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Gli effetti della nuova procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento sul sistema penale fallimentare

La “bancarotta impropria” del non fallibile ex articolo 19, Legge 3/2012

1. Introduzione

La Legge 27 Gennaio 2012, n. 3, in vigore dal 29 Febbraio 2012, introduce nel nostro ordinamento, sulla scia di quanto già previsto in altri Paesi, una procedura volontaria di ristrutturazione della crisi da sovraindebitamento che vede come destinatari gli imprenditori non soggetti alle procedure fallimentari e, novità assoluta, anche i consumatori. L’art. 19 della legge 3, contenente un sistema sanzionatorio di natura penale, apporta significative novità, ad avviso di chi scrive, al tradizionale schema classificatorio penalfallimentare basato sulla contrapposizione tra bancarotta propria e bancarotta impropria.

2. Bancarotta propria e impropria

Il più ampio dei criteri di classificazione utilizzati per le numerose ipotesi di bancarotta è proprio quello che si basa sul soggetto attivo del reato: ebbe particolare fortuna, dapprima soprattutto grazie al Longhi (LONGHI, Bancarotta ed altri reati in materia commerciale, Società Editrice Libraria, 1930) la distinzione tra bancarotta propria e bancarotta impropria, intendendosi per propria quella relativa a fatti commessi dall’imprenditore fallito e per impropria quella relativa a fatti commessi da persone diverse da quest’ultimo. Il medesimo criterio sistematico fu difatti adottato anche dal legislatore del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 nella redazione del Titolo V, dedicato alle disposizioni penali.

I soggetti della bancarotta c.d. propria sono coloro che con il proprio patrimonio sopportano senza limiti il rischio d’impresa e di conseguenza con il proprio patrimonio, o anche con quello, garantiscono ex art. 2740 c.c., l’adempimento delle obbligazioni nascenti dall’esercizio dell’attività economica in forma organizzata: precisamente l’imprenditore commerciale (art.1 l.fall. e art. 2082 c.c.), i soci illimitatamente responsabili, falliti in proprio ex art.147 Legge Fallimentare, di società in nome collettivo (artt. 2291 ss. c.c.) e di società in accomandita semplice (artt. 2213 ss. c.c.), compresi i soci accomandanti divenuti illimitatamente responsabili per essersi ingeriti nella gestione della società.

Il Capo I del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 prende in considerazione i fatti commessi dai predetti soggetti, se dichiarati falliti, sul proprio patrimonio personale. In altre parole, la loro responsabilità penale è affermata dalla legge a titolo di “reato commesso dal fallito”.

Coerentemente con l’art. 147 Legge Fallimentare, l’art. 222 Legge Fallimentare estende al socio illimitatamente responsabile la punibilità per fatti di bancarotta (omettendo, peraltro, un richiamo ritenuto doveroso anche al socio accomandatario della società in accomandita per azioni, così creando nel sistema una lacuna che il divieto di analogia in malam partem rende certamente non colmabile in via di interpretazione).

3. Bancarotta impropria e bancarotta societaria

Il legislatore del 1942 ha quindi inserito, accanto alla forma (all’epoca anche socialmente) “tipica” della bancarotta dell’imprenditore fallito, una forma diversa che, pur mantenendo invariata l’oggettività giuridica e l’interesse tutelato, sanziona soggetti diversi dall’imprenditore. Questa forma di bancarotta era stata definita, in modo pressoché indifferente, “impropria” ovvero “societaria”, dato che gli artt. 223 e ss., Legge Fallimentare sanzionano, quasi esclusivamente, fatti realizzati da soggetti con ruoli di amministrazione o controllo in compagini societarie.

