I cross-border workers tra disciplina convenzionale e domestica

Porticato di San Luca, Bologna
Ph. Luca Martini / Porticato di San Luca, Bologna

Abstract

La global mobility è stata per la maggior parte delle aziende sospesa nel 2020 e per parte del 2021 a seguito delle misure sanitarie restrittive adottate dai Paesi per la pandemia da Covid-19: le linee guida emanate nel corso del 2020 e del 2021 dal Segretariato OCSE raccomandano alle amministrazioni fiscali e alle autorità competenti di tenere in debita considerazione il carattere di eccezionalità rivestito dall’emergenza pandemica.

 

Indice:

1. Cross-border workers e residenza “pandemica”

2. Linee guida dell’OCSE

3. La “sensibilità” dell’Agenzia delle Entrate

 

1. Cross-border workers e residenza “pandemica”

La crisi economico-sanitaria causata dalla pandemia da COVID-19 e le restrizioni sanitarie adottate in ambito internazionale nel corso del 2020 hanno influito pesantemente sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa dei c.d. lavoratori in mobilità internazionale. La rilevanza di questa situazione ha costretto molti Paesi, quali Australia, Canada, Finlandia, Francia, Grecia, India, Irlanda, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti, a fornire indicazioni ed emanare provvedimenti amministrativi relativamente all’impatto “pandemico” sull’applicazione dei trattati internazionali ai fini di una corretta individuazione della residenza fiscale delle persone fisiche che operano in ambito internazionale. Sul tema è sceso in campo a più riprese il Segretariato dell’OCSE con apposite linee guida (20 aprile 20202 e 21 gennaio 2021) che hanno confermato l’irrilevanza della situazione emergenziale causata dalla pandemia COVID-19 sulla determinazione della residenza fiscale ai sensi dei trattati internazionali pur in presenza di complesse regole la cui applicazione è destinata ad una vasta gamma di persone.

 

2. Linee guida dell’OCSE

L’OCSE delinea i possibili scenari che si potranno prospettare e, in particolare, ne individua due:

  1. Una persona è temporaneamente fuori casa (per motivi di vacanza o per lavoro per poche settimane) e rimane bloccata nel Paese ospitante a causa della pandemia COVID-19 e vi acquisisce la residenza in base alla normativa locale.
  2. Una persona lavora in un Paese (il “Paese di residenza attuale”) e vi acquisisce lo status di residenza, ma ritorna temporaneamente al suo “Paese di origine precedente” a causa dell’emergenza COVID-19. Questa persona potrebbe non aver mai perso lo status di residente nel Paese di origine precedente, ai sensi della legislazione nazionale, oppure potrebbe acquisire nuovamente lo status di residenza al proprio ritorno.

L’OCSE ricorda e conferma che in entrambe le citate situazioni, sebbene il punto di partenza, nella determinazione della residenza di una persona fisica, sia la normativa nazionale, quest’ultima può essere esaustiva unicamente se la persona è residente in un solo Paese; in tutti i casi in cui vi sia un rischio di doppia residenza, si deve far riferimento alle “tie-breakers rules”, stabilite nell’articolo 4 del modello OCSE. Come già suggerito nelle raccomandazioni di aprile 2020l’OCSE ribadisce, inoltre, l’eccezionalità della crisi pandemica e sostiene che nel breve termine le amministrazioni fiscali e le autorità competenti dovranno considerare, ai fini della valutazione della residenza, un arco temporale che non sia influenzato da eventi eccezionali quale la pandemia e le conseguenti restrizioni sanitarie, e, quindi, un periodo di tempo che risulti “normale” per la persona.

Segnatamente, l’OCSE prende in esame il reddito da lavoro dipendente partendo dall’analisi dell’art. 15 delle Convenzioni internazionali con cui si disciplina la tassazione dei redditi da lavoro dipendente e analizza puntualmente le posizioni dei c.d. lavoratori transfrontalieri o “cross-border workers” individuando le seguenti casistiche applicative:

  • sussidi salariali e altri redditi simili percepiti da lavoratori transfrontalieri che non possono svolgere il proprio lavoro a causa delle restrizioni;
  • lavoratori bloccati in una giurisdizione in cui non sono residenti, ma nella quale in precedenza hanno esercitato un’attività lavorativa;
  • lavoratori che lavorano a distanza da una giurisdizione per un datore di lavoro residente in un’altra giurisdizione.

