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In house providing, l’azienda speciale alla riscossa

È dotata del capitale d’impianto inizialmente conferitole dall’ente locale, ed è soggetta ai poteri d’indirizzo, controllo e vigilanza da parte di quest’ultimo, che ne approva il bilancio e gli altri atti fondamentali.

Ha personalità giuridica e spiccata autonomia imprenditoriale, ma opera in un raggio d’azione circoscritto al territorio di riferimento.

Si configura quale struttura tutto sommato periferica, ma resta allo stesso tempo saldamente incardinata nella compagine istituzionale dell’ente proprietario, del quale si connota come articolazione organizzativa e braccio operativo.

È questa in buona sostanza la carta d’identità dell’azienda speciale, i cui tratti somatici sono descritti dall’art. 114 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, una norma che recepisce nel nostro ordinamento giuridico i principi di fondo del vecchio R.D. n. 2578/1925, e che consegna al sistema economico dei nostri giorni quel tipico modello organizzativo che ha prevalentemente caratterizzato la gestione dei servizi pubblici locali nel secolo scorso.

Ora l’azienda speciale sembra riemergere dal “limbo” o, fuor di metafora, dal ruolo di secondo piano al quale è stata relegata dal Testo Unico degli Enti Locali, per entrare di nuovo sotto la luce dei riflettori, forse come protagonista, nella scena delle modalità organizzative gestionali per l’esercizio dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

E tutto ciò, per ironia della sorte, grazie ad un disegno di legge, il DDL 772, che ha ad oggetto una delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali, al fine di favorire, come recita l’art. 1, “la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale di rilevanza economica in ambito locale”.

D’altro canto la riabilitazione dei moduli organizzativi “storici” per acquisire beni o servizi all’interno della pubblica amministrazione è affermata senza ombra di dubbio dall’art. 2 del disegno di legge in commento, là dove l’obbligo di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica mediante procedure competitive è contemperato dalla clausola che mantiene ferma la possibilità per gli enti locali di gestire i servizi in economia, ovvero mediante l’impiego di aziende speciali.

È utile rammentare, volgendo lo sguardo al recente passato, che dopo la breve stagione nella quale sul territorio nazionale hanno trovato applicazione – dapprima a macchia di leopardo e poi a macchia d’olio – le procedure semplificate per la trasformazione delle aziende speciali (ex-municipalizzate) in società per azioni mediante atto unilaterale del Consiglio Comunale, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 127/1997, l’avviato processo di riforma si è arrestato prima ancora di imprimere alle dinamiche funzionali ed organizzative dell’impresa pubblica locale un reale cambiamento, attraverso le auspicate partnership con soggetti privati per l’apporto, da parte loro, del peculiare valore aggiunto rappresentato da logiche competitive di mercato, cospicue risorse finanziarie e know-how industriale di alto livello.

Quella medesima normativa prevedeva (in molti, forse, l’abbiamo dimenticato) che entro due anni dall’avvenuta trasformazione le neo – costituite S.p.A. aprissero il capitale sociale ad altri soci, mentre invece l’esperienza degli anni successivi ha sostanzialmente confermato, sul territorio nazionale, una larga presenza di società pubbliche a socio unico, nonché l’esteso ricorso agli affidamenti in house.

Ciò nonostante il passo verso la privatizzazione (ancorché formale) delle aziende dei servizi pubblici è stato comunque realizzato, con la diffusione ovunque, sull’intero territorio, delle società di capitali.

Alla luce di questi precedenti, può destare perplessità il “tuffo nel passato” eseguito dal DDL 772 con la riabilitazione di forme gestionali di autoproduzione – come il regime in economia e le aziende speciali – che sembravano modelli organizzativi ormai definitivamente superati.

A dire il vero, sorge spontanea l’impressione che il processo di riforma dei servizi pubblici locali per anni in cantiere, dopo avere scaldato i motori e aver preso un’interminabile ed estenuante rincorsa, non sia riuscito, alla fine di questa, a spiccare il volo e sia rimasto in panne sulla pista di decollo.