Fino ad oggi infatti, l’area della bancarotta impropria risultava pressoché interamente coperta dalle ipotesi di bancarotta societaria, così riducendo la dicotomia bancarotta impropria/bancarotta societaria su di un piano quasi squisitamente terminologico. Alla denominazione di bancarotta societaria, introdotta da Giuliani-Balestrino, veniva riconosciuto il pregio di collocare il delitto direttamente nella sfera dell’impresa esercitata in forma pluripersonale e di essere più coerente con la mutata realtà socio-economica; per tali ragioni, quindi, era ritenuta preferibile, pur se la terminologia “bancarotta societaria” lascia necessariamente fuori dalla propria area semantica l’ipotesi, invero marginale, di bancarotta dell’institore (GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, p. 343, Giuffrè 2006). Con riguardo alle imprese esercitate in forma collettiva, posto che per tali enti viene operato uno sdoppiamento tra titolarità e gestione (affidata a soggetti ai quali certamente non spetta la qualifica di imprenditore e che di conseguenza non falliscono), in riferimento al reato di bancarotta, la legge fallimentare aveva dovuto necessariamente estendere la tutela penale anche a tali soggetti, l’institore dell’ imprenditore e, soprattutto, gli organi di società commerciali, che concentrano potere gestionale e, conseguentemente, responsabilità estremamente elevate.

Il soggetto attivo della bancarotta impropria societaria non è la persona fisica fallita né, ovviamente, l’ente fallito (in ossequio al tradizionale principio societas delinquere non potest) ma coloro che hanno diretti e concreti poteri di gestione, organizzazione e controllo sull’impresa svolta dalla società: gli amministratori (compresi anche gli amministratori giudiziali nominati ex art.2409 c.c.), i direttori generali, legati alla società da un rapporto di lavoro (v. artt. 2396 c.c. per la s.p.a., 2464 c.c. per la s.a.p.a. e 2487 c.c. per la s.r.l.), i sindaci di società (rectius gli organi sociali di vigilanza) ai quali spettano poteri di controllo e vigilanza sulla gestione della società e i liquidatori, cioè coloro che amministrano la società nella fase terminale della sua esistenza.

Il carattere distintivo principale della bancarotta impropria/societaria è sempre stato ritenuto l’oggetto materiale della condotta: non i beni propri o le scritture dell’autore del reato, bensì quelli dell’ente o della persona fisica titolare dell’impresa individuale fallita (nel caso dell’institore), cioè ai beni riferibili ai soggetti ai quali spetta la qualifica di imprenditore, sui quali l’autore esercita poteri di gestione o di controllo e fornisce obblighi di regolare tenuta. In effetti sono proprio i beni dell’impresa che costituiscono la garanzia delle ragioni dei creditori tutelata dalle fattispecie di bancarotta patrimoniale; analogamente per le fattispecie documentali è la corretta tenuta delle scritture dell’imprenditore a consentire l’ostensibilità del suo patrimonio.

4. La riforma della Legge fallimentare

L’impianto fondato sulla contrapposizione speculare tra bancarotta propria dell’imprenditore fallito e bancarotta impropria commessa da soggetti diversi da quest’ultimo (perifrasi posta ad indicare in sostanza le ipotesi di bancarotta societaria), è stato significativamente alterato da due recenti interventi legislativi: il primo è dovuto alla riforma dell’art. 1 Legge Fallimentare, che è stato riformulato dapprima dal d.lg. 9 gennaio 2006, n. 5, e successivamente dal d.lg. 12 settembre 2007, n. 169.

All’esito di questa novella viene sensibilmente circoscritta l’area dei soggetti sottoponibili a procedura fallimentare e, come tali, assoggettabili alle norme sulla bancarotta, per le quali la dichiarazione di fallimento continua ad essere condizione obiettiva di punibilità.

L’art. 1 (Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo) stabilisce che «sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila».

Pertanto, a seguito di detta modifica, agli effetti dei reati fallimentari, la nozione di piccolo imprenditore deve essere ricavata esclusivamente dall’art. 1 Legge Fallimentare senza più la possibilità che si crei un contrasto interpretativo con la norma codicistica di cui all’art. 2083 c.c. (MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma delle procedure concorsuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, p. 900; SIGNORELLI, Riflessi della riforma del fallimento sul diritto societario, in Soc., 2006, p. 1458).

