in cui un eventuale market for corporate control potrebbe essere efficace), dalla presenza di sindacati di blocco ovvero di previsioni statutarie che limitano a una percentuale prefissata (spesso, molto bassa) il diritto di voto .

Tale dato comprende le banche popolari, che per loro assetto istituzionale , tendono ad avere una struttura azionaria estremamente frammentata: se eliminiamo dal campione tali soggetti, il valore in esame scende fino al 35,11%. Risultano quindi rinforzate tutte le possibili perplessità sull’utilizzo del market for corporate control come strumento di pressione sul management bancario da parte di eventuali azionisti di minoranza.

In conclusione, le evidenze dimostrano che le società bancarie non si discostano grandemente dalle altre società quotate sotto il profilo della struttura azionaria. Come abbiamo visto sopra, il grado di concentrazione (prendendo a parametro i cc.dd. azionisti strategici) non si discosta molto rispetto alla media del FTSE MIB; e anche nei quattro casi in cui la struttura proprietaria tende a essere maggiormente frammentata, le percentuali non sono equiparabili all’”archetipo” della public company. Inoltre, i dati dimostrano che il settore bancario ha seguito i principali andamenti che si sono verificati, negli ultimi vent’anni, negli assetti proprietari delle società quotate in Borsa:

(i) una generale “diluizione” delle partecipazioni di controllo/riferimento;

(ii) un massiccio utilizzo degli accordi parasociali : ai sensi dell’art. 122 TUF, sono stati comunicati alla CONSOB 13 patti parasociali, per una percentuale sul campione del 54,16%;

(iii) una dimensione del flottante che si mantiene intorno al 50%, con difficoltà all’azione del market for corporate control. A nostro giudizio, il principale elemento d’interesse rimane l’importante presenza di un particolare soggetto come le FOB nell’azionariato di molti importanti istituti; dal momento che le stesse, essendo dei soggetti omogenei sia sotto il profilo strutturale che dei fini che sono chiamate a perseguire, possono prestarsi a un ruolo, se non di vero e proprio “nocciolo duro” (quindi con veri e propri ruoli di gestione, peraltro vietati dalla legge ex art. 3 cc.1,3 D. Lgs. 153/99), di “tutori” della proprietà azionaria della banca quotata.

C. La partecipazione assembleare

I dati empirici più recenti dimostrano come, quasi in parallelo con quanto è accaduto negli assetti proprietari, sia in corso una progressiva erosione del dato strutturale della scarsa partecipazione degli azionisti di minoranza ai lavori assembleari .

Nel periodo 2005-2009, si è assistito a un aumento della “intensità di partecipazione” (cioè, il rapporto tra capitale posseduto da una categoria di azionisti e quello portato in assemblea) delle minoranze azionarie, che è passato dal 16,15 al 21,11%. Come sembra logico attendersi, la maggiore partecipazione delle minoranze si rinviene nei settori in cui la concentrazione risulta maggiormente diluita: nei settori ove si registra una minore preponderanza degli azionisti core , infatti, le evidenze sottolineano anche una partecipazione del free float alle assemblee maggiore del dato medio del FTSE MIB (10,86%) . In particolare, è proprio il settore bancario a fare la parte del leone, in quanto la deviazione rispetto alla media segna un + 4,44% (15,30%).

Tale dato consente di affermare che; come abbiamo visto nel campo della partecipazione azionaria, anche in tema di general meeting attendance sussista una relazione inversa tra livello di concentrazione della proprietà della società quotata e grado d’intervento dei soggetti esteri. In entrambi i casi, sembra abbastanza ragionevole ritenere, come interpretato da alcuni , che il fenomeno sia da imputare alla maggiore possibilità di influire sulle determinazioni assembleari e, quindi, sulla vita della società. Il settore bancario, da questo punto di vista, sembra porre un’eccezione alla regola: pur essendo la sezione del listino FTSE MIB con la maggiore presenza di azionariato disperso (come abbiamo visto sopra), nello stesso si può riscontrare sia la maggiore intensità che la maggiore incidenza di partecipazione da parte di investitori istituzionali italiani (rispettivamente, il 48,02 e il 13%).

Tale dato potrebbe essere spiegato da due peculiarità del settore: da un lato, la presenza degli istituti di credito popolari, in cui la frammentazione dell’azionariato è un dato tendenzialmente ontologico; dall’altro, la presenza di quella particolare categoria di investitori istituzionali costituita dalle FOB.

L’aumento della partecipazione delle minoranze che abbiamo constatato è stata sostenuta, in particolare, dalla maggiore presenza degli investitori stranieri: la loro incidenza media sul capitale rappresentato è passata dal 6,4% al 16,10% nel periodo di riferimento. Il dato compensa, una riduzione significativa della presenza di investitori nazionali: mentre gli investitori retail hanno mantenuto sostanzialmente inalterata il loro molto basso tasso d’incidenza (dall’1,33 all’1,30%); il calo maggiore si è accusato nella componente istituzionale, passata dal 7,14% al 5,10% .

La tendenza viene confermata anche dall’intensità di partecipazione delle categorie menzionate: (i) per gli investitori esteri si passa dal 16,03% al 37,10%; (ii) per gli investitori istituzionali italiani dal 31,65% al 21%; per gli azionisti italiani retail dal 2,74 al 3,40% .

Le posizioni espresse da alcuni organismi comunitari e internazionali , particolarmente interessate alle best practices degli investitori istituzionali nei confronti delle “società-portafoglio”, è stata la principale “spia” della teoria, a lungo diffusa, che solo questi soggetti sono in grado di assicurare il monitoraggio necessario per l’accountability di CdA e management. Solo loro, infatti, -secondo i sostenitori della teoria- avendo la sufficiente esperienza tecnica e viste le somme investite nelle società target, possono fungere da “contraltare” all’”apatia razionale” dei piccoli investitori e alla (per loro, di gran lunga preferibile) Wall Street Rule.

Una recente indagine si è occupata, in particolare, di una categoria di investitori istituzionali che hanno suscitato un notevole interesse negli ultimi anni, i c.d. fondi sovrani (sovereign wealth funds, SWFs): essa ha mostrato come i SWFs tendono ad assumere partecipazioni “di peso” nelle società target: la media delle partecipazioni rilevanti (cioè, superiori al 4%) sul campione dei sei principali SWF si attesta intorno al 14,82%.

Lo studio, a causa della scarsa partecipazione di molti dei SWFs “censiti”, non riporta dati specifici sulla presenza in assemblea, ma raduna alcune evidenze aneddotiche, ottenute per mezzo della collaborazione dei SWFs che hanno risposto ai questionari inviati ovvero grazie alle risposte ricevute delle società partecipate: in relazione ai 20 principali blockholding dei sei SWFs citati, sussistono 12 risposte.

Su tale numero, in 6 casi i rispondenti hanno affermato che il SWFs partecipa, votando, ai lavori assembleari . Pur nella frammentarietà e nella incompletezza dei dati, sembra possibile affermare che i “fondi sovrani” tendono ad essere azionisti tutt’altro che passivi. E’ inoltre da sottolineare che nel novero delle partecipazioni censite si contano 6 istituti bancari, e che tra questi in 2 casi si è avuta notizia di interventi assembleari.

Allo stato attuale, manca uno studio organico sul livello di attendance degli investitori istituzionali che possa supportare la policy perseguita delle istituzioni internazionali: le scarse indicazioni che la letteratura offre sono (un po’ come abbiamo visto per lo studio sui SWFs) sono in larga parte aneddotica e in generale indicano una notevole riduzione di quella passività - che generalmente si sostanziava nell’utilizzo della Wall Street Rule - che era considerata il tradizionale approccio degli investitori alle vicende sociali . In tempi recenti, una parte della dottina ha stimato una percentuale di deleghe “votate”, per la proxy season 2004, intorno al 98%. A sostenere tale linea di policy non sono tanto i dati di meeting attendance, quanto piuttosto altre forme di attivismo che, in molti casi, presuppongono un coinvolgimento nei lavori assembleari: ma di questo tema tratteremo nella prossima sezione.

