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Gli assetti proprietari delle società quotate e delle banche italiane. La partecipazione nelle assemblee. Parte II

Per la prima parte di quest'articolo vedi:

http://filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=3046

L’evoluzione delle strutture proprietarie e, in particolare, l’”ascesa” degli investitori istituzionali come membri di rilievo delle compagini sociali ha portato, negli ultimi vent’anni, a un intenso dibattito di law and economics su quanto sia opportuno conferire agli azionisti poteri di voice che influenzino effettivamente sulla gestione della società . Queste considerazioni devono essere recepite dall’interprete italiano cum grano salis, dal momento che, essendo maturate in seno all’esperienza statunitense, sono pensate tenendo conto della notevole dispersione dell’azionariato nelle public companies. Mentre nei primi due paragrafi esporremo gli argomenti pro e contro lo shareholder activism, il terzo presenterà alcune conclusioni critiche.

1. Le tesi favorevoli all’attivismo

Alcuni commentatori statunitensi hanno notato che le tesi favorevoli a un rafforzamento delle prerogative degli azionisti sono antiche quanto la tradizionale analisi di Berle-Means . L’assunto fondamentale di queste teorie risiede nel considerare che un maggiore capacità di controllo dell’operato degli amministratori da parte degli azionisti, in particolare rendendo più “contendibile” la presenza nel board, massimizzerebbe il valore per gli azionisti e in generale migliorerebbe la performance dell’impresa.

Tale teoria trova il proprio spunto, oltre che nella constatazione delle problematiche di agency endosocietarie, nel forte orientamento “pro-managerialistico” del diritto societario americano: le principali decisioni sulla vita sociale (modificazione della residenza e dell’atto costitutivo) possono infatti essere presentate all’assemblea esclusivamente dal CdA , mentre il potere assembleare di modificare lo statuto viene limitato dall’obbligo di coerenza delle bylaws con il certificate of incorporation . Inoltre, il framework giuridico limita l’attivismo azionario non solo direttamente ma anche indirettamente, innalzando oltremodo le spese che i challengers sono chiamati a sostenere: a tal proposito, possono essere citate a titolo d’esempio le costosissime sollecitazioni di deleghe e il trattamento asimmetrico del rimborso dei costi nel caso di sconfitta -mentre gli amministratori in carica possono “scaricare” tali spese sulla società, gli sfidanti li sopportano integralmente senza possibilità di rivalsa, con ovvi problemi anche in termini di free riding -.

Non è un caso infatti che uno dei massimi sostenitori delle tesi shareholder primatist abbia dedicato un recente saggio ad avanzare un’articolata proposta di riforma del sistema di elezione dei directors che si basa su:

(i) possibilità di inserire, da parte di alcune minoranze qualificate (sia per la durata che per la rilevanza della partecipazione), i propri candidati nelle liste ;

(ii) rimborso da parte della società delle spese sostenute dagli “sfidanti” ;

(iii) rendere possibile la sostituzione di tutti gli amministratori con scadenza almeno bi/triennale;

(iv) introduzione di un voto “contro” il candidato della società;

(v) anonimità del voto. Il sistema prospettato dall’Autore è derogabile; in quanto egli riconosce che ogni impresa dovrebbe essere libera di adattare la normativa al proprio caso specifico, ma nel contempo l’eventuale opting-out dovrebbe essere reso più facile per gli azionisti e più difficoltoso per il board .

L’ampiezza della tematica, che di per sé investe il nucleo basilare del diritto societario, ha portato anche all’elaborazione di proposte di riforma non limitate esclusivamente al tema del meccanismo elettorale, ma più in generale dei poteri decisionali/d’intervento degli azionisti: anche qui, un voluminoso saggio dell’illustre professore di Harvard, maggiore esponente delle teorie favorevoli allo shareholder enpowerment , ha illustrato numerosi profili passibili di riforma:

(i) facoltà per gli azionisti di modificare le proposte avanzate dal management, abbandonando l’attuale take-it-or-leave-it approach;

(ii) potere di presentare e approvare autonomamente emendamenti allo statuto sociale, oltre che cambiare il luogo di residenza della società (cc.dd. rule-of-the-game decisions) ;

(iii) potere di adottare determinazioni vincolanti in merito alla vita della società (fusioni, vendita di tutti gli asset, cc.dd. game-ending situations) e sulla distribuzione dei dividendi e pagamenti similari (c.d. scaling down).

Per evitare abusi, dovrebbero essere soddisfatti requisiti di ownership e, soprattutto, la delibera dovrebbe essere “confermata” con due determinazioni consecutive, in due distinte assemblee . Secondo l’Autore, la riforma massimizzerebbe il valore per gli azionisti consentendo l’eliminazione di previsioni statutarie che sono frutto di una “distorsione” pro-amministratori formatasi nel corso del tempo: difatti, viene auspicato che tale sistema sia un reverse default: la legge dovrebbe prevedere in prima battuta il sistema più a favore degli azionisti, consentendo modifiche pro-manager solo se gli azionisti riconoscono che queste possano essere massimizzanti dello shareholder value . Come si può notare, la ratio è sostanzialmente assimilabile a quella del meccanismo previsto per il sistema elettorale.

Vale la pena di prendere in considerazione anche una proposta di riforma shareholder empowering, che trova però la sua base concettuale in una posizione sostanzialmente middle ground tra le posizioni “pro-azionisti” e “pro-manager” .

Secondo l’Autore, dati i benefici prodotti dalla centralizzazione del processo decisionale in capo al board, gli azionisti non dovrebbero poter intervenire nelle decisioni di business, in particolare quelle categorie (come gli investitori istituzionali) che sono motivati da interessi di breve periodo/perseguono una social agenda. La riforma dovrebbe essere orientata soprattutto ad assicurare una vera accountability mediante la contendibilità del board, per mezzo dell’inserimento di liste di candidati proposte da minoranze qualificate (sia sotto il profilo della quantità del possesso azionario che della sua durata).

Tale proposta, come abbiamo visto, è oggi prevista direttamente dalla regolamentazione secondaria posta dalla SEC, ma deve essere rilevato che l’Autore ritiene che tale modifica dovesse essere attuata a livello statale e non federale.

2. Le dottrine directors primatists

Rispetto alle tesi sullo shareholder empowemrent, che si basano tutte in ultima istanza sulla necessità di assicurare un adeguato “potere di monitoraggio” agli azionisti; le tesi che (sostanzialmente) sostengono il mantenimento dello status quo si basano su molteplici argomentazioni, spesso mostrando anche tra i vari Autori una svariata latitudine in termini di approcci alla problematica.

La prima tesi che possiamo enucleare ritiene che l’attuale assetto del bilanciamento dei poteri tra assemblea e board sia sostanzialmente “il migliore dei mondi possibili”, nel senso che la centralizzazione dei poteri decisionali in capo al board rappresenta il sistema più efficiente di gestione dell’impresa .

Gli assertori della tesi ritengono che l’accentramento del decision making sia indispensabile per consentire la soluzione di quei problemi di azione collettiva che inevitabilmente si pongono in presenza di un azionariato diffuso come quello delle listed companies americane ; specialmente se gli azionisti non possiedono né le informazioni né gli incentivi necessari per esercitare, in modo consapevole, un controllo sull’organo gestorio : una diversa impostazione dei rapporti tra amministratori e azionisti porterebbe a board incapaci di gestire l’impresa, “balcanizzati” secondo gli interessi dei vari gruppi di azionisti e soggetti in ultima istanza a un vero e proprio potere di ricatto .

A questa impostazione seguono due “corollari” degni di nota: da un lato; che l’attivismo degli investitori istituzionali è limitato, essendo una caratteristica solo di alcune categorie (e peraltro, tale attivismo sembra spesso orientato al perseguimento di obiettivi altri rispetto alla massimizzazione del valore ); dall’altro, che un maggiore potere decisionale degli azionisti non risolve il problema di agency, ma si limita semplicemente a spostarne il punto focale: i possessori di quote di fondi comuni e altri investitori hanno dimostrato la stessa “apatia razionale” imputata agli azionisti di società, con la conseguenza che il problema di agenzia si sposterebbe, in caso di accoglimento delle proposte “pro-azionisti”, dalle società agli investitori istituzionali .

L’assetto complessivo, sostengono tali Autori, è il migliore possibile anche perché il mercato fornisce di per sé gli strumenti per disciplinare il management: da un lato, abbiamo la Wall Street Rule, dall’altro il mercato per il controllo societario (che, peraltro, vede il “parlare con i piedi” come il necessario presupposto di tale meccanismo) . Del resto, si chiedono questi autori con un’argomentazione controfattuale: se davvero un rafforzamento dei diritti degli azionisti è davvero desiderabile, perché le società non modificano i loro statuti in tale direzione?

Una seconda teoria attiene in generale la posizione degli azionisti. Secondo tale impostazione , la “platea” degli azionisti è composta non da soggetti con identici interessi (e tutti tendenzialmente orientati, come obiettivo, alla massimizzazione dello shareholder value); ma che questi abbiano tra di loro interessi privati contrastanti che, qualora maggiori poteri venissero conferiti agli azionisti, li eserciterebbero al fine di estrarre benefici privati, a danno quindi degli “altri” azionisti e delle altre corporate constituencies, e non per massimizzare il long-term value. A nostro avvisto, sono due gli elementi di particolare interesse di questa dottrina: da un lato ha posto in risalto il ruolo che la grandissima crescita dell’ “ingegneria finanziaria” ha avuto anche sulla posizione degli azionisti (basti pensare, in relazione al nostro Paese, alla maggiore libertà concessa dal legislatore della riforma del 2003 alle SpA nella definizione degli elementi costitutivi dell’azione); dall’altro, per aver sottolineato come il problema del self-dealing non sia limitato –in un contesto di azionariato disperso- solamente agli amministratori ma anche agli azionisti.

La terza ricostruzione “pro-manager” prende spunto da una diversa impostazione dei rapporti endosocietari, che si pone in chiave alternativa sia al tradizionale agency problem à la Berle-Means che alla dottrina dei diritti di proprietà, che analizza l’assegnazione dei diritti di proprietà in funzione di chiusura delle lacune presenti nelle relazioni contrattuali. Secondo la teoria della team production , le business organizations si caratterizzano non tanto per i rapporti verticali tra principali e agenti, quanto per la collaborazione “orizzontale” tra i soggetti che partecipano a vario titolo al funzionamento della firm.

La presenza di una struttura gerarchica che sorge a seguito di un act of incorporation con cui i membri del team si spogliano dei loro diritti di controllo delegandoli all’”organo di comando” persegue, in questa prospettiva, una funzione non solo di monitoraggio contro i possibili atti di opportunismo e free-riding che possono essere posti in essere, e che sono in questo contesto particolarmente dannosi data l’alta “illiquidità” degli investimenti firm-specific (si pensi, ad es., alla prestazione lavorativa); ma anche di mediazione tra le varie dispute che possono sorgere tra i componenti del team in tema di allocazione dei compiti e delle ricompense .

Tale impostazione, a detta degli Autori, comporta che la problematica della tutela degli azionisti dall’opportunismo degli azionisti-manager è semplicemente malposta: il board non protegge gli azionisti, ma la totalità degli investimenti di tutti i componenti dell’organizzazione-team .

A riprova di tale impostazione, secondo gli Autori, si deve tenere a mente che secondo il diritto USA gli amministratori non possono essere considerati (giuridicamente) degli agenti degli azionisti, vista la loro discrezionalità nella gestione aziendale (tutelata anche giudizialmente con la business judgement rule), non soggetta a poteri di direzione da parte degli azionisti. Gli amministratori sarebbero semmai dei trustees con doveri nei confronti della società, persona giuridica autonoma, e la stessa struttura delle azioni giudiziali “derivate” (derivative suits) conferma tale impostazione, in quanto l’azione viene proposta non nell’interesse della categoria degli azionisti ma sostanzialmente di tutte le corporate constituencies .