Per i lavoratori transfrontalieri che non possono svolgere il proprio lavoro a causa delle restrizioni COVID-19 l’OCSE ritiene che i sussidi governativi ricevuti dai datori di lavoro e dai lavoratori per garantire la continuità delle posizioni lavorative anche durante la pandemia COVID-19, debbano essere tassati nel luogo in cui era svolta l’attività lavorativa a cui tali sussidi fanno riferimento: e ancora, l’OCSE considera i trattamenti straordinari legati alla perdita del lavoro oppure agli interventi dei singoli stati a supporto del reddito da lavoro dipendente alla stregua dei trattamenti erogati in occasione della cessazione dei rapporti di lavoro dipendente e, quindi, di tassare nel Paese in cui è stata prestata l’attività lavorativa a cui essi si riferiscono che nella sostanza coincide con il luogo in cui la persona lavorava prima della pandemia di COVID-19.

Altra raccomandazione viene espressa per i soggetti residenti in una giurisdizione che hanno esercitato un’attività lavorativa in un’altra giurisdizione e si sono ritrovati bloccati in quell’altra giurisdizione e, riassumendo le posizioni assunte sul tema da alcuni Paesi, l’OCSE raccomanda di ragionevolmente ignorare, considerata la situazione eccezionale causata dalla pandemia e dalle misure restrittive adottate dalle singole giurisdizioni, il superamento della soglia dei giorni di presenza dei 183 giorni contenuta nell’art. 15, comma 2, lett. a) delle convenzioni internazionali modello OCSE: tuttavia, viene suggerito di verificare caso per caso, in base alle previsioni ai singoli trattati internazionali nonché alle eventuali nuove linee guida che ciascun Paese potrà adottare.

Altro tema affrontato dal mondo OCSE è quello legato al cambiamento del luogo nel quale viene esercitata l’attività lavorativa, quando tale cambiamento comporta una modifica nel diritto di tassazione di un Paese rispetto ad un altro: si tratta del teleworking dall’estero e, cioè lavorare a distanza da una giurisdizione per un datore di lavoro residente in un’altra giurisdizione con rilevanti conseguenze fiscali sugli obblighi del datore di lavoro come sostituto d’imposta e/o sul lavoratore. L’OCSE affronta il tema delle conseguenze che si possono verificare, in capo al datore di lavoro e al lavoratore, a seguito del cambiamento del luogo nel quale viene esercitata l’attività lavorativa, in particolare, quando tale cambiamento può comportare una modifica nel diritto di tassazione di un Paese rispetto ad un altro e quando si possono verificare conseguenze che hanno un impatto fiscale sugli obblighi del datore di lavoro come sostituto d’imposta e/o sul lavoratore: vengono riportati alcuni esempi riferibili ai cambiamenti nell’allocazione dei diritti di tassazione sul reddito da lavoro dipendente e l’OCSE si sofferma sulle possibili conseguenze che si avrebbero in riferimento all’applicazione dell’art. 15 del Modello OCSE, laddove la situazione contingente andasse a modificare la sussistenza dei requisiti previsto dallo stesso art. 15. In questa situazione potrebbe aversi, da un lato la perdita del diritto a godere dell’esenzione garantita dall’art. 15, con conseguenti obblighi fiscali, dall’altro potrebbe generare eventuali crediti a seguito dell’applicazione di ritenute alla fonte non sospese nell’altro Stato e, in alcuni casi, doppia tassazione con conseguenti oneri legati alla liquidità del lavoratore in attesa di restituzione del credito di imposta. L’OCSE raccomanda, ancora una volta, di mantenere un approccio più flessibile e un livello eccezionale di coordinamento fra i Paesi per garantire la gestione di un evento eccezionale come l’attuale pandemia.

 

3. La “sensibilità” dell’Agenzia delle Entrate

Successivamente alle raccomandazioni dell’OCSE alle amministrazioni fiscali e alle autorità competenti di tenere in debita considerazione il carattere di eccezionalità rivestito dall’emergenza da Covid-19, l’Agenzia delle Entrate con la risposta all’interpello n. 345/2021 si pronuncia sul regime fiscale riservato al reddito conseguito da un dipendente distaccato all’estero, operante in regime di smart working a causa del particolare contesto epidemiologico “Covid-19”. Il caso prospettato si riferisce ad una società, appartenente a un gruppo di dimensione internazionale, che utilizza la mobilità internazionale del proprio personale e dove alcuni dipendenti svolgono la propria attività lavorativa all’estero presso le sedi del Gruppo. In tale contesto, è frequente che il personale dipendente della società svolga la propria attività lavorativa all’estero, attraverso l’istituto giuridico del distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero con le altre consociate estere del Gruppo.