Sull’importanza delle società di capitali (e in particolare di quelle per azioni) v. FERGUSON, Ascesa e declino del denaro. Una storia finanziaria del mondo, Milano, 2008, p. 92 ss.

Tale peculiarità delle società di capitali viene tradizionalmente indicata con il nome di “struttura corporativa”, cfr. G.F CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2002, pp. 150 ss.

Sul tema si rimanda al tradizionale lavoro di BERLE-MEANS, The modern corporation and private property, New York (NY), 1932.

[1] Normalmente, in questo tipo di sistemi, anche l’autofinanziamento delle imprese gioca un ruolo particolarmente rilevante. Per il caso italiano, v. i dati empirici relativi all’ultimo decennio nella Relazione Annuale Consob 2009, p. 7.[1] Per una completa e aggiornata trattazione degli assetti proprietari v. The control for corporate Europe (a cura di BARCA-BECHT), Londra, 2002. Cfr., inoltre, LA PORTA-LOPEZ DE SILANES, SHLEIFER, Corporate ownership around the world, in (54) Journal of Finance, 1999, 471 ss  (che rileva come la proprietà azionaria concentrata sia il modello preponderante nei 27 Paesi più ricchi del mondo)[1] Ad es., il modello di azionariato disperso dei Paesi anglosassoni si caratterizza, nel caso degli USA, per un notevole potere del management (v. le considerazioni di KRAAKMAN et alDiritto societario comparato, Bologna, 2006,…); mentre nel Regno Unito sono gli investitori istituzionali ad assumere un maggior ruolo decisionale, per quanto limitato e posto in essere specialmente (i) nelle situazioni di crisi aziendale ovvero, in bonis, (ii) per mezzo di contatti informali tra investitori e management (c.d. jawboning) (v. BLACK-COFFEE, Hail Britannia?: insitutional investor behavoir under limited regulation, in (92) Michigan Law Review, 1993-1994, p. 2005: gli stessi Autori rilevano a p. 2002 forse la ragione delle maggiori possibilità di manovra degli investitori istituzionali oltre alla regolamentazione meno

[1] Cfr. LA PORTA-LOPES DE SILANES-SHLEIFER-VISHNY, Law and Finance, in (106) Journal of Political Economy, 1998, p. 1113 ss.

L’assunto della tesi si basa sull’elaborazione del c.d. antidirectors rights index (ADRI), composto da sei diritti tradizionalmente considerati strumento di tutela delle minoranze azionarie: (i) possibilità di utilizzare il voto per delega; (ii) assenza di obblighi di deposito delle azioni per poter votare in assemblea; (iii) meccanismi di rappresentanza proporzionale nel board; (iv) presenza di derivative suits ovvero obbligo di riacquisto delle azioni della minoranza in caso di operazioni straordinarie; (v) diritto di prelazione sulle nuove emissioni azionarie; (vi) basse perecentuali richieste per la convocazione di un’assemblea straordinaria. v. p. 1127-1128.

In particolare, le critiche hanno riguardato il grado di “raffinatezza” dell’indagine metodologica e, di conseguenza, le stesse conclusioni di La Porta et al.. Tra tutti, v. SPALMANN, The <<antidirector rights index>> revisited, in (23) Review of financial studies, 2010, p. 467 ss.

Tale tesi può essere sostanzialmente attribuita al Professor Mark Roe dell’Università di Harvard, v. Political derterminants of corporate governance, Londra, 2003.

Per una critica di questa ricostruzione, con argomenti difficilmente controvertibili v. COFFEE, Dispersed owneship: the theories, the evidence and the enduring tension between <<lumpers>> and <<splitters>>, ECGI law working paper n. 144/2010, pp. 19-24. La considerazione contraria alla “teoria politica” deriva forse proprio dall’esperienza politica dell’altro Paese a capitale diffuso, il Regno Unito, che è stato dominato da un partito di ispirazione socialdemocratica, il Partito Laburista, proprio nel periodo 1945-1975 che ha visto il completamento della dispersione azionaria (cfr. CHEFFINS, Corporate ownership and control: British business transfrormed, Londra, 2008, pp. 47-51, citato da COFFEE, Dispersed ownership, cit., p. 23). In verità, a ulteriore supporto dell’argomento, va rimarcato che l’influenza del Partito Laburista sulla politica inglese è anche precedente alla Seconda guerra mondiale, avendo lo stesso partecipato a entrambi i governi di unità nazionale durante le due guerre mondiali e che questo ha governato sia nel 1924 (governo di coalizione con i Liberali) che nel 1929-1931 (cfr. http://www2.labour.org.uk/history_of_the_labour_party).

V. BIANCHI-BIANCO-ENRIQUES, Pyramidal groups and the separation of ownership and control in Italy, in The control for corporate Europe, cit., p. 154.

V. Evoluzione degli assetti proprietari e attivismo assembleare delle minoranze, GEORGESON-LUISS Ceradi, p. 15 disponibile al sito http://www.archivioceradi.luiss.it/ricerche-ceradi/pdf/FTSE_MIB_-_Evoluzione_degli_assetti_proprietari_ed_attivismo_assembleare_delle_minoranze.pdf

Evoluzione degli assetti proprietari, cit., p. 17.

Relazione Annuale CONSOB 2003, p. 81. In particolare, si è registrato un vero e proprio picco nel biennio 1997-1998, in cui il valore del primo azionista era sceso sino al 32%: tale fenomeno è stato provocato dalle privatizzazioni avvenute mediante IPO (cfr. Relazione Annuale CONSOB 1999, p. 45)

Relazione Annuale CONSOB 2006, p. 132.

Relazione Annuale CONSOB 2006, p. 132

BIANCHI-BIANCO-ENRIQUES, Pyramidal groups and the separation of ownership and control in Italy, cit., p. 172.

Relazioni Annuali CONSOB per gli anni di riferimento. Peraltro, deve essere rilevato che tale valore è sceso sotto la soglia del 10% nel 2002 (9,1% rispetto al 10,9% del 2001) è andato costantemente calando fino al 7,4% del 2006.

Il valore viene definito come il rapporto tra unità di capitale controllato (in termini di diritti di voto in assemblea ordinaria) e unità di capitale posseduto ( cioè, diritti sui flussi di cassa riferibili all’azionista di controllo).

Relazione Annuale CONSOB 2000, pp. 50-51.

BIANCHI et al., The evolution of ownership and control structure in Italy in the last 15 years, 2008, Tavola 8, disponibile al sito http://www.bancaditalia.it/studiricerche/convegni/atti/corp_gov_it/session1/evolution_ownership_control_structures.pdf

BIANCHI et al., The avolution of ownership and control, cit, Tavola 10.

V. ZAZZARO, Assetti proprietari delle banche e attività economica, in Analisi giuridica dell’economia, vol. 3 (1), 2004, p. 11

BARUCCI-PIEROBON, Le privatizzazioni in Italia, Roma, p. 56.

Per una ricostruzione dei processi aggregativi dello scorso ventennio v. GIANI, Ownership and control of italian banks: a short inquiry into the roots of the current context, in (6) Corporate ownership and control, 2008, p. 22 ss.

Nel periodo menzionato avvennero la privatizzazione di due delle tre “banche d’interesse nazionale” controllate dall’IRI, la Comit nel 1994 e il Credito Italiano nel 1993, insieme con la privatizzazione dell’IMI, avvenuta in tre tranches tra il febbraio 1994 e il luglio 1996. Il controvalore delle operazioni è stato stimato in 4.582.000.000 € (BARUCCI-PIEROBON, Privatizzazioni, cit., pp. 28-29).

BIANCHI-DI BATTISTA-LUSIGNANI, Assetto proprietario e performance delle banche italiane, in Banca, Impresa e Società, vol. 17, 1998, pp. 96-97.

BIANCHI-DI BATTISTA-LUSIGNANI, Assetto proprietario, cit., p. 96.