A nostro parere, nella teoria della team production si possono scorgere echi della concezione dell’impresa del Premio Nobel Ronald Coase, secondo il quale l’impresa nasce come strumento alternativo al meccanismo di price-alloting da parte del mercato, in quanto capace rispetto a quest’ultimo (in date circostanze) di ridurre i costi di transazione tra i vari operatori mediante l’attribuzione all’imprenditore di un potere direttivo che è sostanzialmente diritto residuale di controllo sull’organizzazione, volto a completare le inevitabili lacune dei regolamenti contrattuali (gap-filling) .

3. Conclusioni

Come si può facilmente evincere dai precedenti paragrafi, il tema della partecipazione assembleare costituisce una parte specifica di un dibattito più ampio che attiene soprattutto la corretta allocazione dei poteri d’iniziativa e decisionali tra assemblea e CdA.

Nell’ambito di tale dibattito, la partecipazione attiva degli azionisti assume particolare valenza come strumento di monitoraggio dei gestori della società, e non quindi come mezzo per modificare il balance of power tra azionariato e managers. Premessa questa necessaria precisazione, le conclusioni di questa parte verrà strutturata in due parti: mentre nella prima sarà prevalente una dimensione “teorica”,in cui verranno svolte alcune riflessioni critiche anche alla luce di alcuni dati empirici presentati dalla letteratura economica, nel tentativo di proporre alcuni spunti originali di riflessione nell’ambito del dibattito in corso; la seconda avrà un ruolo “empirico” in quanto esporrà alcune delle principali ricerche prodotte dalla letteratura finalizzate a verificare se (e, se sì, in quale misura) l’attivismo degli azionisti –in particolare degli investitori istituzionali- abbia apportato miglioramenti alla performance delle società controllate, allo scopo di meglio comprendere quanto, anche sotto il profilo pratico, sia realmente necessario ampliare i diritti di voice dell’azionariato.

A. Alcune riflessioni teorico-pratiche

La prima considerazione che deve essere svolta riguarda, in generale, l’effettivo miglioramento che l’introduzione di maggiori diritti di voice può apportare all’azione degli inventori istituzionali. Si deve tenere presente, infatti, che tale categoria è capace di esercitare pressione sul management anche con strumenti informali, come ad es., riunioni riservate con gli amministratori, interventi a mezzo stampa (sia per approvare che per criticare l’operato del CdA) e in generale l’impiego di mezzi di moral suasion (c.d. jawboning) .

In altri termini, l’alternativa degli investitori istituzionali è sostanzialmente tra una voice formale e una informale. A tal proposito, alcuni commentatori hanno fatto notare (con particolare riguardo all’esperienza d’Oltreoceano) che l’esercizio di pressioni informali sugli amministratori e sul management spesso è uno dei migliori strumenti di pressione sotto il profilo costi-benefici , e probabilmente questo spiega anche la scarsa attitudine all’attivismo riscontrato in alcune categorie di inventori istituzionali, come visto sopra. Dato quanto precede, l’ampliamento dei poteri di voice rischierebbe quindi di essere un’operazione legislativa tendenzialmente inutile, dal momento che sussistono per gli operatori alternative molto più cost-effective .

In relazione a questo tema, ritengo che l’elemento principale che il rulemaker debba ponderare sia l’orizzonte temporale dell’investimento operato: l’attribuzione di diritti d’intervento/sollecitazione è rilevante per il money manager solo in una prospettiva almeno di medio termine (cioè, almeno più di un esercizio sociale), perché solo nell’ambito di tale timeframe è economicamente razionale la partecipazione assembleare e l’esercizio di tutte le possibilità a questa connesse. In altre parole, se si avesse la prova empirica che gli investitori istituzionali tendono a operare (in media) con un orizzonte meramente di breve periodo, modifiche normative che amplificano la voice sarebbero inutili, in quanto sarebbero (tendenzialmente) non utilizzate .

Una ulteriore riflessione riguarda il ruolo stesso che la partecipazione assembleare e, in generale, l’attivismo dell’azionariato assume nel contesto degli istituti di credito quotati. Come è noto, una delle principali (se non la principale) causa del financial turmoil del 2008 è stata l’eccessiva propensione al rischio da parte delle istituzioni finanziarie . Mentre la conventional wisdom dell’ultimo biennio ha attribuito questo eccessivo risk-taking agli amministratori delle banche, alcuni recenti studi empirici hanno mostrato come tale responsabilità debba essere attribuita soprattutto agli azionisti piuttosto che al board.

Lo stesso studio ha però sottolineato come sia i CdA che gli azionisti sono stati capaci di esercitare un monitoraggio ex-post, sostituendo i CEO che avevano riportato le peggiori performance : come si può facilmente evincere, tali evidenze sembrano porre in discussione l’assunto (sotteso a molte considerazioni di policy, a livello europeo e internazionale) che gli azionisti possano contribuire attivamente, con una loro maggiore partecipazione, alla sana e prudente gestione degli intermediari creditizi . Deve essere peraltro sottolineato queste non sono le uniche evidenze empiriche che, a seguito del “grande turmoil” del 2008, hanno messo in discussione la shareholder primacy come uno dei pilastri della banks good governance: ulteriori studi hanno evidenziato come le banche che abbiano “fatto peggio” in termini di performance sono anche quelle con una shareholder-friendly governance .

In generale, la stessa evidenza che le banche che si erano dotate dei “ritrovati” più moderni in tema di governo societario, soprattutto in relazione agli organi amministrativi (maggiore presenza di amministratori indipendenti e non-esecutivi nel CdA, nonché meccanismi incentivanti nella determinazione delle remunerazioni) sono state anche quelle che maggiormente hanno fatto ricorso, negli USA, al Troubled Asset Relief Program (TARP) .

Aldilà delle evidenze empiriche -e di un giudizio di merito sulla validità di una teoria piuttosto che dell’altra- rimane la sensazione che l’atteggiamento degli Autori a favore di una posizione o dell’altra sia stata largamente influenzata dalla Great Financial Crisis: spesso le ottime performance della Borsa di New York e in generale dell’economia americana nel decennio scorso sono state invocate come sostegno del mantenimento dello status quo (cioè del managerialismo del diritto societario USA); era quindi perfettamente logico attendersi che la crisi avrebbe seriamente revocato in dubbio tale assunto, spostando l’asse della bilancia verso posizioni più favorevoli alle tesi pro-azionisti.

Vogliamo chiudere il punto con una domanda: se il senso attribuito a tali evidenze venisse confermato in modo ancora più certo, non si dovrebbe ritenere che affidare il compito di monitoraggio a degli azionisti (come visto sopra) con velocissimi turnover delle partecipazioni detenute, e quindi con logiche di investimento “short-termiste” potrebbe andare ad acuire questo problema?

Un ulteriore punto che necessita di approfondimento, in un’ottica di “monitoraggio responsabile”, è quanto gli inventori istituzionali sono effettivamente propensi a contestare il management in sede assembleare, una supposizione che trova la sua base nella possibilità di conflitti d’interesse tra investitori e “investiti” .

Una survey complessiva sulla politiche di voto dei principali investitori, sia negli USA che nell’UE ha mostrato come tendenza generale, che una maggiore predisposizione a votare a favore degli amministratori (o quanto meno, a non sostenere apertamente proposte di altri azionisti) dipende dalla presenza o meno di un legal framework più favorevole agli azionisti che al management .

Uno studio recente pubblicato sulle politiche di voto di una importante categoria di money managers, gli exchange traded funds (ETF) ha mostrato, sulla scorta di un campione costituito dai primi sette operatori del settore a livello globale, la propensione a votare per il CdA piuttosto che per le proposte degli azionisti sembra correlata alle dimensioni degli operatori: i più grandi ETF sono quelli che hanno espresso più voti pro-managers, mentre i piccoli (forse, anche dal momento che tendono a fare maggiore affidamento sui servizi dei proxy advisors) sono più predisposti a sostenere le ragioni degli altri blockholders . Il dato che forse dovrebbe più essere interessante, ai fini di una valutazione critica della teoria del monitoring shareholders, si ricava dalla constatazione di un vero e proprio “effetto-gregge” per cui tutti gli operatori hanno votato, nella maggioranza dei casi, con la mozione risultata vincitrice, sia in senso assoluto che nel caso specifico delle proposte provenienti dall’azionariato.

Per quanto la questione dovrebbe essere ulteriormente indagata , sorge la considerazione che, alla prova dei fatti, l’(eventuale) scarso attivismo degli investitori istituzionali non debba essere collegato tanto a una presunta “sudditanza psicologica” nei confronti del board, quanto a una “sudditanza” nei confronti dell’opinione prevalente che si forma tra i vari stakeholder della società - rischio, a nostro avviso, ben più grave-.

B. Un’analisi empirica su attivismo e performance

A quest’ultima parte delle conclusioni deve essere necessariamente premesso che, come sottolineato da alcuni , evidenziare possibili legami causali, sia in senso positivo che negativo, tra attivismo dell’azionariato (specialmente istituzionale) e performance è un’operazione estremamente complessa sia sotto il profilo qualitativo (quali comportamenti sono attivisti? ) che quantitativo (esiste una relazione causale tra attivismo e mutamenti nel governo societario? E tra questi e l’andamento dell’impresa?). Le indicazioni della letteratura empirica esistente devono essere distinte sotto due profili: (i) l’attivismo degli investitori istituzionali “tradizionali” e (ii) il c.d. new activism, proprio dei fondi hedge.

In relazione al primo punto, i dati empirici riscontrano che l’attivismo non produce significativi mutamenti nell’andamento della performance aziendale (prezzo delle azioni, valori di bilancio, etc.), né nel breve periodo che nel medio-lungo (da uno a tre anni).

Tale dato si riferisce in particolare alle forme di attivismo “pubblico” (come ad es., le proxy fights nelle società USA) , che dovrebbero essere particolarmente favorite, nell’ottica delle riforme legislative degli ultimi anni. A nostro modo di vedere non sembra ci siano evidenze certe che pratiche informali di moral suasion producano invece rendimenti anormali (in senso positivo), ma vale la pena sottolineare che alcuni Autori hanno rinvenuto aumenti rilevanti, sotto il profilo statistico, dei corsi azionari successivi a composizioni amichevoli di dispute con il management o a forme di pressione informali (cioè, non portate in assemblea) sullo stesso . Sono state invece riscontrate, sul piano statistico, una correlazione statisticamente significativa tra attivismo e mutamenti dei modelli organizzativi, in particolare sotto il profilo delle ristrutturazioni aziendali .

Un’ulteriore considerazione che emerge da alcuni articoli, che potrebbe essere particolarmente rilevante in un’ottica di policy, è che non sono stati riscontrati effetti di spillover, in termini di stimolo all’attivismo, nei confronti di altre società . Deve essere tenuto in debito conto, a ogni modo, che l’indagine economica sul fenomeno sembra essersi arrestata, in quanto oggi l’attenzione sembra essere catturata soprattutto dal new activism degli hedge funds.

Per quanto attiene il secondo “filone”, le principali indagini condotte sembrano dimostrare, in modo più reciso rispetto al primo, una correlazione positiva tra interventi “attivisti” degli hedge funds e miglioramenti della performance. In particolare, i maggiori rendimenti, nel breve periodo (un mese massimo successivo alla diffusione della notizia sul mercato) sarebbero anche qui associati a “ristrutturazioni”, intese in senso lato, della struttura sociale della target company . Secondo lo studio, l’intervento sarebbe salutare anche in una prospettiva di medio-lungo termine, in quanto si registrano aumenti dei profitti operativi (indice ROA, return on assets) tra lo 0,30 e lo 0,50% . Un ulteriore punto di contatto con l’attivismo istituzionale tout court è dato dalla maggiore redditività delle forme “private” di attivismo rispetto a quelle pubbliche .