Un consistente numero di soggetti imprenditori non piccoli ex art. 2083 c.c. è fuoriuscito dall’area della bancarotta propria, con inevitabili conseguenze di diritto intertemporale e riaccendendo il problema della vincolatività dell’accertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice fallimentare agli effetti della legge penale (In ordine a tale problematica si veda, per tutti, AMBROSETTI, I reati fallimentari, in Ambrosetti-Mezzetti-Ronco, Diritto penale dell’impresa, Zanichelli, 2008, p. 209 e ss).

5. La nuova procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento

La seconda modifica è figlia dei tempi: con il d.l. 212/2011 era stato per la prima volta introdotto un sistema di composizione delle crisi dedicato ai soggetti non fallibili; successivamente la Legge 17 febbraio 2012 n., nel convertire in legge con modificazioni il decreto legge citato, ne ha previsto la soppressione degli artt. 1 – 12: a tale disciplina si è, così, venuta a sostituire quella di cui alla Legge 27 gennaio 2012, n. 3, in vigore dal 29 febbraio 2012.

Il Capo II della Legge n. 3 del 2012 ha introdotto la procedura di “composizione della crisi da sovraindebitamento”. Il provvedimento si propone di stimolare la spesa per beni di consumo e investimenti per le piccole e medie imprese, ponendo così il nostro Paese in linea con gli altri Stati membri dell’Unione europea, che già da molto tempo sono provvisti di strumenti e procedimenti esdebitatori sia per i consumatori che per le piccole imprese.

La Legge 3/2012 dichiara all’art. 6, primo comma, il proprio fine “di porre rimedio alle situazioni di sovra indebitamento non soggette né assoggettabili alle vigenti procedure concorsuali”, consentendo al debitore di concludere un accordo con i creditori nell’ambito della procedura disciplinata al capo II.

La nuova procedura di composizione della crisi da sovra indebitamento si applica quindi in modo residuale all’insieme di soggetti non destinatari delle tradizionali procedure concorsuali, così accomunando soggetti tradizionalmente molto eterogenei per struttura e caratteristiche: l’imprenditore commerciale “sottosoglia”, il debitore civile ed il professionista (non qualificabile propriamente né come imprenditore non fallibile né come consumatore). Il principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art 2740 c.c. prevede che il debitore risponda dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i propri beni, presenti e futuri. L’imprenditore commerciale insolvente, invece, ha sempre avuto la possibilità di liberarsi delle obbligazioni non soddisfatte, ed alle esecuzioni individuali, mediante una proposta di concordato preventivo o, in caso di intervenuto fallimento, di concordato fallimentare, o comunque di accedere - se imprenditore individuale – all’istituto dell’esdebitazione ex artt. 142 ss. Legge Fallimentare.

La responsabilità patrimoniale potenzialmente perpetua del debitore civile, in considerazione della possibilità dei creditori di soddisfarsi anche sui beni e crediti futuri del debitore, comporta il rischio, socialmente molto sentito nell’attuale periodo di crisi, che le persone fisiche si trovino costrette a convivere per larga parte della loro esistenza con il peso dell’indebitamento. Il dibattito sulla necessità di introdurre nel nostro ordinamento una procedura di regolazione dell’insolvenza civile si è intensificato negli ultimi anni in ragione del progressivo indebitamento di soggetti privati e famiglie ed è sfociato nella introduzione di una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento.

Quanto ai requisiti di natura soggettiva, la non assoggettabilità del debitore alle procedure previste dall’articolo 1 Legge Fallimentare costituisce un presupposto di ammissibilità della domanda (art. 7, co. 2, lett. a, Legge 3/2012) così come la circostanza che il soggetto richiedente non abbia fatto ricorso, nei precedenti tre anni, alla procedura di composizione della crisi (art. 7, co. 2, lett. b, L. 3/2012).

Il presupposto oggettivo è rappresentato dalla situazione di sovraindebitamento, intendendosi per tale “una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 6 Legge 3/2012).