BARUCCI-PIEROBON, Privatizzazioni, cit., p. 28, 30. Nel caso di specie; Comit, Credito Italiano, e la prima e la terza tranche dell’IMI furono effettuate mediante offerte pubbliche di vendita, mentre fu la seconda tranche delle azioni IMI ad essere state vendute per trattativa privata.

BIANCHI-BIANCO, Relazioni proprietarie tra banche e imprese: alcune evidenze empiriche, relazione presentata alla terza conferenza annuale della Società Italiana di Diritto ed Economia (Milano, 9-11 novembre 2007), disponibile al sito: http://www.side-isle.it/ocs/viewpaper.php?id=52&cf=1. Lo studio rileva come la concentrazione proprietaria delle banche italiane sia superiore a quelle delle altre economie principali dell’Europa continentale (Francia, Germania e Spagna), non tanto in relazione all’indice “c1” quanto all’indice “c3” e “c (art. 120 TUF)”

BIANCHI et al., The evolution of ownership and control, cit., Tavola 14b)

BIANCHI-BIANCO, Relazioni proprietarie, cit., pp. 7-8.

BIANCHI-BIANCO, Relazioni proprietarie, cit., Tavola 4. A differenza dei dati precedentemente citati, qui i valori sono medie ponderate per la capitalizzazione di borsa.

BIANCHI et al., The avolution of ownership and control, cit., p.7 e Tavola 12.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 22-24.

Il dataset è formato dalla documentazione su (i) composizione delle partecipazioni rilevanti nell’azionariato dell’istituto, (ii) patti di sindacato comunicati alla CONSOB ex art. 122 TUF; (iii) partecipazioni rilevanti detenute dalla banca quotata ex art. 120 TUF, disponibile al sito: http://www.consob.it/main/emittenti/societa_quotate/index.html#, consultato nel mese di settembre 2010. I dati sulla dimensione del flottante (partecipazioni inferiori alla soglia del 2%) sono forniti da Borsa Italiana (cfr. http://www.borsaitaliana.it/borsa/azioni/settori/lista.html?indexCode=IT8300&x=24&y=7).

Il valore medio delle partecipazioni rilevanti nelle quattro banche “frammentate” è 3,84% (si va da un minimo del 2,33% a un massimo del 4,72%)

La seguente è la capitalizzazione dei primi cinque gruppi bancari italiani (Fonte: http://it.finance.yahoo.com aggiornato al 24/8/2010): UniCredit (36,52 mld €); Intesa SanPaolo (26,45 mld €); Mediobanca (5,34 mld €); Banca MPS (4,98 mld €); (5) UBI Banca (4,54 mld €).

BARUCCI-PIEROBON, Privatizzazioni, cit., pp. 78 ss. (in particolare, v. p. 96) fanno rilevare come il tentativo di costituire un “nocciolo duro” per le società privatizzate sia stato compiuto solo in alcuni casi, e soprattutto nella prima fase del processo.

Cfr. ad es., lo Statuto di Unicredit, art. 5 c. 16.

Ci si riferisce al divieto di possedere più dello 0,5% del capitale sociale, a norma dell’art. 30 c. 2 del TUB.

Data la storia delle principali banche ex-pubbliche, ci sembra difficile ritenere che in questo caso l’impiego di tali accordi sia stata una conseguenza dell’abbandono delle strutture piramidali. Nel caso di specie, tale andamento è probabilmente legato alla necessità, per gli azionisti core, di mantenere il controllo sulla società pur aprendosi ad apporti di capitale di rischio “esterni”, sfruttando le riforme (introduzione del TUF e riforma Vietti) che ne hanno sancito definitivamente la liceità.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 28 ss.

Si vedano le considerazioni esposte nei rapporti nazionali relativi ai paesi a capitale concentrato raccolti nel volume Shareholders votino rights and practice in Europe and US (a cura di BAUMS-WYMEERSCH), Londra, 1999 (in particolare la minima partecipazione nelle assemblee francesi, p. 102; la delega di voto “meccanica” alle tre principali banche per gli azionisti tedeschi, pp. 113-115; i rapporti tra numero totale degli azionisti e azionisti presenti all’assemblea annuale di approvazione del bilancio in Italia (esercizio 1997), p. 167). La scarsa partecipazione degli azionisti non di controllo (cioè, non in grado di esercitare un’influenza notevole sull’assemblea) viene constatata empiricamente (dati relativi alla proxy season 2000) anche dalla ricerca di BELCREDI-BELLAVITE PELLAGRINI-PENATI, Le assemblee delle società quotate: un’indagine empirica, in L’assemblea delle società quotate in un mondo che cambia (Quaderno di documentazione e ricerca Assogestioni n.24), aprile 2001, p. 43.

Difatti il settore bancario è, secondo la survey citata, quello in cui si ha il livello più basso di voting power (cioè, il peso percentuale delle categorie di azionisti nell’evento assembleare) espresso dagli azionisti strategici: 65,80% rispetto al 70% medio del FTSE MIB.

Il dato (c.d. quorum ex azionisti strategici) indica il quorum costitutivo dell’assemblea al netto della presenza, appunto, degli azionisti strategici.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., p. 39.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 32-34.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 35-38.

Si fa riferimento in primis ai Principi di Governo Societario dell’OCSE (2004), Parte II §§ F,G e relative explanatory notes, insieme con il green paper della Commissione Europea “Corporate governance in financial institutions and remuneration policies”, pp. 8, 16.

IRRC Institute-RiskMetrics, An Analysis of Proxy Voting and Engagement Policies and Practices of the Sovereign Wealth Funds, ottobre 2009, disponibile al sito http://www.irrcinstitute.org/pdf/Sovereign_Wealth_Funds_Report-October_2009.pdf

Abu Dhabi Investment Authority (ADIA); China Investment Corporation (CIC); Government of Singapore Investment Corporation (GIC); Kuwait Investment Authority (KIA); Qatar Investment Authority (QIA); Temaseek (Singapore)

Le altre tipologie di attività censite rientrano nel c.d. shareholder’s activism, di cui ci occuperemo infra.

Cfr. PALMITER, Mutual funds voting of portaolio shares: why not disclose?, in (23) Cardozo Law Review, 2002, pp. 1430-1436.

ROTHBERG-LILIEN, Mutual fund and proxy voting: new evidence on corporate governance, in (1), Journal of Business and Technology Law, 2006, pp. 166-167. I dati si riferiscono a una media sui primi cinque mutual funds statunitensi.

  A. Gli assetti proprietari delle società quotate

Lo sviluppo del sistema capitalistico moderno si è basato in larghissima parte sulla creazione, da parte degli operatori del mercato, di società commerciali la proprietà delle quali viene determinata sulla base di un titolo rappresentativo del capitale conferito (cc.dd. società di capitali) . La facilità con cui tali titoli potevano essere commerciati ha comportato, insieme con l’attribuzione dell’amministrazione della società a soggetti strutturalmente diversi dai soci e il beneficio della responsabilità limitata all’apporto di capitale, una “spersonalizzazione” dell’attività imprenditoriale rispetto ai soggetti proprietari dell’impresa. La separazione che si viene quindi a creare diviene pertanto il principale nodo che il diritto societario è chiamato ad affrontare .

Un aspetto di particolare importanza, nell’elaborazione delle scelte di policy del legislatore societario, è costituito dall’individuazione di quale categoria di sistema finanziario sia applicabile alla realtà di un determinato Paese e, di conseguenza, quali possano essere le configurazioni degli assetti della proprietà azionaria delle società quotate. Solo una corretta analisi di questi temi consente infatti di modulare le scelte legislative in relazione al tessuto economico delle società di capitali.

In relazione alle modalità con cui le imprese e le società vengono finanziate, i sistemi finanziari sono distinti in:

(i) outsider financial systems, nei quali la fonte di finanziamento fondamentale è costituito dagli apporti di capitale di rischio da parte di investitori istituzionali o piccoli risparmiatori, veicolati verso le società da mercati borsistici particolarmente grandi e liquidi;

(ii) insider financial systems, che invece finanziano l’economia reale principalmente per mezzo del capitale di debito raccolto tra il pubblico dagli intermediari creditizi , con scarso sviluppo, quindi, del mercato borsistico.

