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Il contratto a termine

Sommario:

1. Riferimenti normativi

2. Forma del contratto

3. Conseguenze derivanti dalla scorretta indicazione della causale

4. Divieto di ricorso al contratto a termine

5. Parità di trattamento economico-normativo con il contratto a tempo indeterminato

6. Durata e proroga

7. Diritto di precedenza

8. Successione di contratti a termine

9. Eccezioni al limite di durata (la cd. deroga assistita)

10. Indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine

11. Cessazione del rapporto

12. Criteri di computo dei lavoratori

13. Limiti quantitativi ed esclusioni da tali limiti

1. Riferimenti normativi

Il contratto a tempo determinato è attualmente disciplinato dal d. lgs. 6.9.2001 n.368 (emanato in attuazione della Direttiva comunitaria 1999/70 sul lavoro a termine) - che ha espressamente abrogato la precedente normativa - così come modificato ed integrato dalla legge 24.12.2007 n. 247 (cd. collegato alla finanziaria 2007) e dal d.l. 112/2008 convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008.

A tal proposito, il d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368 stabilisce che è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro (art.1, comma 1).

La modifica ex lege n. 247/07 interviene su uno dei punti più controversi della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 368/2001, cioè in ordine alla natura straordinaria oppure ordinaria delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto a termine. Secondo una lettura - molto seguita dalla giurisprudenza successiva all’approvazione della precitata normativa - le esigenze che legittimano l’apposizione del contratto dovrebbero avere necessariamente caratteristiche di eccezionalità, e, pertanto, non dovrebbero essere connesse all’ordinaria attività dell’impresa.

In tal senso, con riferimento alla vecchia normativa dell’abrogata legge n. 230/1962, è stato affermato: «Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c, l. 18 aprile 1962 n. 230, l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato è consentita anche nel caso di un incremento della normale ed ordinaria attività aziendale, sempreché tale incremento sia correlato ad eventi eccezionali, di per sé non ripetibili negli stessi tempi e con le stesse modalità e che sconvolgano la pur adeguata programmazione dell’imprenditore, per cui l’assunzione a termine non è consentita allorché alla stessa si sia fatto ricorso in previsione di un incremento dell’attività produttiva ed al solo fine di ridurre il rischio di impresa. Ciò vale anche quando l’assunzione avvenga subito dopo ed in ragione dell’avvenuta espansione dell’impresa, alla quale devono pertanto rapportarsi le situazioni di straordinarietà ed occasionalità, in generale riferibili, rispettivamente, le prime al verificarsi di fatti eccedenti i limiti della normalità e, le seconde, al verificarsi di circostanze esorbitanti dalla normale programmazione. Ne consegue che la programmata espansione o la normale fluttuazione dell’impresa sul mercato non possiedono i suddetti requisiti, solo in presenza dei quali il contratto a termine diventa eccezionalmente legittimo»[1].

Invece, ferma restando la dichiarazione di principio introdotta dall’articolo 1, comma 39, della legge n. 247 del 24 dicembre 2007, al comma 1 dell’art. 1 del d. lgs. n. 368/2001 - in base alla quale “il contratto di lavoro subordinato è di regola a tempo indeterminato” - in sede di conversione del d.l. n. 112/2008 è stato previsto che le esigenze “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” possano essere riferite anche “alla ordinaria attività del datore di lavoro”. In tal modo sembrerebbe che il contratto a termine possa essere stipulato anche a fronte di carenze strutturali e permanenti nell’organico aziendale.

Quanto alla natura del contratto a termine, per effetto del comma 39 della l. n. 247/07 - secondo cui «il contratto di lavoro subordinato è di regola a tempo indeterminato» - la giurisprudenza ha correttamente riconosciuto il “carattere eccezionale” del contratto di lavoro a tempo determinato, rispetto a quello a tempo indeterminato che, pertanto, costituisce la forma o fattispecie normale del rapporto di lavoro. In tal senso: «Alla stregua del D. Lgs n. 368 del 2001, interpretato in conformità alla normativa comunitaria da cui trae origine, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro resta un’ipotesi eccezionale e, pertanto, è giustificata solo se sussistono ragioni oggettive, eziologicamente collegate ad ogni specifica assunzione a termine»[2].