Lo stato di sovraindebitamento abbraccia dunque due diverse situazioni, analogamente a quanto previsto dall’art. 160 della Legge fallimentare per il concordato preventivo. Richiama certamente lo stato di insolvenza (seconda parte dell’art. 6, Legge 3/2012) quanto all’incapacità di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte. Tuttavia qualche perplessità può avanzarsi sulla portata dell’avverbio, qui riferito anche al debitore civile ed al professionista, oltre che all’imprenditore, pur piccolo o sottosoglia. Quando questi soggetti non sono più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni? Naturalmente, nel caso del debitore civile potranno essere di ausilio gli indici giurisprudenziali della puntualità dei pagamenti della regolarità dei mezzi di pagamento, sebbene riguardo ai soggetti in questione, quest’ultimo appaia più sfumato, non potendosi fare riferimento ad un concetto assimilabile alla gestione caratteristica dell’impresa. La dismissione di un immobile, ad esempio, pur se non adibito ad abitazione principale o all’esercizio della professione, può considerarsi modalità di adempimento regolare? Sul punto, lo spazio lasciato all’interprete sembra abbastanza ampio. Mi pare prevedibile che l’attenzione degli operatori verrà invece concentrata sulla più generale e, probabilmente più palpabile, situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile, che risulta così in grado di abbracciare anche la più grave, irreversibile, situazione di sovraindebitamento-insolvenza vera e propria.

6. Sanzioni penali

Come anticipato, il nuovo procedimento di composizione della crisi del non fallibile viene dotato di un apparato sanzionatorio di natura penale interamente contenuto, riguardo al debitore, nell’art. 19, primo comma, della Legge 3 del 2012.

La disposizione in oggetto prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro il debitore che:

a) al fine di ottenere l’accesso alla procedura di composizione della crisi di cui al presente capo, aumenta o diminuisce il passivo ovvero sottrae o dissimula una parte rilevante dell’attivo ovvero dolosamente simula attività inesistenti;

b) al fine di ottenere l’accesso alla procedura di composizione della crisi di cui al presente capo, produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile;

c) nel corso della procedura, effettua pagamenti non previsti nel piano oggetto dell’accordo, fatto salvo il regolare pagamento dei creditori estranei;

d) dopo il deposito della proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria;

e) intenzionalmente non rispetta i contenuti dell’accordo.

Analizzando i “fatti di bancarotta” del non fallibile ivi descritti, le condotte di cui alla lettera a) si dividono – seguendo la struttura dell’art. 216, primo comma, n. 1, Legge Fallimentare – in due parti: condotte che incidono sulle componenti attive del patrimonio (sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo e simulazione dolosa di attività inesistenti) e condotte che incidono sulla componente passiva (aumento o diminuzione). L’elemento soggettivo di queste “sorelle minori” della bancarotta fraudolenta patrimoniale è il dolo specifico, consistente nel fine di ottenere l’accesso alla procedura di composizione della crisi da sovra indebitamento.

La lettera b) prevede una fattispecie documentale, altresì connotata sul piano psicologico dal medesimo dolo specifico, per il debitore che produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile.

La lettera c) prevede una fattispecie preferenziale per debitore che, nel corso della procedura, effettua pagamenti non previsti nel piano oggetto dell’accordo, fatto salvo il regolare pagamento dei creditori estranei.

La lettera d) disciplina una fattispecie di bancarotta semplice: con la stessa pena della reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro è punito il debitore che, dopo il deposito della proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria. Potrebbe integrare la figura in esame anche un comportamento omissivo, ad esempio un atteggiamento di trascuratezza. Alla lettera e), infine, una fattispecie, caratterizzata dal dolo intenzionale, che punisce il debitore che non rispetta il contenuto dell’accordo. Ci si domanda, a proposito della fattispecie di cui alla lett. e), se alla stessa possa essere riconosciuta natura di fattispecie colposa, non potendosi prescindere dal secondo comma dell’art. 42 c.p. che, in materia di delitti, circoscrive la responsabilità a titolo di colpa ai casi espressamente previsti dalla legge.

La nuova disciplina, in conclusione, apre la possibilità ai soggetti fino ad oggi esclusi dalle tradizionali procedure, di accedere alla composizione della crisi da sovraindebitamento di nuova introduzione, dotata, opportunamente, di un impianto sanzionatorio le cui fattispecie sono modellate sui lineamenti principali delle classiche figure di bancarotta: conferendo così al sistema maggiore completezza e coerenza.