Di regola a un sistema finanziario outsider è associata una proprietà azionaria “diffusa”, in cui cioè la proprietà azionaria delle società quotata è “dispersa” tra un numero estremamente grande di azionisti (c.d. public company); mentre a un sistema insider corrisponde una proprietà azionaria che può essere, rispettivamente, “ristretta” (nel caso in cui vi siano uno o più azionisti di riferimento, oltre a una rilevante parte di flottante) ovvero “chiusa” (se uno o più soggetti detengono una partecipazione azionaria di controllo). E’ notoriamente risaputo che al primo modello appartengono i Paesi dell’area anglosassone (principalmente gli Stati Uniti e il Regno Unito), mentre nel secondo vengono fatti rientrare i Paesi dell’Europa continentale .

Senza pretendere di entrare nelle specifiche peculiarità dei casi nazionali , balza subito agli occhi come la distinzione dei vari Paesi in relazione agli assetti proprietari ricalchi la tradizionale distinzione tra Paesi di common e civil law. Nel corso degli ultimi anni sono state avanzate alcune teorie per spiegare il perché di tale relazione. A tal proposito, ci limitiamo a citare le due che hanno attirato maggiormente il dibattito degli studiosi:

(i) La teoria c.d. law and finance , secondo la quale il grado di dispersione della proprietà dipende dal grado di protezione offerto dall’ordinamento giuridico agli azionisti di minoranza. La tesi si basa sull’assunto che i Paesi di common law riescano a garantire una protezione maggiore rispetto ai Paesi della civil law tedesca e a quelli scandinavi (che, a loro volta, tutelano di più le minoranze rispetto ai Paesi della civil law francese) . In tempi molto recenti, alcune delle risultanze empiriche che sostengono la dottrina sono state contestate .

(ii) La c.d. teoria politica della corporate governance , in base alla quale la maggiore concentrazione azionaria sarebbe il frutto dell’assetto politico tipico delle social democraties (in altri termini, dei Paesi a maggiore presenza di welfare state). L’influenza del sistema politico si scorgerebbe (i) nella maggiore pressione che la politica è in grado di esercitare sui manager delle società, con conseguente riduzione dei loro ambiti di discrezionalità nel perseguimento dell’obiettivo della massimizzazione del profitto per gli azionisti: ciò comporta un innalzamento dei costi d’agenzia tra amministratori e azionisti, a cui il sistema risponde mantenendo un azionista di controllo/riferimento come strumento per il monitoraggio/controllo di tali costi; (ii) nel maggiore timore, da parte della politica americana, di una grande concentrazione del potere finanziario, che ha favorito (per mezzo di provvedimenti come il National Banking Act del 1900) la frammentazione del sistema bancario su base statale; favorendo quindi l’assenza del “bancocentrismo” tipico dei Paesi a capitale concentrato e la necessità di ricorrere alla proprietà azionaria diffusa come mezzo di finanziamento .

I dati empirici dimostrano che l’Italia rientra pienamente nella categoria dei Paesi a capitale concentrato e con un sistema finanziario insider. Le maggiori specificità del sistema italiano, rispetto agli altri Paesi dell’Europa continentale, che sono state attribuite al sistema italiano sono: (i) uno scarso ammontare di partecipazioni possedute da intermediari finanziari; (ii) la presenza di strutture di gruppo “piramidali”, che tendono per loro natura ad ottenere un effetto di separazione della proprietà dal controllo . Le indagini degli ultimi mostrano come tale quadro, pur mantenendo le sue caratteristiche fondamentali, si sta lentissimamente modificando.

Azionisti di controllo/riferimento. Le analisi empiriche condotte dimostrano una riduzione della quota di capitale detenuta dagli azionisti rilevanti. Nel periodo 2005-2009 la media della partecipazione al capitale delle società del FTSE MIB degli azionisti cc.dd. strategici (cioè, che in modo diretto o indiretto esercitano il controllo sulla società) è stata del 44,87% , con una tendenza nel quadriennio preso in considerazione a una riduzione del valore medio (dal 49,03% al 44,87%) . La tendenza verso una maggiore dispersione dell’azionariato delle società quotate, seppure a ritmi molto lenti, è stata una caratteristica degli ultimi 15-20 anni: nel periodo 1996-2003, la quota posseduta dal primo azionista è passata dal 50% al 33,5%, mentre quella degli altri azionisti di riferimento è passata dal 10% all’ 11,6% , per un dato aggregato che mostra una riduzione del 14,9% (dal 60 al 45,1%), mentre tra il 2004-2006 i valori sono passati dal 32,7% per il primo azionista (13% per i rilevanti) al 27,5% (15%) , per una diminuzione aggregata del 3,2% (45,7-42,5%).

Dimensione del flottante. Un ulteriore indicatore della maggiore dispersione dell’azionariato delle società quotate è dato dalla dimensione del free float. Nel periodo 1996-2006 essa è, infatti, cresciuta dal 40% fino quasi al 55% .

Partecipazione delle istituzioni finanziarie. Nel 1996, le partecipazioni azionarie in società quotate posseduta da intermediari si attestavano al 13,74% (di cui il 9,53 da parte di banche, il 2,36 da assicurazioni, 0,76% da fondi comuni e l’1,09% da “altri”) . Nel corso degli anni successivi, il dato non sembra essersi di molto modificato: in particolare, l’evidenza che può essere maggiormente notata è la concentrazione degli investimenti degli intermediari nello stesso settore finanziario.

Nel periodo 1998-2006, infatti, la percentuale di partecipazioni rilevanti detenute dalle banche nel settore finanziario è passata dal 9,9% al 7,4%, mentre le partecipazioni nei settori industriale e dei servizi si è mantenuta sempre su valori inferiori all’1% (salvo per l’anno 2005, in cui la partecipazione nel settore industriale si era attestata all’1,5%) Peraltro, deve essere rilevato che tale valore è sceso sotto la soglia del 10% nel 2002 (9,1% rispetto al 10,9% del 2001) è andato costantemente calando fino al 7,4% del 2006.

Nel caso delle assicurazioni si assiste a un trend sostanzialmente assimilabile: tra il 2000 e il 2006, la percentuale di partecipazioni rilevanti nella finanza è passata dal 7% al 2,9%, mente la stessa percentuale nel settore industriale si è mantenuta tra lo 0,1% e lo 0,6%, punto massimo toccato nel 2004. Si nota quindi come, pur nella permanenza di una maggiore concentrazione delle partecipazioni azionarie detenute dal settore finanziario nel settore stesso, la tendenza sia verso una riduzione di tali forme d’investimento.

Le strutture piramidali e la separazione della proprietà dal controllo. Nel corso del decennio 1990-2000, le evidenze hanno mostrato una riduzione nell’utilizzo delle strutture piramidali e una conseguente riduzione del grado di complessità dei gruppi societari: se, nel 1990, il valore medio nei primi dieci gruppi non pubblici era di cinque livelli gerarchici, questo era sceso nel 2000 a un massimo di tre. Conseguentemente, si è assistito a una riduzione dell’effetto leva e quindi del livello di separazione tra proprietà e controllo : il valore è passato dal 2,4% all’1,8% .

A contribuire a una sostanziale decremento dell’effetto di separazione della proprietà dal controllo si aggiunge la rilevante riduzione dell’impiego delle azioni senza diritto di voto, passate nel periodo 1990-2007 dal 47% al 13% . Il dato interessante sottolineato dalla letteratura economica è la presenza di un trade-off, come modalità di controllo della società quotata, tra le strutture piramidali e la presenza di assetti coalizionali:le società quotate controllate da coalizioni formali (cioè, in presenza di un vero e proprio accordo tra gli azionisti che detengono almeno il 30% del voting capital) sono passate, nel periodo 1990-2007, dal 4,7 al 16%, mentre quelle controllate da coalizioni informali (definite sulla base dell’appartenenza alla stessa famiglia e/o dai comportamenti in sede di elezione del board)sono passate dal 5,6 all’11,7%, per un totale aggregato di quasi il 30% (corrispondente al 50% della capitalizzazione di borsa) . Sembra ragionevole presumere che il trade-off possa essere determinato dalla minore concentrazione della proprietà azionaria, specialmente in capo al primo azionista.