Da questo punto di vista, la zavorra che ha costretto al fallimento l’impresa potrebbe essere metaforicamente identificata con la poderosa mole dei disegni di legge e dei progetti di riforma che si sono avvicendati nel corso delle varie legislature, con lo scopo dichiarato di volere introdurre la concorrenza nel mercato dei servizi pubblici, ma con il risultato pratico di non avere saputo scalfire, salvo qualche rara eccezione, il tradizionale regime di monopolio locale di cui gode il mercato in questione.

Ferma restando la sostanziale veridicità di queste considerazioni, ci si potrebbe però chiedere se vi siano altre chiavi di lettura per valutare, sotto questo aspetto, la novità introdotta dalla delega di riforma in commento.

È ben vero che lo stato cronico d’incertezza in cui versa da anni la normativa sui servizi pubblici locali in Italia ha pesantemente penalizzato i processi di liberalizzazione e di privatizzazione del settore.

Di rado però ci si è chiesti, con animo sgombro da preconcetti, se la stentata diffusione di questi processi sia stata in assoluto un’occasione persa per dare impulso allo sviluppo economico del settore e per migliorare lo standard di qualità dei servizi pubblici, oppure se il fenomeno non sia piuttosto da leggersi come un possibile segnale del fatto che il mercato dei pubblici servizi, per le caratteristiche della sua singolare variegata fisionomia, non è suscettibile di essere sottoposto ex abrupto ad una rigorosa ed indiscriminata applicazione dei principi della concorrenza di mercato.

È necessario soffermarci brevemente su questo punto, perché esso appare come snodo di vitale importanza nel filo conduttore del nostro approfondimento.

Oggigiorno è un assunto generalmente condiviso che la libera concorrenza comporta il massimo di benessere nel sistema economico, per il fatto che la competizione tra i molteplici operatori sul versante dell’offerta migliora la qualità dei beni (o dei servizi) venduti, facendo diminuire il prezzo di mercato al minimo consentito dalla struttura dei costi, con l’eliminazione degli extraprofitti.

Da ciò deriva il largo convincimento che, almeno in linea di principio, quanto maggiore è la dose di concorrenza immessa nel mercato, tanto maggiore è il beneficio per la collettività.

Resta però da verificare nello specifico se questi concetti, di chiara impronta liberista, possano essere senz’altro applicati con frutto positivo nel mercato dei servizi pubblici locali, tenuto anche conto che detto mercato, visto nel suo insieme, si presenta come un’entità quanto mai diversificata, per via del fatto che in alcuni suoi ambiti già vige la libera concorrenza, ma in molti altri, al contrario, il monopolio pubblico regna pressoché indisturbato.

Ed è proprio questo il punto: l’eterogeneità del sistema economico in cui pullulano i molteplici e più disparati servizi pubblici locali mal si concilia con l’imposizione ideologica irremovibile di regole rigide ed univoche, desunte dai principi della libera concorrenza ad ogni costo.

In taluni segmenti del mercato dei servizi pubblici sarebbe una vera e propria forzatura pianificare a tavolino uno scenario con una pluralità indefinita di operatori, per semplice fatto che questo presupposto – senza il quale non si dà libera concorrenza – implicherebbe un irrealizzabile contesto senza ostacoli per l’operatore che intendesse entrare o uscire dal sistema in qualsiasi momento.

Si pone ancora oggi l’eterno ed insoluto dilemma: la logica del profitto, che il soggetto privato ovviamente persegue con la propria attività d’impresa, non sempre risulta compatibile con la necessità di garantire che un determinato servizio pubblico sia erogato a favore dei cittadini, non soltanto secondo i canoni di efficienza, efficacia ed economicità, ma anche (e soprattutto) in ottemperanza alle prestabilite finalità di pubblico interesse.