Tale dato è stato confermato anche da un recente (e noto) case study sul fondo britannico Hermes , ripreso anche dalla pubblicistica scientifica italiana . Il dato, a nostro parere, più interessante dello studio è che quanto riporato si collega con quanto alcuni avevano già sostenuto in via teorica: si può inferire, infatti, che le forme d’intervento “informale”, generando i rendimenti più alti, sono evidentemente anche le più convenienti sotto l’aspetto costi-benefici.

In conclusione di questa rapida carrellata di dati, si può quindi concludere che la produzione di risultati di massimizzazione dello shareholder value da parte dell’attivismo degli azionisti sembra essere un fenomeno limitato all’intervento di specifiche categorie di money managers e alla seconda metà del decennio scorso. Il profilo che rende maggiormente scettici sull’ampliamento della voice però è, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la maggiore profittabilità di strumenti di pressione informale sul CdA; non tanto perché maggiori diritti per gli azionisti siano indesiderabili (anzi potrebbero essere anche auspicabili in alcuni contesti) ma perché tendenzialmente inutili. Il rischio, pertanto, è quello di complicare ulteriormente il quadro normativo, con conseguente ampliamento di possibili azioni opportunistiche a scapito degli amministratori e delle altre categorie di azionisti.

Non sono mancate, peraltro, teorie che, muovendosi nella medesima ottica di tutela degli azionisti, hanno proposto l’imposizione (o.meglio, ampliando la particolarmente ristretta disciplina) in capo agli azionisti “attivisti” degli specifici doveri fiduciari verso gli altri corporate stakeholders. Cfr. ANATWABI-STOUT,Fiduciary duties for activist shareholders, in (60) Stanford Law Review, 2008, pp. 1255 ss. A tal proposito, ci preme sottolineare due aspetti: (i) l’idea di una responsabilizzazione sul piano civile degli “attivisti” potrebbe essere vista, in una prospettiva di policy, come un’alternativa ai diritti di voice, almeno sotto il profilo della tutela contro eventuali atti di opportunismo commessi da altri membri della compagine sociale; (ii) la soluzione è, ovviamente di difficile importazione nel diritto italiano (in quanto i doveri fiduciari sono un prodotto tipico della common law), ma una impostazione simile potrebbe essere perseguita valorizzando la responsabilità aquiliana ex 2043 c.c. (a tacere del fatto che per le SRL la riforma del 2003 ha già previsto, anche se per ipotesi molto limitate una responsabilità del socio: (art. 2476 c.5: Sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi)

Rectius, aver impostato la questione del rapporto azionisti-management come un problema di agenzia ha portato la letteratura successiva a chiedersi quali strumenti potessero essere adottati per salvaguardare gli interessi degli azionisti. Cfr. BLAIR-STOUT, A team production theory of corporate law, in (85) Virginia Law Review, 1999, p. 252. Tale considerazione ci permette di specificare che, ovviamente, il dibattito che riportiamo attiene segnatamente il contesto USA, sia in punto di diritto (diritto societario statale, in particolare del Delaware e securities regulation federale) che di fatto (la grande public corporation quotata su mercati particolarmente liquidi).

8 DELAWARE CODE, Cap.1, Tit. 8, § 242(b); MODEL BUSINESS CORPORATION ACT (MCBA) § 10.03.

8 DELAWARE CODE, Cap.1, Tit. 8, § 109(a,b); MCBA § 2.06(b).

Uno dei precursori della tesi della shareholder primacy ha sostenuto difatti che sia in larghissima parte la legislazione vigente a limitare l’attivismo (soprattutto) degli investitori istituzionali, contestando quindi quelle letture che vedono gli azionisti come passivi di per sé. V. BLACK, Shareholder passivity reexamined, in (89) Michigan Law Review, 1990, pp. 521-526 (esposizione della tesi) e pp. 529-560 (descrizione della normativa). Deve però essere rilevato che l’impostazione dell’Autore rischia di non reggere una verifica controfattuale: può essere escluso così facilmente che il diritto statunitense non si sia formato in senso pro-manageriale in risposta allo scarso interesse degli azionisti? Per quanto oggi siano state introdotte alcune norme (come la SEC rule 14a-11, che vederemo sotto) che vanno a favore degli azionisti, la linea di policy “managerialista”, specialmente del diritto del Delaware, non è affatto mutata e, ciò nonostante, si è assistito a un grande attivismo degli investitori istituzionali. Mentre Black sostiene che law preceeds business, sembra invece che business preceeds law.

BEBCHUCK, The myth of the shareholder franchise,in (93) Virginia Law Review, 2007, pp. 688-691.

BEBCHUCK, The myth, cit., pp. 675 ss.

Tale proposta è divenuta recentemente una regola SEC: secondo la rule 14a-11 (17 CFR 240.14a-11) gli emittenti sono obbligati a inserire nei proxy statements i nominativi dei candidati presentati da un azionista (o un gruppo di azionisti) che sia (i) titolare di almeno il 3% del voting power e (ii) possiedano tale partecipazione da almeno tre anni rispetto al giorno in cui la convocazione dell’assemblea viene comunicata alla SEC. V. http://www.sec.gov/rules/final/2010/33-9136.pdf

A condizione che la lista ottenga almeno una certa percentuale di voti (in modo da evitare la presentazione di “liste temerarie”).

BEBCHUCK, The myth, cit., pp. 707-711. In particolare, mentre gli azionisti dovrebbero poter (modificando la SEC rule 14a-8) di poter mettere ai voti qualunque tipo di modifica delle bylaws. Secondo l’Autore, come first best l’ordinamento dovrebbe consentire l’opting-out solo con una deliberazione dell’assemblea, su proposta presentabile unicamente dagli azionisti; se ciò non fosse praticabile, come second best non consentire agli amministratori di poter modificare o annullare le modifiche statutarie deliberate.

BEBCHUK, The case for increasing shareholder power, in (118) Harvard Law Review, 2005, p. 833 ss. E’ significativo che l’Autore elabori la sua tesi partendo da un raffronto con il diritto britannico, in cui -come abbiamo visto sopra-

Sul punto v. anche BEBCHCK-FERRELL-KRAAKMAN-ROE-SUBRAMANIAN, Placing election bylaws on the ballott, amicus curiae brief presentato nel caso American federation of State, County & Municipal employees Pension Plan v. American International Group (462 F.3d 121, 2nd Circ.), 2005, disponibile presso il SSRN.

BEBCHUK, The case for, cit., p. 875.

BEBCHUK, The case for, cit., pp. 865-867.

STRINE, Toward a true corporate republic: a traditionalist response to Bebchuk’s solution for improving corporate America, in (119) Harvard Law Review, 2006, p. 1759 ss.

Questa è la sintesi estrema della concezione della “primazia degli amministratori” (soprattutto in relazione alla posizione del principale capofila di tale dottrina, il Prof. Stephen Bainbridge della University of California at Los Angeles, UCLA) secondo BEBCHUK, Letting shareholders set the rules, in (119) Harvard Law Review, 2006, p. 1785.

Si deve riconoscere che, pur con varie sfumature che andremo a vedere nel proseguio, questa riflessione costituisce sostanzialmente l’architrave “ideologico” delle teorie “pro-amministratori”. Su tale tesi v. BAINBRIDGE, Shareholder activism and istitutional investors, UCLA Law School Law £ Economics Research Paper No. 05-20, settembre 2005, pp. 6-10; BAINBRIDGE, Director primacy and shareholder disempowerment, in (119) Harvard Law Review, 2006, pp. 1746-1751.

STOUT, The mythical benefits of shareholder franchise, in (93) Virginia Law Review, 2007, p.792. Che il diritto dovrebbe favorire la capacità degli amministratori di assumere decisioni “in modo veloce ed efficiente come richiesto dal commercio moderno” viene evidenziato da STRINE, Toward a true corporate republic:, cit, p. 1763.

BAINBRIDGE, Shareholder activism, cit., p. 6.

LIPTON-SAVITT, The many myths of Lucian Bebchuk, in (93) Virginia Law Review, 2007, p. 748-749.

BAINBRIDGE, Shareholder activism, cit., p.11

La constatazione viene espressa soprattutto in relazione ai fondi pensione dei dipendenti pubblici e dei fondi sindacali, che secondo molti Autori hanno operato soprattutto con finalità di creazione di consenso politico per i loro amministratori. Cfr. BAINBRIDGE, Director primacy, cit., p. 1755.

Sul tema, un profilo che ci sembra maggiormente pregnante è quello rimarcato da STRINE, Toward a true corporate republic, cit., p. 1765; secondo il quale il grande affidamento riposto dagli investitori istituzionali nelle raccomandazione espresse dai proxy advisor rischia di aggiungere “un ulteriore livello di agenzia (sic)”.

In altri termini, secondo questi Autori, i mercati (del lavoro, dei capitali primario e secondario, del controllo societario…) costituiscono il principale strumento di responsabilizzazione dei directors. V. BAINBRIDGE, BAINBRIDGE, Shareholder activism, cit., p. 7. Lo studio basilare sul mercato per il controllo societario è MANNE, Mergers and the market for corporate control, in (73) Journal of Political Economy, 1965, pp. 110 ss. Di estremo interesse inoltre la distinzione operata da un Autore che molto si è interessato al tema dei diritti degli azionisti (ZETZEZCHE, Explicit and implicit systems of corporate control: A convergence theory of shareholders’ rights, Heinrich-Heine-University of Dusseldorf Center for business and corporate law Researc Paper Series n. 1; settembre 2004, disponibile presso il SSRN) tra sistemi “impliciti” di controllo del management, cioè che si basano principalmente sull’ “effetto disciplina” dei mercati di riferimento (sistema anglo-americano), e sistemi “espliciti” di controllo che fanno affidamento sull’influenza diretta sugli amministratori da parte dei diritti dell’azionariato (Europa continentale).

Dovrebbe essere però rilevato che, nel caso di fondi indexed (cioè la cui politica d’investimento tende a replicare quella di un intero indice borsistico, per mezzo di una massiccia diversificazione del portafoglio, che ingloba appunto tutte le azioni dell’indice di riferimento), la possibilità di optare per la Wall Street Walk diventa molto difficile (GILLAN-STARK, The evolution of shareholder activism in the United States, working paper disponibile presso il SSRN, 2007, p. 6). In tali situazioni, la possibilità di utilizzare utilmente strumenti di voice (sia formali che informali) è nettamente l’opzione più valida per l’investitore.

LIPTON-SAVITT, The many myths, cit., p. 743.

ANABTAWI, Some skepticism about increasing sharegolder power, in (53) UCLA Law Review, pp. 561 ss.

Vengono elencati dall’Autrice almeno cinque axis of division: (i) azionisti “longtermisti” e “shortermisti”; (ii) azionisti con portafogli diversificati e non; (iii) azionisti insider (che, cioè, hanno effettuato investimenti firm-specific e sono quindi notevolmente esposti ai profili di rischio dell’impresa, ad es., lavoratori-azionisti) e outsider; (iv) azionisti con interessi puramente economici e azionisti che perseguono obiettivi politico-sociali; (v) azionisti risk-hedged e non risk-hedged. ANABTAWI, Some skepticism, cit., pp. 577-593.

BLAIR-STOUT, A team production theory of corporate law, in (85) Virginia Law Review, 1999, pp. 247 ss. (Sulle teorie “tradizionali”, in particolare, pp. 257-265).

Come giustificazione dell’esistenza dei CdA, la mediating theory viene sostenuta, in opposizione alla monitoring theory sostenuta dai fautori dell’agency theory, da STOUT, Shareholder as Ulysses: some empirical evidence on why investors in public corporations tollerate board governance, in (152) University of Pennsylvania Law Review, 2003, pp. 667 ss.