B. La proprietà delle banche quotate

Il principale avvenimento storico riguardante l’assetto proprietario delle principali banche italiane, negli ultimi vent’anni, è stata un’opera di privatizzazione del settore che ha portato lo Stato a scomparire totalmente dal novero dei soggetti partecipanti al capitale delle banche: nell’arco degli undici anni che vanno dal D.Lgs. 356/1990, che consentì la trasformazione delle banche pubbliche in SpA (c.d. privatizzazione formale), fino all’ultima privatizzazione bancaria sostanziale (il collocamento della terza tranche del capitale della BNL, nel dicembre 2001) lo Stato italiano ha dismesso completamente una presenza azionaria nel settore bancario valutabile intorno al 75% (e che rappresentava il 90% degli impieghi alle imprese e l’80% dei depositi ).

La privatizzazione del settore ha visto però il sorgere di un nuovo soggetto, le Fondazioni di origine bancaria (FOB), che ha assunto una posizione di particolare rilevanza in quanto azionista di maggioranza relativa in numerosi gruppi bancari. Un elemento non meno importante è stato il notevole consolidamento del settore, iniziato (e, in larga parte causato) dall’adozione del modello privatistico della S.p.A, e che si è concretizzato in una vasta serie di operazioni di fusione e acquisizione. Nel corso degli anni Novanta, sono avvenute 3 fusioni di grande importanza:

• Fusione tra Cassamarca e Cassa di Risparmio di Verona: costituzione di Unicredito (1995);

• Fusione tra il Credito Italiano (che aveva acquisito Rolo Banca 1473, anch’essa frutto di aggregazioni minori) e Unicredito (che aveva incorporato, nel frattempo, la Cassa di risparmio di Torino): costituzione di Unicredito Italiano (1998);

• Fusione tra l’Istituto San Paolo e l’IMI: nasce San Paolo IMI (1998), che successivamente acquista il Banco di Napoli.

L’opera di aggregazione è proseguita anche negli Anni Duemila: a metà del decennio, erano rinvenibili cinque grandi player: Unicredito Italiano, San Paolo IMI; Capitalia; Banca Monte dei Paschi di Siena. Questi diventeranno tre, con le fusioni del biennio 2006-2007 tra Unicredito Italiano e Capitalia (da cui nasce il Gruppo Unicredit) e tra Intesa e San Paolo IMI (da cui nasce il gruppo Intesa SanPaolo) .

La privatizzazione del settore ha comportato, con riguardo all’assetto proprietario delle banche quotate, un generale processo di riduzione della concentrazione della proprietà azionaria: nel periodo 1992-1996 (periodo, peraltro, che ha visto alcune tra le principali privatizzazioni bancarie della storia italiana ) il grado di concentrazione azionaria (misurato secondo l’indicatore della partecipazione del primo azionista, c.d. indice “c1”) si è ridotto del 14%, passando dal 55,8 al 41%: tale evidenza viene confermata dalla riduzione dell’indice “c3” (concentrazione data dalla somma dei tre principali azionisti) che passa dal 66,6 al 61,6% e dell’indice “c(art. 120 TUF)” che indica l’incidenza delle partecipazioni rilevanti (cioè, superiori al 2%) sul totale del capitale sociale, che scende dal 70,5 al 64,5% .

Il dato più interessante, relativo al periodo preso in esame, non attiene però tanto il grado di concentrazione della proprietà in termini assoluti, quanto in termini relativi (id est, in relazione al novero delle società quotate): nel 1996, l’indice “c1” delle società quotate si attestava al 47,3%, circa sei punti in più del dato relativo agli istituti di credito quotati : tale caratteristica sembra frutto, a nostro modesto avviso, delle modalità di privatizzazione delle banche pubbliche occorse nel quadriennio di riferimento, che in quattro casi su cinque è avvenuta per mezzo di collocamento in borsa e solo in un caso con trattativa privata .

Nel corso degli anni Duemila, tale situazione di fatto non sembra essersi modificata: nel 2006, l’indice “c1” e “c3” per le banche quotate era rispettivamente del 26,3% e del 39%, mentre per le quotate non finanziarie i medesimi indici erano del 45,1% e del 53,6% (dato che testimonia, peraltro, la tendenziale diluizione della proprietà azionaria nella quotate che abbiamo constatato nella precedente sezione). In particolare, Le FOB continuano a mantenere un ruolo estremamente rilevante: tale valore è cresciuto dal 12,5 del 1990 fino al 18,6% del 2007 .

Inoltre, le stesse concentrano totalmente i loro investimenti in azioni quotate nel settore bancario: tale valore, infatti, si attesta al 5,5% del totale delle società quotate, con assenza di partecipazioni in società non finanziarie . Le evidenze potrebbero indurre a ritenere che le FOB possano svolgere un funzione di “nocciolo duro” in seno agli assetti proprietari bancari che, dalla privatizzazione del settore, si sono lentamente orientati verso un modello di proprietà “ristretta” piuttosto che “chiusa”.

Di estremo interesse è verificare l’ingresso di investitori esteri nel capitale delle banche italiane: assumendo come periodo di riferimento il 1990-2007, si nota come tale presenza sia di molto cresciuta tra il 1990 e il 1998 (dal 1,8 all’8,5%) per poi declinare leggermente al 6,1% nel 2007 . Qualche riflessione può essere indotta dal confronto con le politiche d’investimento tenute dai foreign investors verso le società non finanziarie: nel periodo 1990-1998: il dato mostra una leggera diminuzione (6,7-4,9%), a fronte di un notevole incremento nel 1998-2007 (12%).

Per spiegare tale andamento, si potrebbe ipotizzare che la maggiore protezione alle minoranze azionarie offerte dall’entrata in vigore del TUF possa avere spinto gli investitori stranieri non solo a investire maggiormente sul mercato italiano (dato peraltro evidenziato da alcuni autori ) ma anche a diversificare il loro portafoglio d’investimento azionario. Allo stato attuale (dati aggiornati al 2009) la presenza di investitori istituzionali esteri nel capitale delle banche quotate nel FTSE MIB è del 26,97% (rispetto a una media del FTSE MIB del 24,25%): il dato viene commentato da alcuni autori notando come sussista una relazione inversa (con riguardo all’intero indice FTSE MIB) tra partecipazione degli investitori istituzionali esteri e grado di concentrazione azionaria: difatti, la percentuale di capitale posseduta dagli azionisti core nel settore bancario è del 42,08%, mentre la media è del 44,87%.

In conclusione, diviene interessante verificare alcune delle tendenze che abbiamo sopra menzionato con un’analisi dell’azionariato delle banche quotate aggiornata all’anno in corso . Sul campione delle 24 banche ammesse alla negoziazione,

• in 10 casi è presente un controllo di diritto e quindi una struttura proprietaria chiusa (41,66% del campione);

• Nell’ambito della categoria della struttura azionaria di riferimento sono presenti 4 casi, di cui uno a controllo familiare (diversi membri della stessa famiglia, la cui percentuale si attesta al 61%). La percentuale sul totale del campione è del 16,66%;

• Una struttura tendenzialmente frammentata (per quanto non con le percentuali di possesso azionario tipiche della public company anglosassone ), in cui rientrano 4 casi (16,66%);

• Sei banche popolari, che sono state separate dalla categoria precedente per via del loro peculiare assetto (25%).