1. Introduzione

La Legge 27 Gennaio 2012, n. 3, in vigore dal 29 Febbraio 2012, introduce nel nostro ordinamento, sulla scia di quanto già previsto in altri Paesi, una procedura volontaria di ristrutturazione della crisi da sovraindebitamento che vede come destinatari gli imprenditori non soggetti alle procedure fallimentari e, novità assoluta, anche i consumatori. L’art. 19 della legge 3, contenente un sistema sanzionatorio di natura penale, apporta significative novità, ad avviso di chi scrive, al tradizionale schema classificatorio penalfallimentare basato sulla contrapposizione tra bancarotta propria e bancarotta impropria.

2. Bancarotta propria e impropria

Il più ampio dei criteri di classificazione utilizzati per le numerose ipotesi di bancarotta è proprio quello che si basa sul soggetto attivo del reato: ebbe particolare fortuna, dapprima soprattutto grazie al Longhi (LONGHI, Bancarotta ed altri reati in materia commerciale, Società Editrice Libraria, 1930) la distinzione tra bancarotta propria e bancarotta impropria, intendendosi per propria quella relativa a fatti commessi dall’imprenditore fallito e per impropria quella relativa a fatti commessi da persone diverse da quest’ultimo. Il medesimo criterio sistematico fu difatti adottato anche dal legislatore del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 nella redazione del Titolo V, dedicato alle disposizioni penali.

I soggetti della bancarotta c.d. propria sono coloro che con il proprio patrimonio sopportano senza limiti il rischio d’impresa e di conseguenza con il proprio patrimonio, o anche con quello, garantiscono ex art. 2740 c.c., l’adempimento delle obbligazioni nascenti dall’esercizio dell’attività economica in forma organizzata: precisamente l’imprenditore commerciale (art.1 l.fall. e art. 2082 c.c.), i soci illimitatamente responsabili, falliti in proprio ex art.147 Legge Fallimentare, di società in nome collettivo (artt. 2291 ss. c.c.) e di società in accomandita semplice (artt. 2213 ss. c.c.), compresi i soci accomandanti divenuti illimitatamente responsabili per essersi ingeriti nella gestione della società.

Il Capo I del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 prende in considerazione i fatti commessi dai predetti soggetti, se dichiarati falliti, sul proprio patrimonio personale. In altre parole, la loro responsabilità penale è affermata dalla legge a titolo di “reato commesso dal fallito”.

Coerentemente con l’art. 147 Legge Fallimentare, l’art. 222 Legge Fallimentare estende al socio illimitatamente responsabile la punibilità per fatti di bancarotta (omettendo, peraltro, un richiamo ritenuto doveroso anche al socio accomandatario della società in accomandita per azioni, così creando nel sistema una lacuna che il divieto di analogia in malam partem rende certamente non colmabile in via di interpretazione).

3. Bancarotta impropria e bancarotta societaria

Il legislatore del 1942 ha quindi inserito, accanto alla forma (all’epoca anche socialmente) “tipica” della bancarotta dell’imprenditore fallito, una forma diversa che, pur mantenendo invariata l’oggettività giuridica e l’interesse tutelato, sanziona soggetti diversi dall’imprenditore. Questa forma di bancarotta era stata definita, in modo pressoché indifferente, “impropria” ovvero “societaria”, dato che gli artt. 223 e ss., Legge Fallimentare sanzionano, quasi esclusivamente, fatti realizzati da soggetti con ruoli di amministrazione o controllo in compagini societarie.