BLAIR-STOUT, A team production theory, cit., p. 253

BLAIR-STOUT, A team production theory, cit., pp. 287-293. Ci sembra che implicitamente, gli Autori critichino i sostenitori delle tesi “pro-azionisti” per aver confuso l’accezione economica del problema di agenzia con la problematica giuridica dell’agency law (cioè della rappresentanza di civil law).

COASE, La natura dell’impresa, ed. it. in Un’introduzione alla storia dell’impresa (a cura di AMATORI-TORINELLI), Milano, 1999, pp. 41 ss. Sul tema, si segnala che autorevolissima dottrina giuseconomica ha ritenuto che lo stesso meccanismo di voto legato alle azioni (share voting) sia un modo con cui l’ordinamento consente il gap-filling degli accordi endosocietari, v. EASTERBROOK-FISCHEL, Voting in corporate law, in (26) Journal of Law and Economics, 1983, p. 402.

Il jawboning, a seconda della finalità che tende a perseguire, può caratterizzarsi come “difensivo”, se volto a proteggere dell’investimento; oppure “offensivo” se volto a massimizzare il valore per l’azionista, correggendo inefficienze gestionali. Cfr. ARMOUR-CHEFFINS, The rise (and fall?) of shareholders’activism by hedge funds, ECGI Law Working Paper n. 136/2009, settembre 2009, pp. 2-3.

POZEN, Institutional investors: the reluctant activist, in Harvard Business Review, gennaio-febbraio 1994, p. 146.

Merita di essere citato, sul punto, lo studio di BECHT-FRANKS-GRANT, Hedge Funds Activism in Europe, ECGI Finance Working Paper n. 283/2010, maggio 2010, disponibile presso il SSRN. Lo studio ha riscontrato (in contrasto con quanto sostenuto dai commentatori che appoggiano le pratiche di jawboning) che, prendendo a campione quasi 305 forme di attivismo nei principali Paesi dell’UE, l’ “intervento pubblico” (public engagement) genera rendimenti anomali (rispetto alla media del mercato) più alti rispetto a quelli privati; anche se questo dato è da imputare soprattutto alle OPA ostili. Inoltre, la produzione di rendimenti anomali più alti sembra essere più collegata allo “stile” del fondo (cioè se è un fondo esclusivamente attivista, piuttosto che multy-strategy) che non all’influenza dei diversi regimi giuridici nazionali.

Anche da parte di Autori favorevoli all’empowerment si è riconosciuto che alcuni investitori istituzionali hanno tassi di turnover delle partecipazioni azionarie vicine al 70% all’anno, tanto da rendere di difficilissima attuazione norme come la SEC rule 14a-11. V. ZINGALES, Board Usa senza ponti levatoi, IlSole24Ore, 28/10/2010. La “difesa” dei fondi hedge in questa materia portata avanti da BRIGGS, Corporate governance and the new hedge funds activism: an empirical analysis, in (32) Journal of Corporation Law, 2006, pp. 701-703, per quanto suffragata da alcuni dati, non mi sembra molto convincenti in quanto si basa più su di un event study che su di una valutazione quantitativa sul livello di turnout delle partecipazioni.

Il risk appetite delle istituzioni finanziarie è un aspetto fondamentale della regolamentazione di vigilanza: è noto infatti che la banca aumenta i suoi profitti solo aumentando il volume delle somme prestate ai prenditori, ma questo a un tempo pone a rischio la stabilità dell’istituto in quanto può portare a un utilizzo eccessivo della leva finanziaria. La regolamentazione interviene quindi moderando l’assunzione di rischio da parte dell’istituto, onde evitare che la massimizzazione del profitto possa pregiudicare l’esistenza stessa della singola banca e quindi la stabilità dell’intero sistema creditizio. Cfr. MULBERT, Corporate governance of banks after the crisis: theory, evidence, reforms, ECGI Law Working Papers n. 130/2009, aprile 2010 (II versione), p. 10.

ERKENS-HUNG-MATOS, Corporate governance in the 2007-2008 financial crisis: evidence from financial institutions worldwide, dicembre 2009, disponibile presso il SSRN, pp. 16-17.

ERKENS-HUNG-MATOS, Corporate governance, cit., p. 14.

Di non poco momento è ovviamente anche la possibile relazione tra propensione al rischio e struttura proprietaria della banca. Già alcuni studi seminali (JENSEN-MECKLING, Theory of the firm: managerial behavior, agency costs and ownership structure, in (3) Journal of Financial Economics, 1976, pp. 305 ss.) avevano individuato una correlazione positiva- nelle imprese in generale- tra concentrazione della proprietà e risk-taking). LAEVEN-LEVINE, Bank governance, regulation and risk taking, in (93) Journal of Financial Economics, 2009, p. 259 ss., hanno individuato che tale relazione positiva esiste anche nel settore bancario, e che la stessa si mantiene anche in presenza di una regolamentazione di vigilanza sia quantitativa (ammontare di capitale che deve essere detenuto) che qualitativa (definizione di quali strumenti finanziari sono eleggibili come capitale). Quest’ultimo studio ha individuato come “grandi azionisti” i soggetti che detengono almeno il 10% dei diritti di voto, direttamente o indirettamente (p. 261). Indicazioni simili sono contenute anche in SAUNDERS-STOCK-TRAVLOS, Ownership structure, deregulation and bank risk taking, in (45) Journal of Finance, 1990, pp. 643 ss.: secondo gli Autori, banche controllate da azionisti (misurate secondo la proporzione di azioni detenute dai manager) rispetto a banche controllate da manager professionisti tendono a essere più inclini al rischio, specialmente in fasi storiche di “deregolamentazione”.

BELTRATTI-STULZ, Why did some banks performed better during the crisis? A cross-country study on impact of the impact of governance and regulation, ECGI Finance working paper n. 254/2009, luglio 2009, p. 15. Anche gli Autori sostengono che la ragione di questo risultato sia stata l’eccesiva propensione al rischio degli azionisti, v. pp. 17-18.

ADAMS, Governance and the financial crisis, ECGI Finance Working Paper n. 248/2009, aprile 2009, p. 13.

Secondo BIANCHI-ENRIQUES, Corporate governance in Italy after the 1998 reform: what role for institutional investors?, Quaderni di Finanza CONSOB n. 43, gennaio 2001, pp. 11-12; possono sussistere due tipologie di conflitti d’interesse in quest’ambito: (i) “reciprocità”: se entrambi i soggetti sono quotati, gli investitori possono preferire una presenza low profile in altre società quotate per evitare che questi possano subire, a loro volta, “interferenze” da parte di altri; (ii): “ambito di operatività”: se l’investitore offre anche servizi di consulenza o di banca d’affari, egli potrebbe optare per la passività onde evitare di perdere delle future occasioni d’affari. Sarebbe interessante appurare se gli Autori si riferiscono a ipotesi di passività “pura”, cioè di totale non intervento negli affari sociali, oppure se ricomprendano anche casi di “complicità” con il CdA – come stiamo facendo - .

SANTELLA-BAFFI-DRAGO-LATTUCA, A comparative analysis of the legal obstacles, cit.

SANTELLA-BAFFI-DRAGO-LATTUCA, A comparative analysis of the legal obstacles, cit., p. 38. E’ doveroso segnalare che l’andamento della tendenza sembra coerente con la teoria Law and Finance, in quanto la maggiore propensione a votare per il management sussiste nei Paesi di common law, per poi scendere progressivamente nei Paesi di civil law tedesca e, infine, francese; seguendo il trend riscontrato dalla teoria sul livello di protezione giuridica degli outsider investors.

IRRC Institute-ProxyGovernance, Proxy Voting by Exchange Traded Funds, giugno 2009, disponibile al sito: http://www.irrcinstitute.org/pdf/FINAL%20ETF%20Study%20-%20June%2030,%202009.pdf.

IRRC Institute-ProxyGovernance, Proxy Voting by Exchange Traded Funds, cit., pp. 22-25.

Ovviamente tale analisi andrebbe estesa alla generalità degli investitori istituzionali, per poterne ricavare considerazioni di sistema. Inoltre, siamo coscienti che qualcuno potrebbe sostenere che si sta scambiando la causa con l’effetto, cioè che quelle mozioni sono passate proprio per via dell’appoggio da parte dell’institutional shareholder e che quindi tale evidenza non potrebbe essere considerato un sintomo di passività, bensì di attività: anche sul punto sarebbero necessarie ulteriori indagini.

GILLAN-STARK, The evolution, cit., pp. 16-17.

Un autore in particolare (KARPOFF, The impact of shareholder activism on target companies: a survey of empirical findings, working paper disponibile presso il SSRN, 2001, pp. 9-11) ha mostrato come le (spesso) estremamente diverse conclusioni delle indagini empiriche dipendano, inter alia, dalle profonde divergenze “classificatorie” della letteratura.

Cfr. gli studi citati da ROMANO, Less is more: making shareholder activism a valued mechanism of corporate governance, Yale Law School Program for Studies in Law, Economics and Public Policy Working Paper n. 241, maggio 2000, pp. 19-25, disponibile presso il SSRN. Di particolare interesse è la constatazione dell’Autrice che, riportando altri studi, il collegamento causale tra forme di attivismo e scarso rendimento dello stesso sarebbe da attribuire alla scarsa redditività di molte delle proposte di modifica del governo societario comunemente sostenute dagli attivisti (eliminazione delle poison pills, maggiore presenza di amministratori indipendenti, de-staggering del CdA, politiche di remunerazione), pp. 25 ss. In senso conforme (anche se l’ipotesi dell’Autore è che la scarsa performance sia dovuta a uno scarso attivismo in sé degli investitori istituzionali) v. BLACK, Shareholder activism and corporate governance in the United States, working paper disponibile presso il SSRN, novembre 1997.

KARPOFF, The impact, cit., p. 13

KARPOFF, The impact, cit., p. 17.

KARPOFF, The impact, cit., p. 31.

Tali evidenze, raccolte sul mercato USA, sono contenute in BRAV-JIANG-PARTNOY-THOMAS, Hedge funds activism, corporate governance and firm performance, FDIC Centre for Financial Research working paper N. 2008-06, maggio 2008, disponibile presso il SSRN. Secondo gli Autori, l’attività più remunerativa è la ridefinizione dell’oggetto sociale, con esclusione delle attività non-core (+ 8,54% nei corsi azionari); mentre le ricapitalizzazioni, vendite di asset e riacquisto di azioni mostrerebbero correlazioni positive, ma inferiori all’1% (pp. 23-32).

BRAV-JIANG-PARTNOY-THOMAS, Hedge funds activism, cit., pp. 32 ss. Gli Autori, difatti, contestano che i fondi speculativi siano da considerare per natura “short-termisti”, in quanto i valori medi di possesso azionario si collocano attorno all’anno (v. p. 4); un valore che, dalla prospettiva dell’Europa continentale, sembra però difficile definire di lungo periodo.

BECHT-FRANKS-GRANT, Hedge funds activism in Europe, ECGI Finance working paper n. 283/2010, maggio 2010, disponibile presso il SSRN, pp. 20-22 (interventi pubblici) e 22-24 (interventi privati). In entrambe le categorie, si registra una maggiore profittabilità delle operazioni ostili rispetto a quelle “amichevoli”.

BECHT-FRANKS-MAYER-ROSSI, return sto shareholder activism: evidence from a clinical study of the Hermes UK focus fund, in (22) Review of Financial Studies, 2009, pp. 3094 ss. In particolare vengono citati anche qui rendimenti superiori dell’8% all’andamento nello stesso periodo (1998-2004) dell’indice FTSE; di cui deve essere notato che, come valore medio, intorno al 6% viene generato da attività di restructuring (pp. 3108 ss.).