Ad argomentazioni non molto dissimili sembra ricollegarsi la Corte di Giustizia nella sentenza dell’11 gennaio 2005 sul caso Stadt Hall, nel passaggio ove è detto che “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, e i suoi servizi sottostà a considerazioni ed esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”.

Vi possono essere frangenti, insomma, nei quali l’imposizione dei cosiddetti “obblighi di servizio pubblico” – intesi come requisiti specifici imposti dalle autorità pubbliche al fornitore del servizio per garantire il conseguimento di alcuni obiettivi di interesse pubblico – non risultano sufficienti per ottenere lo scopo voluto, vuoi a causa dell’asimmetria informativa che spesso non consente all’ente locale affidante di svolgere al meglio le proprie funzioni di programmazione, vigilanza e controllo sul soggetto gestore, vuoi per la debolezza strutturale (e per la conseguente incapacità di apportare, all’occorrenza, i necessari interventi correttivi) da parte delle varie Authorities – ove costituite – preposte con compiti di regolazione nei vari settori del mercato.

È significativo che il 26 giugno 2007, nella relazione annuale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, lo stesso Presidente Tricalà abbia ammesso che “la società civile ci chiede più di quanto la legge ci consenta. Anche se le recenti riforme hanno fortificato la nostra Autorità, non siamo ancora legittimati a rispondere efficacemente ai tanti abusi che spesso il mercato evidenzia e i cittadini denunziano”.

È ben noto, del resto, come gli emblematici esempi della crisi dell’elettricità in California nel 2001 a seguito della liberalizzazione del mercato di settore, o delle nefaste conseguenze legate alla privatizzazione delle ferrovie in Gran Bretagna siano stati gli “spettri” insistentemente evocati (peraltro non sempre a proposito) dai nemici della libera concorrenza nel mercato dei servizi pubblici.

Alla luce di queste considerazioni, ben venga dunque un quadro normativo di regole meno ispirato a scelte ideologiche, e maggiormente rispettoso della libertà di scelta delle autorità locali tra possibili soluzioni organizzative diverse, in relazione alle peculiarità del mercato e dei distinti servizi pubblici da gestire.

Tanto più che una svolta nella direzione dell’in house providing, al ricorrere delle debite condizioni che ne consentono il legittimo impiego, non può certo dirsi in contraddizione con gli orientamenti della Comunità Europea: anzi, semmai è vero l’esatto contrario.

E ciò non solo per la nota “clausola di salvaguardia” prevista in materia dall’art. 86, paragrafo 2, del trattato CE (“le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”).

Dopo, infatti, la rigorosa e restrittiva interpretazione dell’affidamento in house fornita dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 ottobre 2005 sul caso Parking Brixen, la pronuncia della stessa Corte relativa al caso Tragsa, del 19 aprile 2007, ha ritenuto perfettamente legittimo l’affidamento in house da parte di un ente affidante con una partecipazione di assoluta minoranza nella compagine del soggetto affidatario, a motivo della limitata autonomia decisionale che di tale soggetto caratterizzava l’operatività.

Non va trascurata, inoltre, l’interessante apertura alla formula dell’in house contenuta nel regolamento approvato il 10 maggio 2007 dal Parlamento Europeo in materia di trasporto pubblico, che, a prestabilite condizioni, consentirà in futuro la facoltà di assegnare direttamente contratti di servizio ad operatori interni alla pubblica amministrazione.

Si tenga infine presente che il Comitato delle Regioni, nell’autorevole parere pubblicato sulla Gazzetta dell’Unione Europea in data 29 agosto 2006, ha auspicato che gli orientamenti comunitari consentano liberamente agli enti locali il ricorso all’in house providing.