Fino ad oggi infatti, l’area della bancarotta impropria risultava pressoché interamente coperta dalle ipotesi di bancarotta societaria, così riducendo la dicotomia bancarotta impropria/bancarotta societaria su di un piano quasi squisitamente terminologico. Alla denominazione di bancarotta societaria, introdotta da Giuliani-Balestrino, veniva riconosciuto il pregio di collocare il delitto direttamente nella sfera dell’impresa esercitata in forma pluripersonale e di essere più coerente con la mutata realtà socio-economica; per tali ragioni, quindi, era ritenuta preferibile, pur se la terminologia “bancarotta societaria” lascia necessariamente fuori dalla propria area semantica l’ipotesi, invero marginale, di bancarotta dell’institore (GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, p. 343, Giuffrè 2006). Con riguardo alle imprese esercitate in forma collettiva, posto che per tali enti viene operato uno sdoppiamento tra titolarità e gestione (affidata a soggetti ai quali certamente non spetta la qualifica di imprenditore e che di conseguenza non falliscono), in riferimento al reato di bancarotta, la legge fallimentare aveva dovuto necessariamente estendere la tutela penale anche a tali soggetti, l’institore dell’ imprenditore e, soprattutto, gli organi di società commerciali, che concentrano potere gestionale e, conseguentemente, responsabilità estremamente elevate.

Il soggetto attivo della bancarotta impropria societaria non è la persona fisica fallita né, ovviamente, l’ente fallito (in ossequio al tradizionale principio societas delinquere non potest) ma coloro che hanno diretti e concreti poteri di gestione, organizzazione e controllo sull’impresa svolta dalla società: gli amministratori (compresi anche gli amministratori giudiziali nominati ex art.2409 c.c.), i direttori generali, legati alla società da un rapporto di lavoro (v. artt. 2396 c.c. per la s.p.a., 2464 c.c. per la s.a.p.a. e 2487 c.c. per la s.r.l.), i sindaci di società (rectius gli organi sociali di vigilanza) ai quali spettano poteri di controllo e vigilanza sulla gestione della società e i liquidatori, cioè coloro che amministrano la società nella fase terminale della sua esistenza.

Il carattere distintivo principale della bancarotta impropria/societaria è sempre stato ritenuto l’oggetto materiale della condotta: non i beni propri o le scritture dell’autore del reato, bensì quelli dell’ente o della persona fisica titolare dell’impresa individuale fallita (nel caso dell’institore), cioè ai beni riferibili ai soggetti ai quali spetta la qualifica di imprenditore, sui quali l’autore esercita poteri di gestione o di controllo e fornisce obblighi di regolare tenuta. In effetti sono proprio i beni dell’impresa che costituiscono la garanzia delle ragioni dei creditori tutelata dalle fattispecie di bancarotta patrimoniale; analogamente per le fattispecie documentali è la corretta tenuta delle scritture dell’imprenditore a consentire l’ostensibilità del suo patrimonio.

4. La riforma della Legge fallimentare

L’impianto fondato sulla contrapposizione speculare tra bancarotta propria dell’imprenditore fallito e bancarotta impropria commessa da soggetti diversi da quest’ultimo (perifrasi posta ad indicare in sostanza le ipotesi di bancarotta societaria), è stato significativamente alterato da due recenti interventi legislativi: il primo è dovuto alla riforma dell’art. 1 Legge Fallimentare, che è stato riformulato dapprima dal d.lg. 9 gennaio 2006, n. 5, e successivamente dal d.lg. 12 settembre 2007, n. 169.

All’esito di questa novella viene sensibilmente circoscritta l’area dei soggetti sottoponibili a procedura fallimentare e, come tali, assoggettabili alle norme sulla bancarotta, per le quali la dichiarazione di fallimento continua ad essere condizione obiettiva di punibilità.

L’art. 1 (Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo) stabilisce che «sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila».

Pertanto, a seguito di detta modifica, agli effetti dei reati fallimentari, la nozione di piccolo imprenditore deve essere ricavata esclusivamente dall’art. 1 Legge Fallimentare senza più la possibilità che si crei un contrasto interpretativo con la norma codicistica di cui all’art. 2083 c.c. (MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma delle procedure concorsuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, p. 900; SIGNORELLI, Riflessi della riforma del fallimento sul diritto societario, in Soc., 2006, p. 1458).

Un consistente numero di soggetti imprenditori non piccoli ex art. 2083 c.c. è fuoriuscito dall’area della bancarotta propria, con inevitabili conseguenze di diritto intertemporale e riaccendendo il problema della vincolatività dell’accertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice fallimentare agli effetti della legge penale (In ordine a tale problematica si veda, per tutti, AMBROSETTI, I reati fallimentari, in Ambrosetti-Mezzetti-Ronco, Diritto penale dell’impresa, Zanichelli, 2008, p. 209 e ss).