NICODANO, Dove porta l’attivismo degli hedge funds, Lavoce.info, 8/7/2008.

Per la prima parte di quest'articolo vedi:

http://filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=3046

L’evoluzione delle strutture proprietarie e, in particolare, l’”ascesa” degli investitori istituzionali come membri di rilievo delle compagini sociali ha portato, negli ultimi vent’anni, a un intenso dibattito di law and economics su quanto sia opportuno conferire agli azionisti poteri di voice che influenzino effettivamente sulla gestione della società . Queste considerazioni devono essere recepite dall’interprete italiano cum grano salis, dal momento che, essendo maturate in seno all’esperienza statunitense, sono pensate tenendo conto della notevole dispersione dell’azionariato nelle public companies. Mentre nei primi due paragrafi esporremo gli argomenti pro e contro lo shareholder activism, il terzo presenterà alcune conclusioni critiche.

1. Le tesi favorevoli all’attivismo

Alcuni commentatori statunitensi hanno notato che le tesi favorevoli a un rafforzamento delle prerogative degli azionisti sono antiche quanto la tradizionale analisi di Berle-Means . L’assunto fondamentale di queste teorie risiede nel considerare che un maggiore capacità di controllo dell’operato degli amministratori da parte degli azionisti, in particolare rendendo più “contendibile” la presenza nel board, massimizzerebbe il valore per gli azionisti e in generale migliorerebbe la performance dell’impresa.

Tale teoria trova il proprio spunto, oltre che nella constatazione delle problematiche di agency endosocietarie, nel forte orientamento “pro-managerialistico” del diritto societario americano: le principali decisioni sulla vita sociale (modificazione della residenza e dell’atto costitutivo) possono infatti essere presentate all’assemblea esclusivamente dal CdA , mentre il potere assembleare di modificare lo statuto viene limitato dall’obbligo di coerenza delle bylaws con il certificate of incorporation . Inoltre, il framework giuridico limita l’attivismo azionario non solo direttamente ma anche indirettamente, innalzando oltremodo le spese che i challengers sono chiamati a sostenere: a tal proposito, possono essere citate a titolo d’esempio le costosissime sollecitazioni di deleghe e il trattamento asimmetrico del rimborso dei costi nel caso di sconfitta -mentre gli amministratori in carica possono “scaricare” tali spese sulla società, gli sfidanti li sopportano integralmente senza possibilità di rivalsa, con ovvi problemi anche in termini di free riding -.

Non è un caso infatti che uno dei massimi sostenitori delle tesi shareholder primatist abbia dedicato un recente saggio ad avanzare un’articolata proposta di riforma del sistema di elezione dei directors che si basa su:

(i) possibilità di inserire, da parte di alcune minoranze qualificate (sia per la durata che per la rilevanza della partecipazione), i propri candidati nelle liste ;

(ii) rimborso da parte della società delle spese sostenute dagli “sfidanti” ;

(iii) rendere possibile la sostituzione di tutti gli amministratori con scadenza almeno bi/triennale;

(iv) introduzione di un voto “contro” il candidato della società;

(v) anonimità del voto. Il sistema prospettato dall’Autore è derogabile; in quanto egli riconosce che ogni impresa dovrebbe essere libera di adattare la normativa al proprio caso specifico, ma nel contempo l’eventuale opting-out dovrebbe essere reso più facile per gli azionisti e più difficoltoso per il board .

L’ampiezza della tematica, che di per sé investe il nucleo basilare del diritto societario, ha portato anche all’elaborazione di proposte di riforma non limitate esclusivamente al tema del meccanismo elettorale, ma più in generale dei poteri decisionali/d’intervento degli azionisti: anche qui, un voluminoso saggio dell’illustre professore di Harvard, maggiore esponente delle teorie favorevoli allo shareholder enpowerment , ha illustrato numerosi profili passibili di riforma:

(i) facoltà per gli azionisti di modificare le proposte avanzate dal management, abbandonando l’attuale take-it-or-leave-it approach;

(ii) potere di presentare e approvare autonomamente emendamenti allo statuto sociale, oltre che cambiare il luogo di residenza della società (cc.dd. rule-of-the-game decisions) ;

(iii) potere di adottare determinazioni vincolanti in merito alla vita della società (fusioni, vendita di tutti gli asset, cc.dd. game-ending situations) e sulla distribuzione dei dividendi e pagamenti similari (c.d. scaling down).

Per evitare abusi, dovrebbero essere soddisfatti requisiti di ownership e, soprattutto, la delibera dovrebbe essere “confermata” con due determinazioni consecutive, in due distinte assemblee . Secondo l’Autore, la riforma massimizzerebbe il valore per gli azionisti consentendo l’eliminazione di previsioni statutarie che sono frutto di una “distorsione” pro-amministratori formatasi nel corso del tempo: difatti, viene auspicato che tale sistema sia un reverse default: la legge dovrebbe prevedere in prima battuta il sistema più a favore degli azionisti, consentendo modifiche pro-manager solo se gli azionisti riconoscono che queste possano essere massimizzanti dello shareholder value . Come si può notare, la ratio è sostanzialmente assimilabile a quella del meccanismo previsto per il sistema elettorale.

Vale la pena di prendere in considerazione anche una proposta di riforma shareholder empowering, che trova però la sua base concettuale in una posizione sostanzialmente middle ground tra le posizioni “pro-azionisti” e “pro-manager” .

Secondo l’Autore, dati i benefici prodotti dalla centralizzazione del processo decisionale in capo al board, gli azionisti non dovrebbero poter intervenire nelle decisioni di business, in particolare quelle categorie (come gli investitori istituzionali) che sono motivati da interessi di breve periodo/perseguono una social agenda. La riforma dovrebbe essere orientata soprattutto ad assicurare una vera accountability mediante la contendibilità del board, per mezzo dell’inserimento di liste di candidati proposte da minoranze qualificate (sia sotto il profilo della quantità del possesso azionario che della sua durata).

Tale proposta, come abbiamo visto, è oggi prevista direttamente dalla regolamentazione secondaria posta dalla SEC, ma deve essere rilevato che l’Autore ritiene che tale modifica dovesse essere attuata a livello statale e non federale.

2. Le dottrine directors primatists

Rispetto alle tesi sullo shareholder empowemrent, che si basano tutte in ultima istanza sulla necessità di assicurare un adeguato “potere di monitoraggio” agli azionisti; le tesi che (sostanzialmente) sostengono il mantenimento dello status quo si basano su molteplici argomentazioni, spesso mostrando anche tra i vari Autori una svariata latitudine in termini di approcci alla problematica.

La prima tesi che possiamo enucleare ritiene che l’attuale assetto del bilanciamento dei poteri tra assemblea e board sia sostanzialmente “il migliore dei mondi possibili”, nel senso che la centralizzazione dei poteri decisionali in capo al board rappresenta il sistema più efficiente di gestione dell’impresa .

Gli assertori della tesi ritengono che l’accentramento del decision making sia indispensabile per consentire la soluzione di quei problemi di azione collettiva che inevitabilmente si pongono in presenza di un azionariato diffuso come quello delle listed companies americane ; specialmente se gli azionisti non possiedono né le informazioni né gli incentivi necessari per esercitare, in modo consapevole, un controllo sull’organo gestorio : una diversa impostazione dei rapporti tra amministratori e azionisti porterebbe a board incapaci di gestire l’impresa, “balcanizzati” secondo gli interessi dei vari gruppi di azionisti e soggetti in ultima istanza a un vero e proprio potere di ricatto .

A questa impostazione seguono due “corollari” degni di nota: da un lato; che l’attivismo degli investitori istituzionali è limitato, essendo una caratteristica solo di alcune categorie (e peraltro, tale attivismo sembra spesso orientato al perseguimento di obiettivi altri rispetto alla massimizzazione del valore ); dall’altro, che un maggiore potere decisionale degli azionisti non risolve il problema di agency, ma si limita semplicemente a spostarne il punto focale: i possessori di quote di fondi comuni e altri investitori hanno dimostrato la stessa “apatia razionale” imputata agli azionisti di società, con la conseguenza che il problema di agenzia si sposterebbe, in caso di accoglimento delle proposte “pro-azionisti”, dalle società agli investitori istituzionali .

L’assetto complessivo, sostengono tali Autori, è il migliore possibile anche perché il mercato fornisce di per sé gli strumenti per disciplinare il management: da un lato, abbiamo la Wall Street Rule, dall’altro il mercato per il controllo societario (che, peraltro, vede il “parlare con i piedi” come il necessario presupposto di tale meccanismo) . Del resto, si chiedono questi autori con un’argomentazione controfattuale: se davvero un rafforzamento dei diritti degli azionisti è davvero desiderabile, perché le società non modificano i loro statuti in tale direzione?

Una seconda teoria attiene in generale la posizione degli azionisti. Secondo tale impostazione , la “platea” degli azionisti è composta non da soggetti con identici interessi (e tutti tendenzialmente orientati, come obiettivo, alla massimizzazione dello shareholder value); ma che questi abbiano tra di loro interessi privati contrastanti che, qualora maggiori poteri venissero conferiti agli azionisti, li eserciterebbero al fine di estrarre benefici privati, a danno quindi degli “altri” azionisti e delle altre corporate constituencies, e non per massimizzare il long-term value. A nostro avvisto, sono due gli elementi di particolare interesse di questa dottrina: da un lato ha posto in risalto il ruolo che la grandissima crescita dell’ “ingegneria finanziaria” ha avuto anche sulla posizione degli azionisti (basti pensare, in relazione al nostro Paese, alla maggiore libertà concessa dal legislatore della riforma del 2003 alle SpA nella definizione degli elementi costitutivi dell’azione); dall’altro, per aver sottolineato come il problema del self-dealing non sia limitato –in un contesto di azionariato disperso- solamente agli amministratori ma anche agli azionisti.

La terza ricostruzione “pro-manager” prende spunto da una diversa impostazione dei rapporti endosocietari, che si pone in chiave alternativa sia al tradizionale agency problem à la Berle-Means che alla dottrina dei diritti di proprietà, che analizza l’assegnazione dei diritti di proprietà in funzione di chiusura delle lacune presenti nelle relazioni contrattuali. Secondo la teoria della team production , le business organizations si caratterizzano non tanto per i rapporti verticali tra principali e agenti, quanto per la collaborazione “orizzontale” tra i soggetti che partecipano a vario titolo al funzionamento della firm.

La presenza di una struttura gerarchica che sorge a seguito di un act of incorporation con cui i membri del team si spogliano dei loro diritti di controllo delegandoli all’”organo di comando” persegue, in questa prospettiva, una funzione non solo di monitoraggio contro i possibili atti di opportunismo e free-riding che possono essere posti in essere, e che sono in questo contesto particolarmente dannosi data l’alta “illiquidità” degli investimenti firm-specific (si pensi, ad es., alla prestazione lavorativa); ma anche di mediazione tra le varie dispute che possono sorgere tra i componenti del team in tema di allocazione dei compiti e delle ricompense .

Tale impostazione, a detta degli Autori, comporta che la problematica della tutela degli azionisti dall’opportunismo degli azionisti-manager è semplicemente malposta: il board non protegge gli azionisti, ma la totalità degli investimenti di tutti i componenti dell’organizzazione-team .

A riprova di tale impostazione, secondo gli Autori, si deve tenere a mente che secondo il diritto USA gli amministratori non possono essere considerati (giuridicamente) degli agenti degli azionisti, vista la loro discrezionalità nella gestione aziendale (tutelata anche giudizialmente con la business judgement rule), non soggetta a poteri di direzione da parte degli azionisti. Gli amministratori sarebbero semmai dei trustees con doveri nei confronti della società, persona giuridica autonoma, e la stessa struttura delle azioni giudiziali “derivate” (derivative suits) conferma tale impostazione, in quanto l’azione viene proposta non nell’interesse della categoria degli azionisti ma sostanzialmente di tutte le corporate constituencies .