L’improvvisa crisi sanitaria internazionale determinata dal diffondersi del Covid-19 ha stravolto le modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa, determinando casi di blocco forzato dove a rientri improvvisi nei Paesi di origine si è contrapposta l’impossibilità dei dipendenti di ritornare nel luogo in cui normalmente l’attività veniva prestata in precedenza. Per ovviare a tale situazione si è anche reso necessario fare ricorso al c.d. “smart working” dalla propria abitazione, in considerazione della sopravvenuta impossibilità di frequentare gli uffici aziendali per effetto di raccomandazioni governative e dell’implementazione delle correlate politiche aziendali.

Per essere più pratici, il caso si riferisce a un dipendente fiscalmente residente in Italia, assunto con contratto a tempo indeterminato e inquadramento di dirigente, distaccato a decorrere dal 1° maggio 2019 presso una consociata estera con sede di lavoro presso gli uffici della società a Parigi che a causa della straordinarietà della situazione e delle restrizioni alla libertà di circolazione imposte derivanti dall’emergenza Covid-19, è rientrato in Italia nel mese di febbraio 2020 continuando a svolgere la propria prestazione lavorativa in regime di “remote working”, con la diretta conseguenza che il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente è diventato, eccezionalmente e temporaneamente, l’abitazione del lavoratore in Italia ove la famiglia del dipendente ha sempre vissuto. Il dubbio da chiarire era riferito al fatto che il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero potesse o meno essere assoggettato a tassazione assumendo come base imponibile la “retribuzione convenzionale” di cui all’articolo 51, comma 8-bis del TUIR a nulla rilevando la retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore.

A parere dell’Agenzia delle entrate, la citata disciplina fiscale trova applicazione a condizione che:

  • l’attività lavorativa sia svolta all’estero per un determinato periodo di tempo con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità;
  • l’attività lavorativa svolta all’estero costituisca l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro e, pertanto, l’esecuzione della prestazione lavorativa sia integralmente svolta all’estero;
  • il lavoratore, nell’arco di dodici mesi, soggiorni nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni.

In particolare, il requisito del soggiorno nel Paese estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi si ritiene soddisfatto nell’arco temporale intercorrente tra il 1° maggio 2019 (giorno del distacco in Francia) fino al 22 febbraio 2020 (ultimo giorno di permanenza all’estero), dal momento che in tale arco temporale il lavoratore ha soggiornato nel Paese estero per 298 giorni e la retribuzione convenzionale relativa al mese di febbraio 2020 deve essere riproporzionata tenendo conto che dal 23 febbraio 2020 il dipendente soggiorna in Italia e, conseguentemente, da tale data non è rispettata una delle condizioni richieste dal legislatore.

Quindi, in relazione al reddito di lavoro dipendente prodotto a decorrere dal 23 febbraio 2020, occorrerà necessariamente rideterminare il reddito di lavoro dipendente prodotto dal lavoratore ai sensi dell’articolo 51, commi da 1 a 8 del TUIR e, quindi, la retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore.

La risposta all’interpello in commento dimostra tutta la “sensibilità” dell’Agenzia delle Entrate sul tema relativo allo status di residenza fiscale dei cittadini italiani residenti all’estero trattenuti in Italia a causa dell’emergenza da Covid-19 in un periodo “devastante” come quello vissuto da tutti noi e dai cross-border workers: viene affermato, che le raccomandazioni dell’OCSE nonché le disposizioni contenute nel suddetto Accordo amichevole tra l’Italia e la Francia, riguardano unicamente i canoni ermeneutici del diritto internazionale pattizio (nel caso di specie della vigente Convenzione tra l’Italia e la Francia per evitare le doppie imposizioni) e non hanno alcuna rilevanza ai fini della normativa interna e, quindi, nel caso di specie, non possono essere utilizzate per interpretare le disposizioni contenute nell’articolo 51, comma 8-bis del TUIR.

E quì comando io, e questa è casa mia, ogni dì voglio sapere chi viene e chi va…..