5. La nuova procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento

La seconda modifica è figlia dei tempi: con il d.l. 212/2011 era stato per la prima volta introdotto un sistema di composizione delle crisi dedicato ai soggetti non fallibili; successivamente la Legge 17 febbraio 2012 n., nel convertire in legge con modificazioni il decreto legge citato, ne ha previsto la soppressione degli artt. 1 – 12: a tale disciplina si è, così, venuta a sostituire quella di cui alla Legge 27 gennaio 2012, n. 3, in vigore dal 29 febbraio 2012.

Il Capo II della Legge n. 3 del 2012 ha introdotto la procedura di “composizione della crisi da sovraindebitamento”. Il provvedimento si propone di stimolare la spesa per beni di consumo e investimenti per le piccole e medie imprese, ponendo così il nostro Paese in linea con gli altri Stati membri dell’Unione europea, che già da molto tempo sono provvisti di strumenti e procedimenti esdebitatori sia per i consumatori che per le piccole imprese.

La Legge 3/2012 dichiara all’art. 6, primo comma, il proprio fine “di porre rimedio alle situazioni di sovra indebitamento non soggette né assoggettabili alle vigenti procedure concorsuali”, consentendo al debitore di concludere un accordo con i creditori nell’ambito della procedura disciplinata al capo II.

La nuova procedura di composizione della crisi da sovra indebitamento si applica quindi in modo residuale all’insieme di soggetti non destinatari delle tradizionali procedure concorsuali, così accomunando soggetti tradizionalmente molto eterogenei per struttura e caratteristiche: l’imprenditore commerciale “sottosoglia”, il debitore civile ed il professionista (non qualificabile propriamente né come imprenditore non fallibile né come consumatore). Il principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art 2740 c.c. prevede che il debitore risponda dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i propri beni, presenti e futuri. L’imprenditore commerciale insolvente, invece, ha sempre avuto la possibilità di liberarsi delle obbligazioni non soddisfatte, ed alle esecuzioni individuali, mediante una proposta di concordato preventivo o, in caso di intervenuto fallimento, di concordato fallimentare, o comunque di accedere - se imprenditore individuale – all’istituto dell’esdebitazione ex artt. 142 ss. Legge Fallimentare.

La responsabilità patrimoniale potenzialmente perpetua del debitore civile, in considerazione della possibilità dei creditori di soddisfarsi anche sui beni e crediti futuri del debitore, comporta il rischio, socialmente molto sentito nell’attuale periodo di crisi, che le persone fisiche si trovino costrette a convivere per larga parte della loro esistenza con il peso dell’indebitamento. Il dibattito sulla necessità di introdurre nel nostro ordinamento una procedura di regolazione dell’insolvenza civile si è intensificato negli ultimi anni in ragione del progressivo indebitamento di soggetti privati e famiglie ed è sfociato nella introduzione di una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento.

Quanto ai requisiti di natura soggettiva, la non assoggettabilità del debitore alle procedure previste dall’articolo 1 Legge Fallimentare costituisce un presupposto di ammissibilità della domanda (art. 7, co. 2, lett. a, Legge 3/2012) così come la circostanza che il soggetto richiedente non abbia fatto ricorso, nei precedenti tre anni, alla procedura di composizione della crisi (art. 7, co. 2, lett. b, L. 3/2012).

Il presupposto oggettivo è rappresentato dalla situazione di sovraindebitamento, intendendosi per tale “una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 6 Legge 3/2012).