A nostro parere, nella teoria della team production si possono scorgere echi della concezione dell’impresa del Premio Nobel Ronald Coase, secondo il quale l’impresa nasce come strumento alternativo al meccanismo di price-alloting da parte del mercato, in quanto capace rispetto a quest’ultimo (in date circostanze) di ridurre i costi di transazione tra i vari operatori mediante l’attribuzione all’imprenditore di un potere direttivo che è sostanzialmente diritto residuale di controllo sull’organizzazione, volto a completare le inevitabili lacune dei regolamenti contrattuali (gap-filling) .

3. Conclusioni

Come si può facilmente evincere dai precedenti paragrafi, il tema della partecipazione assembleare costituisce una parte specifica di un dibattito più ampio che attiene soprattutto la corretta allocazione dei poteri d’iniziativa e decisionali tra assemblea e CdA.

Nell’ambito di tale dibattito, la partecipazione attiva degli azionisti assume particolare valenza come strumento di monitoraggio dei gestori della società, e non quindi come mezzo per modificare il balance of power tra azionariato e managers. Premessa questa necessaria precisazione, le conclusioni di questa parte verrà strutturata in due parti: mentre nella prima sarà prevalente una dimensione “teorica”,in cui verranno svolte alcune riflessioni critiche anche alla luce di alcuni dati empirici presentati dalla letteratura economica, nel tentativo di proporre alcuni spunti originali di riflessione nell’ambito del dibattito in corso; la seconda avrà un ruolo “empirico” in quanto esporrà alcune delle principali ricerche prodotte dalla letteratura finalizzate a verificare se (e, se sì, in quale misura) l’attivismo degli azionisti –in particolare degli investitori istituzionali- abbia apportato miglioramenti alla performance delle società controllate, allo scopo di meglio comprendere quanto, anche sotto il profilo pratico, sia realmente necessario ampliare i diritti di voice dell’azionariato.

A. Alcune riflessioni teorico-pratiche

La prima considerazione che deve essere svolta riguarda, in generale, l’effettivo miglioramento che l’introduzione di maggiori diritti di voice può apportare all’azione degli inventori istituzionali. Si deve tenere presente, infatti, che tale categoria è capace di esercitare pressione sul management anche con strumenti informali, come ad es., riunioni riservate con gli amministratori, interventi a mezzo stampa (sia per approvare che per criticare l’operato del CdA) e in generale l’impiego di mezzi di moral suasion (c.d. jawboning) .

In altri termini, l’alternativa degli investitori istituzionali è sostanzialmente tra una voice formale e una informale. A tal proposito, alcuni commentatori hanno fatto notare (con particolare riguardo all’esperienza d’Oltreoceano) che l’esercizio di pressioni informali sugli amministratori e sul management spesso è uno dei migliori strumenti di pressione sotto il profilo costi-benefici , e probabilmente questo spiega anche la scarsa attitudine all’attivismo riscontrato in alcune categorie di inventori istituzionali, come visto sopra. Dato quanto precede, l’ampliamento dei poteri di voice rischierebbe quindi di essere un’operazione legislativa tendenzialmente inutile, dal momento che sussistono per gli operatori alternative molto più cost-effective .

In relazione a questo tema, ritengo che l’elemento principale che il rulemaker debba ponderare sia l’orizzonte temporale dell’investimento operato: l’attribuzione di diritti d’intervento/sollecitazione è rilevante per il money manager solo in una prospettiva almeno di medio termine (cioè, almeno più di un esercizio sociale), perché solo nell’ambito di tale timeframe è economicamente razionale la partecipazione assembleare e l’esercizio di tutte le possibilità a questa connesse. In altre parole, se si avesse la prova empirica che gli investitori istituzionali tendono a operare (in media) con un orizzonte meramente di breve periodo, modifiche normative che amplificano la voice sarebbero inutili, in quanto sarebbero (tendenzialmente) non utilizzate .

Una ulteriore riflessione riguarda il ruolo stesso che la partecipazione assembleare e, in generale, l’attivismo dell’azionariato assume nel contesto degli istituti di credito quotati. Come è noto, una delle principali (se non la principale) causa del financial turmoil del 2008 è stata l’eccessiva propensione al rischio da parte delle istituzioni finanziarie . Mentre la conventional wisdom dell’ultimo biennio ha attribuito questo eccessivo risk-taking agli amministratori delle banche, alcuni recenti studi empirici hanno mostrato come tale responsabilità debba essere attribuita soprattutto agli azionisti piuttosto che al board.

Lo stesso studio ha però sottolineato come sia i CdA che gli azionisti sono stati capaci di esercitare un monitoraggio ex-post, sostituendo i CEO che avevano riportato le peggiori performance : come si può facilmente evincere, tali evidenze sembrano porre in discussione l’assunto (sotteso a molte considerazioni di policy, a livello europeo e internazionale) che gli azionisti possano contribuire attivamente, con una loro maggiore partecipazione, alla sana e prudente gestione degli intermediari creditizi . Deve essere peraltro sottolineato queste non sono le uniche evidenze empiriche che, a seguito del “grande turmoil” del 2008, hanno messo in discussione la shareholder primacy come uno dei pilastri della banks good governance: ulteriori studi hanno evidenziato come le banche che abbiano “fatto peggio” in termini di performance sono anche quelle con una shareholder-friendly governance .

In generale, la stessa evidenza che le banche che si erano dotate dei “ritrovati” più moderni in tema di governo societario, soprattutto in relazione agli organi amministrativi (maggiore presenza di amministratori indipendenti e non-esecutivi nel CdA, nonché meccanismi incentivanti nella determinazione delle remunerazioni) sono state anche quelle che maggiormente hanno fatto ricorso, negli USA, al Troubled Asset Relief Program (TARP) .

Aldilà delle evidenze empiriche -e di un giudizio di merito sulla validità di una teoria piuttosto che dell’altra- rimane la sensazione che l’atteggiamento degli Autori a favore di una posizione o dell’altra sia stata largamente influenzata dalla Great Financial Crisis: spesso le ottime performance della Borsa di New York e in generale dell’economia americana nel decennio scorso sono state invocate come sostegno del mantenimento dello status quo (cioè del managerialismo del diritto societario USA); era quindi perfettamente logico attendersi che la crisi avrebbe seriamente revocato in dubbio tale assunto, spostando l’asse della bilancia verso posizioni più favorevoli alle tesi pro-azionisti.

Vogliamo chiudere il punto con una domanda: se il senso attribuito a tali evidenze venisse confermato in modo ancora più certo, non si dovrebbe ritenere che affidare il compito di monitoraggio a degli azionisti (come visto sopra) con velocissimi turnover delle partecipazioni detenute, e quindi con logiche di investimento “short-termiste” potrebbe andare ad acuire questo problema?

Un ulteriore punto che necessita di approfondimento, in un’ottica di “monitoraggio responsabile”, è quanto gli inventori istituzionali sono effettivamente propensi a contestare il management in sede assembleare, una supposizione che trova la sua base nella possibilità di conflitti d’interesse tra investitori e “investiti” .

Una survey complessiva sulla politiche di voto dei principali investitori, sia negli USA che nell’UE ha mostrato come tendenza generale, che una maggiore predisposizione a votare a favore degli amministratori (o quanto meno, a non sostenere apertamente proposte di altri azionisti) dipende dalla presenza o meno di un legal framework più favorevole agli azionisti che al management .

Uno studio recente pubblicato sulle politiche di voto di una importante categoria di money managers, gli exchange traded funds (ETF) ha mostrato, sulla scorta di un campione costituito dai primi sette operatori del settore a livello globale, la propensione a votare per il CdA piuttosto che per le proposte degli azionisti sembra correlata alle dimensioni degli operatori: i più grandi ETF sono quelli che hanno espresso più voti pro-managers, mentre i piccoli (forse, anche dal momento che tendono a fare maggiore affidamento sui servizi dei proxy advisors) sono più predisposti a sostenere le ragioni degli altri blockholders . Il dato che forse dovrebbe più essere interessante, ai fini di una valutazione critica della teoria del monitoring shareholders, si ricava dalla constatazione di un vero e proprio “effetto-gregge” per cui tutti gli operatori hanno votato, nella maggioranza dei casi, con la mozione risultata vincitrice, sia in senso assoluto che nel caso specifico delle proposte provenienti dall’azionariato.

Per quanto la questione dovrebbe essere ulteriormente indagata , sorge la considerazione che, alla prova dei fatti, l’(eventuale) scarso attivismo degli investitori istituzionali non debba essere collegato tanto a una presunta “sudditanza psicologica” nei confronti del board, quanto a una “sudditanza” nei confronti dell’opinione prevalente che si forma tra i vari stakeholder della società - rischio, a nostro avviso, ben più grave-.

B. Un’analisi empirica su attivismo e performance

A quest’ultima parte delle conclusioni deve essere necessariamente premesso che, come sottolineato da alcuni , evidenziare possibili legami causali, sia in senso positivo che negativo, tra attivismo dell’azionariato (specialmente istituzionale) e performance è un’operazione estremamente complessa sia sotto il profilo qualitativo (quali comportamenti sono attivisti? ) che quantitativo (esiste una relazione causale tra attivismo e mutamenti nel governo societario? E tra questi e l’andamento dell’impresa?). Le indicazioni della letteratura empirica esistente devono essere distinte sotto due profili: (i) l’attivismo degli investitori istituzionali “tradizionali” e (ii) il c.d. new activism, proprio dei fondi hedge.

In relazione al primo punto, i dati empirici riscontrano che l’attivismo non produce significativi mutamenti nell’andamento della performance aziendale (prezzo delle azioni, valori di bilancio, etc.), né nel breve periodo che nel medio-lungo (da uno a tre anni).

Tale dato si riferisce in particolare alle forme di attivismo “pubblico” (come ad es., le proxy fights nelle società USA) , che dovrebbero essere particolarmente favorite, nell’ottica delle riforme legislative degli ultimi anni. A nostro modo di vedere non sembra ci siano evidenze certe che pratiche informali di moral suasion producano invece rendimenti anormali (in senso positivo), ma vale la pena sottolineare che alcuni Autori hanno rinvenuto aumenti rilevanti, sotto il profilo statistico, dei corsi azionari successivi a composizioni amichevoli di dispute con il management o a forme di pressione informali (cioè, non portate in assemblea) sullo stesso . Sono state invece riscontrate, sul piano statistico, una correlazione statisticamente significativa tra attivismo e mutamenti dei modelli organizzativi, in particolare sotto il profilo delle ristrutturazioni aziendali .

Un’ulteriore considerazione che emerge da alcuni articoli, che potrebbe essere particolarmente rilevante in un’ottica di policy, è che non sono stati riscontrati effetti di spillover, in termini di stimolo all’attivismo, nei confronti di altre società . Deve essere tenuto in debito conto, a ogni modo, che l’indagine economica sul fenomeno sembra essersi arrestata, in quanto oggi l’attenzione sembra essere catturata soprattutto dal new activism degli hedge funds.

Per quanto attiene il secondo “filone”, le principali indagini condotte sembrano dimostrare, in modo più reciso rispetto al primo, una correlazione positiva tra interventi “attivisti” degli hedge funds e miglioramenti della performance. In particolare, i maggiori rendimenti, nel breve periodo (un mese massimo successivo alla diffusione della notizia sul mercato) sarebbero anche qui associati a “ristrutturazioni”, intese in senso lato, della struttura sociale della target company . Secondo lo studio, l’intervento sarebbe salutare anche in una prospettiva di medio-lungo termine, in quanto si registrano aumenti dei profitti operativi (indice ROA, return on assets) tra lo 0,30 e lo 0,50% . Un ulteriore punto di contatto con l’attivismo istituzionale tout court è dato dalla maggiore redditività delle forme “private” di attivismo rispetto a quelle pubbliche .