Ecco il testo del parere nel punto di nostro interesse, che appare inequivocabilmente foriero delle novità introdotte in argomento dal DDL 772: “gli enti regionali e locali hanno il diritto di scegliere liberamente la loro forma di prestazione dei servizi di interesse (economico) generale; [il Comitato] auspica che, in questo campo, d’ora in avanti il quadro giuridico europeo resti aperto alla possibilità della produzione propria e dell’affidamento diretto ad aziende in-house anche in senso lato, ossia aziende speciali/controllate. È necessario inoltre che anche la normativa in materia di appalti e di aiuti di Stato preveda una maggiore flessibilità per le città e le regioni” (punto 2.12).

Concludendo, è giunto il momento in cui il legislatore nazionale sta per varare un nuovo quadro normativo che assegnerà una maggiore libertà di manovra al potere di scelta degli enti locali.

Tale scelta, nei casi di gestione in economia e mediante azienda speciale, implicherà l’esclusione a priori del ricorso al mercato con la selezione del soggetto gestore mediante gara, allorché questa specifica opzione non offra, a insindacabile giudizio dell’ente locale, sufficienti garanzie di salvaguardia degli standard di pubblico interesse che l’ente stesso intende assicurare, in via prioritaria ed assoluta, alla collettività amministrata.

L’impatto che il disegno di riforma verrà a produrre sul sistema di gestione dei servizi pubblici locali dipenderà, questo è certo, dal ruolo propulsivo che gli enti locali svolgeranno nel dare applicazione alle nuove regole del gioco.

Sarà davvero interessante osservare se i Comuni, specie quelli di piccole e medie dimensioni, sapranno trarre un autentico vantaggio dalla maggiore libertà di manovra loro assegnata.

Se sapranno cioè mettere in campo nuove risorse e più qualificate professionalità, per dare corso alle adeguate analisi comparative fondate sul rapporto costo/benefici delle varie opzioni, onde poter valutare di volta in volta, con piena cognizione di causa, il modulo organizzativo ottimale per il disimpegno di un determinato servizio pubblico sul territorio, dando poi ragione ai cittadini amministrati della scelta eseguita.

È dotata del capitale d’impianto inizialmente conferitole dall’ente locale, ed è soggetta ai poteri d’indirizzo, controllo e vigilanza da parte di quest’ultimo, che ne approva il bilancio e gli altri atti fondamentali.

Ha personalità giuridica e spiccata autonomia imprenditoriale, ma opera in un raggio d’azione circoscritto al territorio di riferimento.

Si configura quale struttura tutto sommato periferica, ma resta allo stesso tempo saldamente incardinata nella compagine istituzionale dell’ente proprietario, del quale si connota come articolazione organizzativa e braccio operativo.

È questa in buona sostanza la carta d’identità dell’azienda speciale, i cui tratti somatici sono descritti dall’art. 114 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, una norma che recepisce nel nostro ordinamento giuridico i principi di fondo del vecchio R.D. n. 2578/1925, e che consegna al sistema economico dei nostri giorni quel tipico modello organizzativo che ha prevalentemente caratterizzato la gestione dei servizi pubblici locali nel secolo scorso.

Ora l’azienda speciale sembra riemergere dal “limbo” o, fuor di metafora, dal ruolo di secondo piano al quale è stata relegata dal Testo Unico degli Enti Locali, per entrare di nuovo sotto la luce dei riflettori, forse come protagonista, nella scena delle modalità organizzative gestionali per l’esercizio dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

E tutto ciò, per ironia della sorte, grazie ad un disegno di legge, il DDL 772, che ha ad oggetto una delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali, al fine di favorire, come recita l’art. 1, “la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale di rilevanza economica in ambito locale”.

D’altro canto la riabilitazione dei moduli organizzativi “storici” per acquisire beni o servizi all’interno della pubblica amministrazione è affermata senza ombra di dubbio dall’art. 2 del disegno di legge in commento, là dove l’obbligo di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica mediante procedure competitive è contemperato dalla clausola che mantiene ferma la possibilità per gli enti locali di gestire i servizi in economia, ovvero mediante l’impiego di aziende speciali.