Per quanto attiene in particolare il ruolo delle FOB, esse detengono il 6,53 % delle partecipazioni rilevanti negli istituti quotati (si va da un valore di 0, invero, per molte banche fino a un massimo di cinque). Il dato viene influenzato ovviamente dalla presenza di numerose banche (16) in cui le FOB non sono presenti; in quanto queste, come S.p.A., non sono sorte in applicazione del processo di privatizzazione dettato dalle leggi Amato-Ciampi: la loro partecipazione diviene infatti apprezzabile nelle principali banche-capogruppo quotate per capitalizzazione , ove detengono l’80% delle partecipazioni. In queste società bancarie, le FOB controllano una partecipazione media (semplice) del 7,41%, rispetto a una partecipazione media degli altri soggetti partecipanti del 3,73%. Inoltre, in due casi su cinque una FOB è anche l’azionista di maggioranza relativa della banca.

Anche alla luce dell’iter storico della “de-pubblicizazzione” del settore del credito, ci sembra difficile ritenere che vi sia stato una specifica intentio legislatoris nel creare un noyeau dur intorno alle FOB : è molto più probabile che il fenomeno sia da imputare al consolidamento del settore avvenuta successivamente alla privatizzazione, circostanza che risulta provata dal fatto che le cinque maggiori banche-capogruppo sono state anche quelle maggiormente oggetto di tale fenomeno, come abbiamo visto sopra.

Il valore medio del flottante, nel campione di riferimento, è del 47,53%: l’evidenza dimostra come, con un free float, addirittura inferiore alla maggioranza delle azioni negoziate sui mercati, la contendibilità della banca e quindi il meccanismo del mercato per il controllo societario diventa, nella maggior parte dei casi, estremamente difficile. Tale difficoltà viene poi ulteriormente accresciuta, nelle quattro banche ad azionariato tendenzialmente frammentato (le uniche, quindi, in cui un eventuale market for corporate control potrebbe essere efficace), dalla presenza di sindacati di blocco ovvero di previsioni statutarie che limitano a una percentuale prefissata (spesso, molto bassa) il diritto di voto .

Tale dato comprende le banche popolari, che per loro assetto istituzionale , tendono ad avere una struttura azionaria estremamente frammentata: se eliminiamo dal campione tali soggetti, il valore in esame scende fino al 35,11%. Risultano quindi rinforzate tutte le possibili perplessità sull’utilizzo del market for corporate control come strumento di pressione sul management bancario da parte di eventuali azionisti di minoranza.

In conclusione, le evidenze dimostrano che le società bancarie non si discostano grandemente dalle altre società quotate sotto il profilo della struttura azionaria. Come abbiamo visto sopra, il grado di concentrazione (prendendo a parametro i cc.dd. azionisti strategici) non si discosta molto rispetto alla media del FTSE MIB; e anche nei quattro casi in cui la struttura proprietaria tende a essere maggiormente frammentata, le percentuali non sono equiparabili all’”archetipo” della public company. Inoltre, i dati dimostrano che il settore bancario ha seguito i principali andamenti che si sono verificati, negli ultimi vent’anni, negli assetti proprietari delle società quotate in Borsa:

(i) una generale “diluizione” delle partecipazioni di controllo/riferimento;

(ii) un massiccio utilizzo degli accordi parasociali : ai sensi dell’art. 122 TUF, sono stati comunicati alla CONSOB 13 patti parasociali, per una percentuale sul campione del 54,16%;

(iii) una dimensione del flottante che si mantiene intorno al 50%, con difficoltà all’azione del market for corporate control. A nostro giudizio, il principale elemento d’interesse rimane l’importante presenza di un particolare soggetto come le FOB nell’azionariato di molti importanti istituti; dal momento che le stesse, essendo dei soggetti omogenei sia sotto il profilo strutturale che dei fini che sono chiamate a perseguire, possono prestarsi a un ruolo, se non di vero e proprio “nocciolo duro” (quindi con veri e propri ruoli di gestione, peraltro vietati dalla legge ex art. 3 cc.1,3 D. Lgs. 153/99), di “tutori” della proprietà azionaria della banca quotata.

C. La partecipazione assembleare

I dati empirici più recenti dimostrano come, quasi in parallelo con quanto è accaduto negli assetti proprietari, sia in corso una progressiva erosione del dato strutturale della scarsa partecipazione degli azionisti di minoranza ai lavori assembleari .

Nel periodo 2005-2009, si è assistito a un aumento della “intensità di partecipazione” (cioè, il rapporto tra capitale posseduto da una categoria di azionisti e quello portato in assemblea) delle minoranze azionarie, che è passato dal 16,15 al 21,11%. Come sembra logico attendersi, la maggiore partecipazione delle minoranze si rinviene nei settori in cui la concentrazione risulta maggiormente diluita: nei settori ove si registra una minore preponderanza degli azionisti core , infatti, le evidenze sottolineano anche una partecipazione del free float alle assemblee maggiore del dato medio del FTSE MIB (10,86%) . In particolare, è proprio il settore bancario a fare la parte del leone, in quanto la deviazione rispetto alla media segna un + 4,44% (15,30%).

Tale dato consente di affermare che; come abbiamo visto nel campo della partecipazione azionaria, anche in tema di general meeting attendance sussista una relazione inversa tra livello di concentrazione della proprietà della società quotata e grado d’intervento dei soggetti esteri. In entrambi i casi, sembra abbastanza ragionevole ritenere, come interpretato da alcuni , che il fenomeno sia da imputare alla maggiore possibilità di influire sulle determinazioni assembleari e, quindi, sulla vita della società. Il settore bancario, da questo punto di vista, sembra porre un’eccezione alla regola: pur essendo la sezione del listino FTSE MIB con la maggiore presenza di azionariato disperso (come abbiamo visto sopra), nello stesso si può riscontrare sia la maggiore intensità che la maggiore incidenza di partecipazione da parte di investitori istituzionali italiani (rispettivamente, il 48,02 e il 13%).

Tale dato potrebbe essere spiegato da due peculiarità del settore: da un lato, la presenza degli istituti di credito popolari, in cui la frammentazione dell’azionariato è un dato tendenzialmente ontologico; dall’altro, la presenza di quella particolare categoria di investitori istituzionali costituita dalle FOB.

L’aumento della partecipazione delle minoranze che abbiamo constatato è stata sostenuta, in particolare, dalla maggiore presenza degli investitori stranieri: la loro incidenza media sul capitale rappresentato è passata dal 6,4% al 16,10% nel periodo di riferimento. Il dato compensa, una riduzione significativa della presenza di investitori nazionali: mentre gli investitori retail hanno mantenuto sostanzialmente inalterata il loro molto basso tasso d’incidenza (dall’1,33 all’1,30%); il calo maggiore si è accusato nella componente istituzionale, passata dal 7,14% al 5,10% .

La tendenza viene confermata anche dall’intensità di partecipazione delle categorie menzionate: (i) per gli investitori esteri si passa dal 16,03% al 37,10%; (ii) per gli investitori istituzionali italiani dal 31,65% al 21%; per gli azionisti italiani retail dal 2,74 al 3,40% .

Le posizioni espresse da alcuni organismi comunitari e internazionali , particolarmente interessate alle best practices degli investitori istituzionali nei confronti delle “società-portafoglio”, è stata la principale “spia” della teoria, a lungo diffusa, che solo questi soggetti sono in grado di assicurare il monitoraggio necessario per l’accountability di CdA e management. Solo loro, infatti, -secondo i sostenitori della teoria- avendo la sufficiente esperienza tecnica e viste le somme investite nelle società target, possono fungere da “contraltare” all’”apatia razionale” dei piccoli investitori e alla (per loro, di gran lunga preferibile) Wall Street Rule.

Una recente indagine si è occupata, in particolare, di una categoria di investitori istituzionali che hanno suscitato un notevole interesse negli ultimi anni, i c.d. fondi sovrani (sovereign wealth funds, SWFs): essa ha mostrato come i SWFs tendono ad assumere partecipazioni “di peso” nelle società target: la media delle partecipazioni rilevanti (cioè, superiori al 4%) sul campione dei sei principali SWF si attesta intorno al 14,82%.