Tale dato è stato confermato anche da un recente (e noto) case study sul fondo britannico Hermes , ripreso anche dalla pubblicistica scientifica italiana . Il dato, a nostro parere, più interessante dello studio è che quanto riporato si collega con quanto alcuni avevano già sostenuto in via teorica: si può inferire, infatti, che le forme d’intervento “informale”, generando i rendimenti più alti, sono evidentemente anche le più convenienti sotto l’aspetto costi-benefici.

In conclusione di questa rapida carrellata di dati, si può quindi concludere che la produzione di risultati di massimizzazione dello shareholder value da parte dell’attivismo degli azionisti sembra essere un fenomeno limitato all’intervento di specifiche categorie di money managers e alla seconda metà del decennio scorso. Il profilo che rende maggiormente scettici sull’ampliamento della voice però è, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la maggiore profittabilità di strumenti di pressione informale sul CdA; non tanto perché maggiori diritti per gli azionisti siano indesiderabili (anzi potrebbero essere anche auspicabili in alcuni contesti) ma perché tendenzialmente inutili. Il rischio, pertanto, è quello di complicare ulteriormente il quadro normativo, con conseguente ampliamento di possibili azioni opportunistiche a scapito degli amministratori e delle altre categorie di azionisti.

Non sono mancate, peraltro, teorie che, muovendosi nella medesima ottica di tutela degli azionisti, hanno proposto l’imposizione (o.meglio, ampliando la particolarmente ristretta disciplina) in capo agli azionisti “attivisti” degli specifici doveri fiduciari verso gli altri corporate stakeholders. Cfr. ANATWABI-STOUT,Fiduciary duties for activist shareholders, in (60) Stanford Law Review, 2008, pp. 1255 ss. A tal proposito, ci preme sottolineare due aspetti: (i) l’idea di una responsabilizzazione sul piano civile degli “attivisti” potrebbe essere vista, in una prospettiva di policy, come un’alternativa ai diritti di voice, almeno sotto il profilo della tutela contro eventuali atti di opportunismo commessi da altri membri della compagine sociale; (ii) la soluzione è, ovviamente di difficile importazione nel diritto italiano (in quanto i doveri fiduciari sono un prodotto tipico della common law), ma una impostazione simile potrebbe essere perseguita valorizzando la responsabilità aquiliana ex 2043 c.c. (a tacere del fatto che per le SRL la riforma del 2003 ha già previsto, anche se per ipotesi molto limitate una responsabilità del socio: (art. 2476 c.5: Sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi)

Rectius, aver impostato la questione del rapporto azionisti-management come un problema di agenzia ha portato la letteratura successiva a chiedersi quali strumenti potessero essere adottati per salvaguardare gli interessi degli azionisti. Cfr. BLAIR-STOUT, A team production theory of corporate law, in (85) Virginia Law Review, 1999, p. 252. Tale considerazione ci permette di specificare che, ovviamente, il dibattito che riportiamo attiene segnatamente il contesto USA, sia in punto di diritto (diritto societario statale, in particolare del Delaware e securities regulation federale) che di fatto (la grande public corporation quotata su mercati particolarmente liquidi).

8 DELAWARE CODE, Cap.1, Tit. 8, § 242(b); MODEL BUSINESS CORPORATION ACT (MCBA) § 10.03.

8 DELAWARE CODE, Cap.1, Tit. 8, § 109(a,b); MCBA § 2.06(b).

Uno dei precursori della tesi della shareholder primacy ha sostenuto difatti che sia in larghissima parte la legislazione vigente a limitare l’attivismo (soprattutto) degli investitori istituzionali, contestando quindi quelle letture che vedono gli azionisti come passivi di per sé. V. BLACK, Shareholder passivity reexamined, in (89) Michigan Law Review, 1990, pp. 521-526 (esposizione della tesi) e pp. 529-560 (descrizione della normativa). Deve però essere rilevato che l’impostazione dell’Autore rischia di non reggere una verifica controfattuale: può essere escluso così facilmente che il diritto statunitense non si sia formato in senso pro-manageriale in risposta allo scarso interesse degli azionisti? Per quanto oggi siano state introdotte alcune norme (come la SEC rule 14a-11, che vederemo sotto) che vanno a favore degli azionisti, la linea di policy “managerialista”, specialmente del diritto del Delaware, non è affatto mutata e, ciò nonostante, si è assistito a un grande attivismo degli investitori istituzionali. Mentre Black sostiene che law preceeds business, sembra invece che business preceeds law.

BEBCHUCK, The myth of the shareholder franchise,in (93) Virginia Law Review, 2007, pp. 688-691.

BEBCHUCK, The myth, cit., pp. 675 ss.

Tale proposta è divenuta recentemente una regola SEC: secondo la rule 14a-11 (17 CFR 240.14a-11) gli emittenti sono obbligati a inserire nei proxy statements i nominativi dei candidati presentati da un azionista (o un gruppo di azionisti) che sia (i) titolare di almeno il 3% del voting power e (ii) possiedano tale partecipazione da almeno tre anni rispetto al giorno in cui la convocazione dell’assemblea viene comunicata alla SEC. V. http://www.sec.gov/rules/final/2010/33-9136.pdf

A condizione che la lista ottenga almeno una certa percentuale di voti (in modo da evitare la presentazione di “liste temerarie”).

BEBCHUCK, The myth, cit., pp. 707-711. In particolare, mentre gli azionisti dovrebbero poter (modificando la SEC rule 14a-8) di poter mettere ai voti qualunque tipo di modifica delle bylaws. Secondo l’Autore, come first best l’ordinamento dovrebbe consentire l’opting-out solo con una deliberazione dell’assemblea, su proposta presentabile unicamente dagli azionisti; se ciò non fosse praticabile, come second best non consentire agli amministratori di poter modificare o annullare le modifiche statutarie deliberate.

BEBCHUK, The case for increasing shareholder power, in (118) Harvard Law Review, 2005, p. 833 ss. E’ significativo che l’Autore elabori la sua tesi partendo da un raffronto con il diritto britannico, in cui -come abbiamo visto sopra-

Sul punto v. anche BEBCHCK-FERRELL-KRAAKMAN-ROE-SUBRAMANIAN, Placing election bylaws on the ballott, amicus curiae brief presentato nel caso American federation of State, County & Municipal employees Pension Plan v. American International Group (462 F.3d 121, 2nd Circ.), 2005, disponibile presso il SSRN.

BEBCHUK, The case for, cit., p. 875.

BEBCHUK, The case for, cit., pp. 865-867.

STRINE, Toward a true corporate republic: a traditionalist response to Bebchuk’s solution for improving corporate America, in (119) Harvard Law Review, 2006, p. 1759 ss.

Questa è la sintesi estrema della concezione della “primazia degli amministratori” (soprattutto in relazione alla posizione del principale capofila di tale dottrina, il Prof. Stephen Bainbridge della University of California at Los Angeles, UCLA) secondo BEBCHUK, Letting shareholders set the rules, in (119) Harvard Law Review, 2006, p. 1785.

Si deve riconoscere che, pur con varie sfumature che andremo a vedere nel proseguio, questa riflessione costituisce sostanzialmente l’architrave “ideologico” delle teorie “pro-amministratori”. Su tale tesi v. BAINBRIDGE, Shareholder activism and istitutional investors, UCLA Law School Law £ Economics Research Paper No. 05-20, settembre 2005, pp. 6-10; BAINBRIDGE, Director primacy and shareholder disempowerment, in (119) Harvard Law Review, 2006, pp. 1746-1751.

STOUT, The mythical benefits of shareholder franchise, in (93) Virginia Law Review, 2007, p.792. Che il diritto dovrebbe favorire la capacità degli amministratori di assumere decisioni “in modo veloce ed efficiente come richiesto dal commercio moderno” viene evidenziato da STRINE, Toward a true corporate republic:, cit, p. 1763.

BAINBRIDGE, Shareholder activism, cit., p. 6.

LIPTON-SAVITT, The many myths of Lucian Bebchuk, in (93) Virginia Law Review, 2007, p. 748-749.

BAINBRIDGE, Shareholder activism, cit., p.11

La constatazione viene espressa soprattutto in relazione ai fondi pensione dei dipendenti pubblici e dei fondi sindacali, che secondo molti Autori hanno operato soprattutto con finalità di creazione di consenso politico per i loro amministratori. Cfr. BAINBRIDGE, Director primacy, cit., p. 1755.

Sul tema, un profilo che ci sembra maggiormente pregnante è quello rimarcato da STRINE, Toward a true corporate republic, cit., p. 1765; secondo il quale il grande affidamento riposto dagli investitori istituzionali nelle raccomandazione espresse dai proxy advisor rischia di aggiungere “un ulteriore livello di agenzia (sic)”.

In altri termini, secondo questi Autori, i mercati (del lavoro, dei capitali primario e secondario, del controllo societario…) costituiscono il principale strumento di responsabilizzazione dei directors. V. BAINBRIDGE, BAINBRIDGE, Shareholder activism, cit., p. 7. Lo studio basilare sul mercato per il controllo societario è MANNE, Mergers and the market for corporate control, in (73) Journal of Political Economy, 1965, pp. 110 ss. Di estremo interesse inoltre la distinzione operata da un Autore che molto si è interessato al tema dei diritti degli azionisti (ZETZEZCHE, Explicit and implicit systems of corporate control: A convergence theory of shareholders’ rights, Heinrich-Heine-University of Dusseldorf Center for business and corporate law Researc Paper Series n. 1; settembre 2004, disponibile presso il SSRN) tra sistemi “impliciti” di controllo del management, cioè che si basano principalmente sull’ “effetto disciplina” dei mercati di riferimento (sistema anglo-americano), e sistemi “espliciti” di controllo che fanno affidamento sull’influenza diretta sugli amministratori da parte dei diritti dell’azionariato (Europa continentale).

Dovrebbe essere però rilevato che, nel caso di fondi indexed (cioè la cui politica d’investimento tende a replicare quella di un intero indice borsistico, per mezzo di una massiccia diversificazione del portafoglio, che ingloba appunto tutte le azioni dell’indice di riferimento), la possibilità di optare per la Wall Street Walk diventa molto difficile (GILLAN-STARK, The evolution of shareholder activism in the United States, working paper disponibile presso il SSRN, 2007, p. 6). In tali situazioni, la possibilità di utilizzare utilmente strumenti di voice (sia formali che informali) è nettamente l’opzione più valida per l’investitore.

LIPTON-SAVITT, The many myths, cit., p. 743.

ANABTAWI, Some skepticism about increasing sharegolder power, in (53) UCLA Law Review, pp. 561 ss.

Vengono elencati dall’Autrice almeno cinque axis of division: (i) azionisti “longtermisti” e “shortermisti”; (ii) azionisti con portafogli diversificati e non; (iii) azionisti insider (che, cioè, hanno effettuato investimenti firm-specific e sono quindi notevolmente esposti ai profili di rischio dell’impresa, ad es., lavoratori-azionisti) e outsider; (iv) azionisti con interessi puramente economici e azionisti che perseguono obiettivi politico-sociali; (v) azionisti risk-hedged e non risk-hedged. ANABTAWI, Some skepticism, cit., pp. 577-593.

BLAIR-STOUT, A team production theory of corporate law, in (85) Virginia Law Review, 1999, pp. 247 ss. (Sulle teorie “tradizionali”, in particolare, pp. 257-265).

Come giustificazione dell’esistenza dei CdA, la mediating theory viene sostenuta, in opposizione alla monitoring theory sostenuta dai fautori dell’agency theory, da STOUT, Shareholder as Ulysses: some empirical evidence on why investors in public corporations tollerate board governance, in (152) University of Pennsylvania Law Review, 2003, pp. 667 ss.