È utile rammentare, volgendo lo sguardo al recente passato, che dopo la breve stagione nella quale sul territorio nazionale hanno trovato applicazione – dapprima a macchia di leopardo e poi a macchia d’olio – le procedure semplificate per la trasformazione delle aziende speciali (ex-municipalizzate) in società per azioni mediante atto unilaterale del Consiglio Comunale, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 127/1997, l’avviato processo di riforma si è arrestato prima ancora di imprimere alle dinamiche funzionali ed organizzative dell’impresa pubblica locale un reale cambiamento, attraverso le auspicate partnership con soggetti privati per l’apporto, da parte loro, del peculiare valore aggiunto rappresentato da logiche competitive di mercato, cospicue risorse finanziarie e know-how industriale di alto livello.

Quella medesima normativa prevedeva (in molti, forse, l’abbiamo dimenticato) che entro due anni dall’avvenuta trasformazione le neo – costituite S.p.A. aprissero il capitale sociale ad altri soci, mentre invece l’esperienza degli anni successivi ha sostanzialmente confermato, sul territorio nazionale, una larga presenza di società pubbliche a socio unico, nonché l’esteso ricorso agli affidamenti in house.

Ciò nonostante il passo verso la privatizzazione (ancorché formale) delle aziende dei servizi pubblici è stato comunque realizzato, con la diffusione ovunque, sull’intero territorio, delle società di capitali.

Alla luce di questi precedenti, può destare perplessità il “tuffo nel passato” eseguito dal DDL 772 con la riabilitazione di forme gestionali di autoproduzione – come il regime in economia e le aziende speciali – che sembravano modelli organizzativi ormai definitivamente superati.

A dire il vero, sorge spontanea l’impressione che il processo di riforma dei servizi pubblici locali per anni in cantiere, dopo avere scaldato i motori e aver preso un’interminabile ed estenuante rincorsa, non sia riuscito, alla fine di questa, a spiccare il volo e sia rimasto in panne sulla pista di decollo.

Da questo punto di vista, la zavorra che ha costretto al fallimento l’impresa potrebbe essere metaforicamente identificata con la poderosa mole dei disegni di legge e dei progetti di riforma che si sono avvicendati nel corso delle varie legislature, con lo scopo dichiarato di volere introdurre la concorrenza nel mercato dei servizi pubblici, ma con il risultato pratico di non avere saputo scalfire, salvo qualche rara eccezione, il tradizionale regime di monopolio locale di cui gode il mercato in questione.

Ferma restando la sostanziale veridicità di queste considerazioni, ci si potrebbe però chiedere se vi siano altre chiavi di lettura per valutare, sotto questo aspetto, la novità introdotta dalla delega di riforma in commento.

È ben vero che lo stato cronico d’incertezza in cui versa da anni la normativa sui servizi pubblici locali in Italia ha pesantemente penalizzato i processi di liberalizzazione e di privatizzazione del settore.

Di rado però ci si è chiesti, con animo sgombro da preconcetti, se la stentata diffusione di questi processi sia stata in assoluto un’occasione persa per dare impulso allo sviluppo economico del settore e per migliorare lo standard di qualità dei servizi pubblici, oppure se il fenomeno non sia piuttosto da leggersi come un possibile segnale del fatto che il mercato dei pubblici servizi, per le caratteristiche della sua singolare variegata fisionomia, non è suscettibile di essere sottoposto ex abrupto ad una rigorosa ed indiscriminata applicazione dei principi della concorrenza di mercato.

È necessario soffermarci brevemente su questo punto, perché esso appare come snodo di vitale importanza nel filo conduttore del nostro approfondimento.