Lo studio, a causa della scarsa partecipazione di molti dei SWFs “censiti”, non riporta dati specifici sulla presenza in assemblea, ma raduna alcune evidenze aneddotiche, ottenute per mezzo della collaborazione dei SWFs che hanno risposto ai questionari inviati ovvero grazie alle risposte ricevute delle società partecipate: in relazione ai 20 principali blockholding dei sei SWFs citati, sussistono 12 risposte.

Su tale numero, in 6 casi i rispondenti hanno affermato che il SWFs partecipa, votando, ai lavori assembleari . Pur nella frammentarietà e nella incompletezza dei dati, sembra possibile affermare che i “fondi sovrani” tendono ad essere azionisti tutt’altro che passivi. E’ inoltre da sottolineare che nel novero delle partecipazioni censite si contano 6 istituti bancari, e che tra questi in 2 casi si è avuta notizia di interventi assembleari.

Allo stato attuale, manca uno studio organico sul livello di attendance degli investitori istituzionali che possa supportare la policy perseguita delle istituzioni internazionali: le scarse indicazioni che la letteratura offre sono (un po’ come abbiamo visto per lo studio sui SWFs) sono in larga parte aneddotica e in generale indicano una notevole riduzione di quella passività - che generalmente si sostanziava nell’utilizzo della Wall Street Rule - che era considerata il tradizionale approccio degli investitori alle vicende sociali . In tempi recenti, una parte della dottina ha stimato una percentuale di deleghe “votate”, per la proxy season 2004, intorno al 98%. A sostenere tale linea di policy non sono tanto i dati di meeting attendance, quanto piuttosto altre forme di attivismo che, in molti casi, presuppongono un coinvolgimento nei lavori assembleari: ma di questo tema tratteremo nella prossima sezione.

Sull’importanza delle società di capitali (e in particolare di quelle per azioni) v. FERGUSON, Ascesa e declino del denaro. Una storia finanziaria del mondo, Milano, 2008, p. 92 ss.

Tale peculiarità delle società di capitali viene tradizionalmente indicata con il nome di “struttura corporativa”, cfr. G.F CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2002, pp. 150 ss.

Sul tema si rimanda al tradizionale lavoro di BERLE-MEANS, The modern corporation and private property, New York (NY), 1932.

[1] Normalmente, in questo tipo di sistemi, anche l’autofinanziamento delle imprese gioca un ruolo particolarmente rilevante. Per il caso italiano, v. i dati empirici relativi all’ultimo decennio nella Relazione Annuale Consob 2009, p. 7.[1] Per una completa e aggiornata trattazione degli assetti proprietari v. The control for corporate Europe (a cura di BARCA-BECHT), Londra, 2002. Cfr., inoltre, LA PORTA-LOPEZ DE SILANES, SHLEIFER, Corporate ownership around the world, in (54) Journal of Finance, 1999, 471 ss  (che rileva come la proprietà azionaria concentrata sia il modello preponderante nei 27 Paesi più ricchi del mondo)[1] Ad es., il modello di azionariato disperso dei Paesi anglosassoni si caratterizza, nel caso degli USA, per un notevole potere del management (v. le considerazioni di KRAAKMAN et alDiritto societario comparato, Bologna, 2006,…); mentre nel Regno Unito sono gli investitori istituzionali ad assumere un maggior ruolo decisionale, per quanto limitato e posto in essere specialmente (i) nelle situazioni di crisi aziendale ovvero, in bonis, (ii) per mezzo di contatti informali tra investitori e management (c.d. jawboning) (v. BLACK-COFFEE, Hail Britannia?: insitutional investor behavoir under limited regulation, in (92) Michigan Law Review, 1993-1994, p. 2005: gli stessi Autori rilevano a p. 2002 forse la ragione delle maggiori possibilità di manovra degli investitori istituzionali oltre alla regolamentazione meno

[1] Cfr. LA PORTA-LOPES DE SILANES-SHLEIFER-VISHNY, Law and Finance, in (106) Journal of Political Economy, 1998, p. 1113 ss.

L’assunto della tesi si basa sull’elaborazione del c.d. antidirectors rights index (ADRI), composto da sei diritti tradizionalmente considerati strumento di tutela delle minoranze azionarie: (i) possibilità di utilizzare il voto per delega; (ii) assenza di obblighi di deposito delle azioni per poter votare in assemblea; (iii) meccanismi di rappresentanza proporzionale nel board; (iv) presenza di derivative suits ovvero obbligo di riacquisto delle azioni della minoranza in caso di operazioni straordinarie; (v) diritto di prelazione sulle nuove emissioni azionarie; (vi) basse perecentuali richieste per la convocazione di un’assemblea straordinaria. v. p. 1127-1128.

In particolare, le critiche hanno riguardato il grado di “raffinatezza” dell’indagine metodologica e, di conseguenza, le stesse conclusioni di La Porta et al.. Tra tutti, v. SPALMANN, The <<antidirector rights index>> revisited, in (23) Review of financial studies, 2010, p. 467 ss.

Tale tesi può essere sostanzialmente attribuita al Professor Mark Roe dell’Università di Harvard, v. Political derterminants of corporate governance, Londra, 2003.

Per una critica di questa ricostruzione, con argomenti difficilmente controvertibili v. COFFEE, Dispersed owneship: the theories, the evidence and the enduring tension between <<lumpers>> and <<splitters>>, ECGI law working paper n. 144/2010, pp. 19-24. La considerazione contraria alla “teoria politica” deriva forse proprio dall’esperienza politica dell’altro Paese a capitale diffuso, il Regno Unito, che è stato dominato da un partito di ispirazione socialdemocratica, il Partito Laburista, proprio nel periodo 1945-1975 che ha visto il completamento della dispersione azionaria (cfr. CHEFFINS, Corporate ownership and control: British business transfrormed, Londra, 2008, pp. 47-51, citato da COFFEE, Dispersed ownership, cit., p. 23). In verità, a ulteriore supporto dell’argomento, va rimarcato che l’influenza del Partito Laburista sulla politica inglese è anche precedente alla Seconda guerra mondiale, avendo lo stesso partecipato a entrambi i governi di unità nazionale durante le due guerre mondiali e che questo ha governato sia nel 1924 (governo di coalizione con i Liberali) che nel 1929-1931 (cfr. http://www2.labour.org.uk/history_of_the_labour_party).

V. BIANCHI-BIANCO-ENRIQUES, Pyramidal groups and the separation of ownership and control in Italy, in The control for corporate Europe, cit., p. 154.

V. Evoluzione degli assetti proprietari e attivismo assembleare delle minoranze, GEORGESON-LUISS Ceradi, p. 15 disponibile al sito http://www.archivioceradi.luiss.it/ricerche-ceradi/pdf/FTSE_MIB_-_Evoluzione_degli_assetti_proprietari_ed_attivismo_assembleare_delle_minoranze.pdf

Evoluzione degli assetti proprietari, cit., p. 17.

Relazione Annuale CONSOB 2003, p. 81. In particolare, si è registrato un vero e proprio picco nel biennio 1997-1998, in cui il valore del primo azionista era sceso sino al 32%: tale fenomeno è stato provocato dalle privatizzazioni avvenute mediante IPO (cfr. Relazione Annuale CONSOB 1999, p. 45)

Relazione Annuale CONSOB 2006, p. 132.

Relazione Annuale CONSOB 2006, p. 132

BIANCHI-BIANCO-ENRIQUES, Pyramidal groups and the separation of ownership and control in Italy, cit., p. 172.

Relazioni Annuali CONSOB per gli anni di riferimento. Peraltro, deve essere rilevato che tale valore è sceso sotto la soglia del 10% nel 2002 (9,1% rispetto al 10,9% del 2001) è andato costantemente calando fino al 7,4% del 2006.

Il valore viene definito come il rapporto tra unità di capitale controllato (in termini di diritti di voto in assemblea ordinaria) e unità di capitale posseduto ( cioè, diritti sui flussi di cassa riferibili all’azionista di controllo).

Relazione Annuale CONSOB 2000, pp. 50-51.