BLAIR-STOUT, A team production theory, cit., p. 253

BLAIR-STOUT, A team production theory, cit., pp. 287-293. Ci sembra che implicitamente, gli Autori critichino i sostenitori delle tesi “pro-azionisti” per aver confuso l’accezione economica del problema di agenzia con la problematica giuridica dell’agency law (cioè della rappresentanza di civil law).

COASE, La natura dell’impresa, ed. it. in Un’introduzione alla storia dell’impresa (a cura di AMATORI-TORINELLI), Milano, 1999, pp. 41 ss. Sul tema, si segnala che autorevolissima dottrina giuseconomica ha ritenuto che lo stesso meccanismo di voto legato alle azioni (share voting) sia un modo con cui l’ordinamento consente il gap-filling degli accordi endosocietari, v. EASTERBROOK-FISCHEL, Voting in corporate law, in (26) Journal of Law and Economics, 1983, p. 402.

Il jawboning, a seconda della finalità che tende a perseguire, può caratterizzarsi come “difensivo”, se volto a proteggere dell’investimento; oppure “offensivo” se volto a massimizzare il valore per l’azionista, correggendo inefficienze gestionali. Cfr. ARMOUR-CHEFFINS, The rise (and fall?) of shareholders’activism by hedge funds, ECGI Law Working Paper n. 136/2009, settembre 2009, pp. 2-3.

POZEN, Institutional investors: the reluctant activist, in Harvard Business Review, gennaio-febbraio 1994, p. 146.

Merita di essere citato, sul punto, lo studio di BECHT-FRANKS-GRANT, Hedge Funds Activism in Europe, ECGI Finance Working Paper n. 283/2010, maggio 2010, disponibile presso il SSRN. Lo studio ha riscontrato (in contrasto con quanto sostenuto dai commentatori che appoggiano le pratiche di jawboning) che, prendendo a campione quasi 305 forme di attivismo nei principali Paesi dell’UE, l’ “intervento pubblico” (public engagement) genera rendimenti anomali (rispetto alla media del mercato) più alti rispetto a quelli privati; anche se questo dato è da imputare soprattutto alle OPA ostili. Inoltre, la produzione di rendimenti anomali più alti sembra essere più collegata allo “stile” del fondo (cioè se è un fondo esclusivamente attivista, piuttosto che multy-strategy) che non all’influenza dei diversi regimi giuridici nazionali.

Anche da parte di Autori favorevoli all’empowerment si è riconosciuto che alcuni investitori istituzionali hanno tassi di turnover delle partecipazioni azionarie vicine al 70% all’anno, tanto da rendere di difficilissima attuazione norme come la SEC rule 14a-11. V. ZINGALES, Board Usa senza ponti levatoi, IlSole24Ore, 28/10/2010. La “difesa” dei fondi hedge in questa materia portata avanti da BRIGGS, Corporate governance and the new hedge funds activism: an empirical analysis, in (32) Journal of Corporation Law, 2006, pp. 701-703, per quanto suffragata da alcuni dati, non mi sembra molto convincenti in quanto si basa più su di un event study che su di una valutazione quantitativa sul livello di turnout delle partecipazioni.

Il risk appetite delle istituzioni finanziarie è un aspetto fondamentale della regolamentazione di vigilanza: è noto infatti che la banca aumenta i suoi profitti solo aumentando il volume delle somme prestate ai prenditori, ma questo a un tempo pone a rischio la stabilità dell’istituto in quanto può portare a un utilizzo eccessivo della leva finanziaria. La regolamentazione interviene quindi moderando l’assunzione di rischio da parte dell’istituto, onde evitare che la massimizzazione del profitto possa pregiudicare l’esistenza stessa della singola banca e quindi la stabilità dell’intero sistema creditizio. Cfr. MULBERT, Corporate governance of banks after the crisis: theory, evidence, reforms, ECGI Law Working Papers n. 130/2009, aprile 2010 (II versione), p. 10.

ERKENS-HUNG-MATOS, Corporate governance in the 2007-2008 financial crisis: evidence from financial institutions worldwide, dicembre 2009, disponibile presso il SSRN, pp. 16-17.

ERKENS-HUNG-MATOS, Corporate governance, cit., p. 14.

Di non poco momento è ovviamente anche la possibile relazione tra propensione al rischio e struttura proprietaria della banca. Già alcuni studi seminali (JENSEN-MECKLING, Theory of the firm: managerial behavior, agency costs and ownership structure, in (3) Journal of Financial Economics, 1976, pp. 305 ss.) avevano individuato una correlazione positiva- nelle imprese in generale- tra concentrazione della proprietà e risk-taking). LAEVEN-LEVINE, Bank governance, regulation and risk taking, in (93) Journal of Financial Economics, 2009, p. 259 ss., hanno individuato che tale relazione positiva esiste anche nel settore bancario, e che la stessa si mantiene anche in presenza di una regolamentazione di vigilanza sia quantitativa (ammontare di capitale che deve essere detenuto) che qualitativa (definizione di quali strumenti finanziari sono eleggibili come capitale). Quest’ultimo studio ha individuato come “grandi azionisti” i soggetti che detengono almeno il 10% dei diritti di voto, direttamente o indirettamente (p. 261). Indicazioni simili sono contenute anche in SAUNDERS-STOCK-TRAVLOS, Ownership structure, deregulation and bank risk taking, in (45) Journal of Finance, 1990, pp. 643 ss.: secondo gli Autori, banche controllate da azionisti (misurate secondo la proporzione di azioni detenute dai manager) rispetto a banche controllate da manager professionisti tendono a essere più inclini al rischio, specialmente in fasi storiche di “deregolamentazione”.

BELTRATTI-STULZ, Why did some banks performed better during the crisis? A cross-country study on impact of the impact of governance and regulation, ECGI Finance working paper n. 254/2009, luglio 2009, p. 15. Anche gli Autori sostengono che la ragione di questo risultato sia stata l’eccesiva propensione al rischio degli azionisti, v. pp. 17-18.

ADAMS, Governance and the financial crisis, ECGI Finance Working Paper n. 248/2009, aprile 2009, p. 13.

Secondo BIANCHI-ENRIQUES, Corporate governance in Italy after the 1998 reform: what role for institutional investors?, Quaderni di Finanza CONSOB n. 43, gennaio 2001, pp. 11-12; possono sussistere due tipologie di conflitti d’interesse in quest’ambito: (i) “reciprocità”: se entrambi i soggetti sono quotati, gli investitori possono preferire una presenza low profile in altre società quotate per evitare che questi possano subire, a loro volta, “interferenze” da parte di altri; (ii): “ambito di operatività”: se l’investitore offre anche servizi di consulenza o di banca d’affari, egli potrebbe optare per la passività onde evitare di perdere delle future occasioni d’affari. Sarebbe interessante appurare se gli Autori si riferiscono a ipotesi di passività “pura”, cioè di totale non intervento negli affari sociali, oppure se ricomprendano anche casi di “complicità” con il CdA – come stiamo facendo - .

SANTELLA-BAFFI-DRAGO-LATTUCA, A comparative analysis of the legal obstacles, cit.

SANTELLA-BAFFI-DRAGO-LATTUCA, A comparative analysis of the legal obstacles, cit., p. 38. E’ doveroso segnalare che l’andamento della tendenza sembra coerente con la teoria Law and Finance, in quanto la maggiore propensione a votare per il management sussiste nei Paesi di common law, per poi scendere progressivamente nei Paesi di civil law tedesca e, infine, francese; seguendo il trend riscontrato dalla teoria sul livello di protezione giuridica degli outsider investors.

IRRC Institute-ProxyGovernance, Proxy Voting by Exchange Traded Funds, giugno 2009, disponibile al sito: http://www.irrcinstitute.org/pdf/FINAL%20ETF%20Study%20-%20June%2030,%202009.pdf.

IRRC Institute-ProxyGovernance, Proxy Voting by Exchange Traded Funds, cit., pp. 22-25.

Ovviamente tale analisi andrebbe estesa alla generalità degli investitori istituzionali, per poterne ricavare considerazioni di sistema. Inoltre, siamo coscienti che qualcuno potrebbe sostenere che si sta scambiando la causa con l’effetto, cioè che quelle mozioni sono passate proprio per via dell’appoggio da parte dell’institutional shareholder e che quindi tale evidenza non potrebbe essere considerato un sintomo di passività, bensì di attività: anche sul punto sarebbero necessarie ulteriori indagini.

GILLAN-STARK, The evolution, cit., pp. 16-17.

Un autore in particolare (KARPOFF, The impact of shareholder activism on target companies: a survey of empirical findings, working paper disponibile presso il SSRN, 2001, pp. 9-11) ha mostrato come le (spesso) estremamente diverse conclusioni delle indagini empiriche dipendano, inter alia, dalle profonde divergenze “classificatorie” della letteratura.

Cfr. gli studi citati da ROMANO, Less is more: making shareholder activism a valued mechanism of corporate governance, Yale Law School Program for Studies in Law, Economics and Public Policy Working Paper n. 241, maggio 2000, pp. 19-25, disponibile presso il SSRN. Di particolare interesse è la constatazione dell’Autrice che, riportando altri studi, il collegamento causale tra forme di attivismo e scarso rendimento dello stesso sarebbe da attribuire alla scarsa redditività di molte delle proposte di modifica del governo societario comunemente sostenute dagli attivisti (eliminazione delle poison pills, maggiore presenza di amministratori indipendenti, de-staggering del CdA, politiche di remunerazione), pp. 25 ss. In senso conforme (anche se l’ipotesi dell’Autore è che la scarsa performance sia dovuta a uno scarso attivismo in sé degli investitori istituzionali) v. BLACK, Shareholder activism and corporate governance in the United States, working paper disponibile presso il SSRN, novembre 1997.

KARPOFF, The impact, cit., p. 13

KARPOFF, The impact, cit., p. 17.

KARPOFF, The impact, cit., p. 31.

Tali evidenze, raccolte sul mercato USA, sono contenute in BRAV-JIANG-PARTNOY-THOMAS, Hedge funds activism, corporate governance and firm performance, FDIC Centre for Financial Research working paper N. 2008-06, maggio 2008, disponibile presso il SSRN. Secondo gli Autori, l’attività più remunerativa è la ridefinizione dell’oggetto sociale, con esclusione delle attività non-core (+ 8,54% nei corsi azionari); mentre le ricapitalizzazioni, vendite di asset e riacquisto di azioni mostrerebbero correlazioni positive, ma inferiori all’1% (pp. 23-32).

BRAV-JIANG-PARTNOY-THOMAS, Hedge funds activism, cit., pp. 32 ss. Gli Autori, difatti, contestano che i fondi speculativi siano da considerare per natura “short-termisti”, in quanto i valori medi di possesso azionario si collocano attorno all’anno (v. p. 4); un valore che, dalla prospettiva dell’Europa continentale, sembra però difficile definire di lungo periodo.

BECHT-FRANKS-GRANT, Hedge funds activism in Europe, ECGI Finance working paper n. 283/2010, maggio 2010, disponibile presso il SSRN, pp. 20-22 (interventi pubblici) e 22-24 (interventi privati). In entrambe le categorie, si registra una maggiore profittabilità delle operazioni ostili rispetto a quelle “amichevoli”.

BECHT-FRANKS-MAYER-ROSSI, return sto shareholder activism: evidence from a clinical study of the Hermes UK focus fund, in (22) Review of Financial Studies, 2009, pp. 3094 ss. In particolare vengono citati anche qui rendimenti superiori dell’8% all’andamento nello stesso periodo (1998-2004) dell’indice FTSE; di cui deve essere notato che, come valore medio, intorno al 6% viene generato da attività di restructuring (pp. 3108 ss.).

NICODANO, Dove porta l’attivismo degli hedge funds, Lavoce.info, 8/7/2008.