Oggigiorno è un assunto generalmente condiviso che la libera concorrenza comporta il massimo di benessere nel sistema economico, per il fatto che la competizione tra i molteplici operatori sul versante dell’offerta migliora la qualità dei beni (o dei servizi) venduti, facendo diminuire il prezzo di mercato al minimo consentito dalla struttura dei costi, con l’eliminazione degli extraprofitti.

Da ciò deriva il largo convincimento che, almeno in linea di principio, quanto maggiore è la dose di concorrenza immessa nel mercato, tanto maggiore è il beneficio per la collettività.

Resta però da verificare nello specifico se questi concetti, di chiara impronta liberista, possano essere senz’altro applicati con frutto positivo nel mercato dei servizi pubblici locali, tenuto anche conto che detto mercato, visto nel suo insieme, si presenta come un’entità quanto mai diversificata, per via del fatto che in alcuni suoi ambiti già vige la libera concorrenza, ma in molti altri, al contrario, il monopolio pubblico regna pressoché indisturbato.

Ed è proprio questo il punto: l’eterogeneità del sistema economico in cui pullulano i molteplici e più disparati servizi pubblici locali mal si concilia con l’imposizione ideologica irremovibile di regole rigide ed univoche, desunte dai principi della libera concorrenza ad ogni costo.

In taluni segmenti del mercato dei servizi pubblici sarebbe una vera e propria forzatura pianificare a tavolino uno scenario con una pluralità indefinita di operatori, per semplice fatto che questo presupposto – senza il quale non si dà libera concorrenza – implicherebbe un irrealizzabile contesto senza ostacoli per l’operatore che intendesse entrare o uscire dal sistema in qualsiasi momento.

Si pone ancora oggi l’eterno ed insoluto dilemma: la logica del profitto, che il soggetto privato ovviamente persegue con la propria attività d’impresa, non sempre risulta compatibile con la necessità di garantire che un determinato servizio pubblico sia erogato a favore dei cittadini, non soltanto secondo i canoni di efficienza, efficacia ed economicità, ma anche (e soprattutto) in ottemperanza alle prestabilite finalità di pubblico interesse.

Ad argomentazioni non molto dissimili sembra ricollegarsi la Corte di Giustizia nella sentenza dell’11 gennaio 2005 sul caso Stadt Hall, nel passaggio ove è detto che “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, e i suoi servizi sottostà a considerazioni ed esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”.

Vi possono essere frangenti, insomma, nei quali l’imposizione dei cosiddetti “obblighi di servizio pubblico” – intesi come requisiti specifici imposti dalle autorità pubbliche al fornitore del servizio per garantire il conseguimento di alcuni obiettivi di interesse pubblico – non risultano sufficienti per ottenere lo scopo voluto, vuoi a causa dell’asimmetria informativa che spesso non consente all’ente locale affidante di svolgere al meglio le proprie funzioni di programmazione, vigilanza e controllo sul soggetto gestore, vuoi per la debolezza strutturale (e per la conseguente incapacità di apportare, all’occorrenza, i necessari interventi correttivi) da parte delle varie Authorities – ove costituite – preposte con compiti di regolazione nei vari settori del mercato.

È significativo che il 26 giugno 2007, nella relazione annuale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, lo stesso Presidente Tricalà abbia ammesso che “la società civile ci chiede più di quanto la legge ci consenta. Anche se le recenti riforme hanno fortificato la nostra Autorità, non siamo ancora legittimati a rispondere efficacemente ai tanti abusi che spesso il mercato evidenzia e i cittadini denunziano”.

È ben noto, del resto, come gli emblematici esempi della crisi dell’elettricità in California nel 2001 a seguito della liberalizzazione del mercato di settore, o delle nefaste conseguenze legate alla privatizzazione delle ferrovie in Gran Bretagna siano stati gli “spettri” insistentemente evocati (peraltro non sempre a proposito) dai nemici della libera concorrenza nel mercato dei servizi pubblici.