BIANCHI et al., The evolution of ownership and control structure in Italy in the last 15 years, 2008, Tavola 8, disponibile al sito http://www.bancaditalia.it/studiricerche/convegni/atti/corp_gov_it/session1/evolution_ownership_control_structures.pdf

BIANCHI et al., The avolution of ownership and control, cit, Tavola 10.

V. ZAZZARO, Assetti proprietari delle banche e attività economica, in Analisi giuridica dell’economia, vol. 3 (1), 2004, p. 11

BARUCCI-PIEROBON, Le privatizzazioni in Italia, Roma, p. 56.

Per una ricostruzione dei processi aggregativi dello scorso ventennio v. GIANI, Ownership and control of italian banks: a short inquiry into the roots of the current context, in (6) Corporate ownership and control, 2008, p. 22 ss.

Nel periodo menzionato avvennero la privatizzazione di due delle tre “banche d’interesse nazionale” controllate dall’IRI, la Comit nel 1994 e il Credito Italiano nel 1993, insieme con la privatizzazione dell’IMI, avvenuta in tre tranches tra il febbraio 1994 e il luglio 1996. Il controvalore delle operazioni è stato stimato in 4.582.000.000 € (BARUCCI-PIEROBON, Privatizzazioni, cit., pp. 28-29).

BIANCHI-DI BATTISTA-LUSIGNANI, Assetto proprietario e performance delle banche italiane, in Banca, Impresa e Società, vol. 17, 1998, pp. 96-97.

BIANCHI-DI BATTISTA-LUSIGNANI, Assetto proprietario, cit., p. 96.

BARUCCI-PIEROBON, Privatizzazioni, cit., p. 28, 30. Nel caso di specie; Comit, Credito Italiano, e la prima e la terza tranche dell’IMI furono effettuate mediante offerte pubbliche di vendita, mentre fu la seconda tranche delle azioni IMI ad essere state vendute per trattativa privata.

BIANCHI-BIANCO, Relazioni proprietarie tra banche e imprese: alcune evidenze empiriche, relazione presentata alla terza conferenza annuale della Società Italiana di Diritto ed Economia (Milano, 9-11 novembre 2007), disponibile al sito: http://www.side-isle.it/ocs/viewpaper.php?id=52&cf=1. Lo studio rileva come la concentrazione proprietaria delle banche italiane sia superiore a quelle delle altre economie principali dell’Europa continentale (Francia, Germania e Spagna), non tanto in relazione all’indice “c1” quanto all’indice “c3” e “c (art. 120 TUF)”

BIANCHI et al., The evolution of ownership and control, cit., Tavola 14b)

BIANCHI-BIANCO, Relazioni proprietarie, cit., pp. 7-8.

BIANCHI-BIANCO, Relazioni proprietarie, cit., Tavola 4. A differenza dei dati precedentemente citati, qui i valori sono medie ponderate per la capitalizzazione di borsa.

BIANCHI et al., The avolution of ownership and control, cit., p.7 e Tavola 12.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 22-24.

Il dataset è formato dalla documentazione su (i) composizione delle partecipazioni rilevanti nell’azionariato dell’istituto, (ii) patti di sindacato comunicati alla CONSOB ex art. 122 TUF; (iii) partecipazioni rilevanti detenute dalla banca quotata ex art. 120 TUF, disponibile al sito: http://www.consob.it/main/emittenti/societa_quotate/index.html#, consultato nel mese di settembre 2010. I dati sulla dimensione del flottante (partecipazioni inferiori alla soglia del 2%) sono forniti da Borsa Italiana (cfr. http://www.borsaitaliana.it/borsa/azioni/settori/lista.html?indexCode=IT8300&x=24&y=7).

Il valore medio delle partecipazioni rilevanti nelle quattro banche “frammentate” è 3,84% (si va da un minimo del 2,33% a un massimo del 4,72%)

La seguente è la capitalizzazione dei primi cinque gruppi bancari italiani (Fonte: http://it.finance.yahoo.com aggiornato al 24/8/2010): UniCredit (36,52 mld €); Intesa SanPaolo (26,45 mld €); Mediobanca (5,34 mld €); Banca MPS (4,98 mld €); (5) UBI Banca (4,54 mld €).

BARUCCI-PIEROBON, Privatizzazioni, cit., pp. 78 ss. (in particolare, v. p. 96) fanno rilevare come il tentativo di costituire un “nocciolo duro” per le società privatizzate sia stato compiuto solo in alcuni casi, e soprattutto nella prima fase del processo.

Cfr. ad es., lo Statuto di Unicredit, art. 5 c. 16.

Ci si riferisce al divieto di possedere più dello 0,5% del capitale sociale, a norma dell’art. 30 c. 2 del TUB.

Data la storia delle principali banche ex-pubbliche, ci sembra difficile ritenere che in questo caso l’impiego di tali accordi sia stata una conseguenza dell’abbandono delle strutture piramidali. Nel caso di specie, tale andamento è probabilmente legato alla necessità, per gli azionisti core, di mantenere il controllo sulla società pur aprendosi ad apporti di capitale di rischio “esterni”, sfruttando le riforme (introduzione del TUF e riforma Vietti) che ne hanno sancito definitivamente la liceità.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 28 ss.

Si vedano le considerazioni esposte nei rapporti nazionali relativi ai paesi a capitale concentrato raccolti nel volume Shareholders votino rights and practice in Europe and US (a cura di BAUMS-WYMEERSCH), Londra, 1999 (in particolare la minima partecipazione nelle assemblee francesi, p. 102; la delega di voto “meccanica” alle tre principali banche per gli azionisti tedeschi, pp. 113-115; i rapporti tra numero totale degli azionisti e azionisti presenti all’assemblea annuale di approvazione del bilancio in Italia (esercizio 1997), p. 167). La scarsa partecipazione degli azionisti non di controllo (cioè, non in grado di esercitare un’influenza notevole sull’assemblea) viene constatata empiricamente (dati relativi alla proxy season 2000) anche dalla ricerca di BELCREDI-BELLAVITE PELLAGRINI-PENATI, Le assemblee delle società quotate: un’indagine empirica, in L’assemblea delle società quotate in un mondo che cambia (Quaderno di documentazione e ricerca Assogestioni n.24), aprile 2001, p. 43.

Difatti il settore bancario è, secondo la survey citata, quello in cui si ha il livello più basso di voting power (cioè, il peso percentuale delle categorie di azionisti nell’evento assembleare) espresso dagli azionisti strategici: 65,80% rispetto al 70% medio del FTSE MIB.

Il dato (c.d. quorum ex azionisti strategici) indica il quorum costitutivo dell’assemblea al netto della presenza, appunto, degli azionisti strategici.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., p. 39.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 32-34.

GEORGESON-LUISS Ceradi, Evoluzione degli assetti proprietari, cit., pp. 35-38.

Si fa riferimento in primis ai Principi di Governo Societario dell’OCSE (2004), Parte II §§ F,G e relative explanatory notes, insieme con il green paper della Commissione Europea “Corporate governance in financial institutions and remuneration policies”, pp. 8, 16.

IRRC Institute-RiskMetrics, An Analysis of Proxy Voting and Engagement Policies and Practices of the Sovereign Wealth Funds, ottobre 2009, disponibile al sito http://www.irrcinstitute.org/pdf/Sovereign_Wealth_Funds_Report-October_2009.pdf

Abu Dhabi Investment Authority (ADIA); China Investment Corporation (CIC); Government of Singapore Investment Corporation (GIC); Kuwait Investment Authority (KIA); Qatar Investment Authority (QIA); Temaseek (Singapore)

Le altre tipologie di attività censite rientrano nel c.d. shareholder’s activism, di cui ci occuperemo infra.

Cfr. PALMITER, Mutual funds voting of portaolio shares: why not disclose?, in (23) Cardozo Law Review, 2002, pp. 1430-1436.

ROTHBERG-LILIEN, Mutual fund and proxy voting: new evidence on corporate governance, in (1), Journal of Business and Technology Law, 2006, pp. 166-167. I dati si riferiscono a una media sui primi cinque mutual funds statunitensi.