Lo stato di sovraindebitamento abbraccia dunque due diverse situazioni, analogamente a quanto previsto dall’art. 160 della Legge fallimentare per il concordato preventivo. Richiama certamente lo stato di insolvenza (seconda parte dell’art. 6, Legge 3/2012) quanto all’incapacità di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte. Tuttavia qualche perplessità può avanzarsi sulla portata dell’avverbio, qui riferito anche al debitore civile ed al professionista, oltre che all’imprenditore, pur piccolo o sottosoglia. Quando questi soggetti non sono più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni? Naturalmente, nel caso del debitore civile potranno essere di ausilio gli indici giurisprudenziali della puntualità dei pagamenti della regolarità dei mezzi di pagamento, sebbene riguardo ai soggetti in questione, quest’ultimo appaia più sfumato, non potendosi fare riferimento ad un concetto assimilabile alla gestione caratteristica dell’impresa. La dismissione di un immobile, ad esempio, pur se non adibito ad abitazione principale o all’esercizio della professione, può considerarsi modalità di adempimento regolare? Sul punto, lo spazio lasciato all’interprete sembra abbastanza ampio. Mi pare prevedibile che l’attenzione degli operatori verrà invece concentrata sulla più generale e, probabilmente più palpabile, situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile, che risulta così in grado di abbracciare anche la più grave, irreversibile, situazione di sovraindebitamento-insolvenza vera e propria.

6. Sanzioni penali

Come anticipato, il nuovo procedimento di composizione della crisi del non fallibile viene dotato di un apparato sanzionatorio di natura penale interamente contenuto, riguardo al debitore, nell’art. 19, primo comma, della Legge 3 del 2012.

La disposizione in oggetto prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro il debitore che:

a) al fine di ottenere l’accesso alla procedura di composizione della crisi di cui al presente capo, aumenta o diminuisce il passivo ovvero sottrae o dissimula una parte rilevante dell’attivo ovvero dolosamente simula attività inesistenti;

b) al fine di ottenere l’accesso alla procedura di composizione della crisi di cui al presente capo, produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile;

c) nel corso della procedura, effettua pagamenti non previsti nel piano oggetto dell’accordo, fatto salvo il regolare pagamento dei creditori estranei;

d) dopo il deposito della proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria;

e) intenzionalmente non rispetta i contenuti dell’accordo.

Analizzando i “fatti di bancarotta” del non fallibile ivi descritti, le condotte di cui alla lettera a) si dividono – seguendo la struttura dell’art. 216, primo comma, n. 1, Legge Fallimentare – in due parti: condotte che incidono sulle componenti attive del patrimonio (sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo e simulazione dolosa di attività inesistenti) e condotte che incidono sulla componente passiva (aumento o diminuzione). L’elemento soggettivo di queste “sorelle minori” della bancarotta fraudolenta patrimoniale è il dolo specifico, consistente nel fine di ottenere l’accesso alla procedura di composizione della crisi da sovra indebitamento.

La lettera b) prevede una fattispecie documentale, altresì connotata sul piano psicologico dal medesimo dolo specifico, per il debitore che produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile.

La lettera c) prevede una fattispecie preferenziale per debitore che, nel corso della procedura, effettua pagamenti non previsti nel piano oggetto dell’accordo, fatto salvo il regolare pagamento dei creditori estranei.

La lettera d) disciplina una fattispecie di bancarotta semplice: con la stessa pena della reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro è punito il debitore che, dopo il deposito della proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria. Potrebbe integrare la figura in esame anche un comportamento omissivo, ad esempio un atteggiamento di trascuratezza. Alla lettera e), infine, una fattispecie, caratterizzata dal dolo intenzionale, che punisce il debitore che non rispetta il contenuto dell’accordo. Ci si domanda, a proposito della fattispecie di cui alla lett. e), se alla stessa possa essere riconosciuta natura di fattispecie colposa, non potendosi prescindere dal secondo comma dell’art. 42 c.p. che, in materia di delitti, circoscrive la responsabilità a titolo di colpa ai casi espressamente previsti dalla legge.

La nuova disciplina, in conclusione, apre la possibilità ai soggetti fino ad oggi esclusi dalle tradizionali procedure, di accedere alla composizione della crisi da sovraindebitamento di nuova introduzione, dotata, opportunamente, di un impianto sanzionatorio le cui fattispecie sono modellate sui lineamenti principali delle classiche figure di bancarotta: conferendo così al sistema maggiore completezza e coerenza.