Alla luce di queste considerazioni, ben venga dunque un quadro normativo di regole meno ispirato a scelte ideologiche, e maggiormente rispettoso della libertà di scelta delle autorità locali tra possibili soluzioni organizzative diverse, in relazione alle peculiarità del mercato e dei distinti servizi pubblici da gestire.

Tanto più che una svolta nella direzione dell’in house providing, al ricorrere delle debite condizioni che ne consentono il legittimo impiego, non può certo dirsi in contraddizione con gli orientamenti della Comunità Europea: anzi, semmai è vero l’esatto contrario.

E ciò non solo per la nota “clausola di salvaguardia” prevista in materia dall’art. 86, paragrafo 2, del trattato CE (“le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”).

Dopo, infatti, la rigorosa e restrittiva interpretazione dell’affidamento in house fornita dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 ottobre 2005 sul caso Parking Brixen, la pronuncia della stessa Corte relativa al caso Tragsa, del 19 aprile 2007, ha ritenuto perfettamente legittimo l’affidamento in house da parte di un ente affidante con una partecipazione di assoluta minoranza nella compagine del soggetto affidatario, a motivo della limitata autonomia decisionale che di tale soggetto caratterizzava l’operatività.

Non va trascurata, inoltre, l’interessante apertura alla formula dell’in house contenuta nel regolamento approvato il 10 maggio 2007 dal Parlamento Europeo in materia di trasporto pubblico, che, a prestabilite condizioni, consentirà in futuro la facoltà di assegnare direttamente contratti di servizio ad operatori interni alla pubblica amministrazione.

Si tenga infine presente che il Comitato delle Regioni, nell’autorevole parere pubblicato sulla Gazzetta dell’Unione Europea in data 29 agosto 2006, ha auspicato che gli orientamenti comunitari consentano liberamente agli enti locali il ricorso all’in house providing.

Ecco il testo del parere nel punto di nostro interesse, che appare inequivocabilmente foriero delle novità introdotte in argomento dal DDL 772: “gli enti regionali e locali hanno il diritto di scegliere liberamente la loro forma di prestazione dei servizi di interesse (economico) generale; [il Comitato] auspica che, in questo campo, d’ora in avanti il quadro giuridico europeo resti aperto alla possibilità della produzione propria e dell’affidamento diretto ad aziende in-house anche in senso lato, ossia aziende speciali/controllate. È necessario inoltre che anche la normativa in materia di appalti e di aiuti di Stato preveda una maggiore flessibilità per le città e le regioni” (punto 2.12).

Concludendo, è giunto il momento in cui il legislatore nazionale sta per varare un nuovo quadro normativo che assegnerà una maggiore libertà di manovra al potere di scelta degli enti locali.

Tale scelta, nei casi di gestione in economia e mediante azienda speciale, implicherà l’esclusione a priori del ricorso al mercato con la selezione del soggetto gestore mediante gara, allorché questa specifica opzione non offra, a insindacabile giudizio dell’ente locale, sufficienti garanzie di salvaguardia degli standard di pubblico interesse che l’ente stesso intende assicurare, in via prioritaria ed assoluta, alla collettività amministrata.

L’impatto che il disegno di riforma verrà a produrre sul sistema di gestione dei servizi pubblici locali dipenderà, questo è certo, dal ruolo propulsivo che gli enti locali svolgeranno nel dare applicazione alle nuove regole del gioco.

Sarà davvero interessante osservare se i Comuni, specie quelli di piccole e medie dimensioni, sapranno trarre un autentico vantaggio dalla maggiore libertà di manovra loro assegnata.

Se sapranno cioè mettere in campo nuove risorse e più qualificate professionalità, per dare corso alle adeguate analisi comparative fondate sul rapporto costo/benefici delle varie opzioni, onde poter valutare di volta in volta, con piena cognizione di causa, il modulo organizzativo ottimale per il disimpegno di un determinato servizio pubblico sul territorio, dando poi ragione ai cittadini amministrati della scelta eseguita.