2. Forma del contratto

Dall’art.1, comma 2, del decreto n. 112/08 si evince che l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1. La legge precisa, quindi, che tanto l’apposizione del termine, quanto la ragione che la giustifica devono risultare per iscritto, pena l’inefficacia del termine stesso, a meno che il termine non sia superiore a dodici giorni, nel qual caso l’atto scritto non è necessario. Il contratto deve essere, quindi, stipulato in forma scritta e deve contenere l’indicazione delle ragioni sopra indicate; in loro mancanza, il contratto si considera a tempo indeterminato. Una copia dell’atto scritto deve essere consegnata al lavoratore all’inizio del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza ha chiarito che la causale del ricorso al contratto a termine deve essere descritta in modo “puntuale e dettagliato”, evitando locuzioni generiche e/o tautologiche, dal momento che quest’ultime impedirebbero al Giudice di operare il controllo sull’effettività della causale e quindi sulla legittimità del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato: «Le ragioni devono essere chiaramente specificate, esplicitate in modo preciso e sufficientemente dettagliato; non è sufficiente il mero richiamo a formule di legge, a ipotesi alternative o comunque indicazioni di carattere generico; deve essere possibile per il giudice verificare il nesso di causalità tra le ragioni addotte e la specifica assunzione a tempo determinato: è a carico del datore di lavoro l’onere di provare l’effettiva sussistenza delle ragioni giustificative addotte»[3]. Parte della giurisprudenza ha sostenuto che sarebbe necessario specificare anche il nesso causale fra le ragioni aziendali che giustificano il ricorso al contratto di lavoro a termine ed il singolo contratto di lavoro: «Anche dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 368 del 2001, la causa che giustifica l’apposizione del termine non può essere formulata in termini generici, ma devono essere indicate le specifiche circostanze di fatto (come ad esempio i motivi organizzativi, cronologici, territoriali, tecnologici) per le quali si procede all’assunzione, nonché il loro nesso causale con il singolo contratto stipulato»[4]. E’ stato infatti detto: «La ragione sostitutiva, che giustifica ex art. 1 D.lgs. 368/01 l’assunzione di personale a tempo determinato, deve essere specificamente indicata, in modo da consentire l’individuazione del personale che l’assunto a termine deve sostituire, a maggior ragione in una struttura aziendale numerosa e territorialmente vasta (Poste Italiane)»[5].

Relativamente al ricorso al contratto a termine per sostituzione di lavoratore con diritto alla conservazione del posto, è affermazione pacifica quella per cui: «L’assunzione di un lavoratore allo scopo di sostituire temporaneamente un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, può avvenire con la fissazione di un termine finale al rapporto, o anche con l’indicazione di un termine per relationem con riferimento al ritorno in servizio del lavoratore sostituito»[6]. A tal riguardo va segnalata l’irregolarità della prassi aziendale di prolungamento di fatto della cessazione del contratto a termine del sostituto (non al venir meno dell’originaria causale: es. assenza per maternità della sostituita, ma) al rientro della lavoratrice dopo la fruizione, in aggiunta all’assenza per maternità, del periodo di ferie da essa maturate nell’anno. La prassi è illegittima giacché un simile prolungamento di fatto aggira la necessitata instaurazione (eventualmente con lo stesso lavoratore a termine) di un distinto contratto a termine per autonoma causale (le ferie). Ne consegue che se tale proroga è superiore ai 20 giorni (in caso di contratto a termine inferiore a 6 mesi) o di 30 giorni (in caso di contratto a termine superiore ai 6 mesi), dalla scadenza dei predetti termini il contratto si trasforma a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 368/2001.

Altrettanto pacifica risulta l’affermazione giurisprudenziale secondo cui: «Il lavoratore assunto a termine (...) per la sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell’impresa; pertanto non può essere disconosciuta all’imprenditore - nell’esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell’assenza di un dipendente) l’utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per “scorrimento a catena”, sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed assunzione a termine, nel senso che la seconda deve essere realmente determinata dalla necessità creatasi nell’azienda per effetto della prima»[7].

In ordine alla natura delle “ragioni” determinative della soluzione del ricorso al contratto a termine, è stato detto in giurisprudenza, che: «Le ragioni di cui all’art. 1 del D. Lgs. n. 368/2001 non possono essere dilatate a tal punto da essere identificate con le preferenze insindacabili del datore di lavoro. In tal modo la norma perderebbe qualsiasi senso e comporterebbe la possibilità di una scelta sostanzialmente arbitraria. Di "ragioni" si deve trattare. E non di ragioni di mera convenienza economica, ma di ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive. Ma soprattutto si deve trattare di ragioni che giustificano la scelta del contratto a termine, altrimenti non consentita. Quindi ragioni della assoggettabilità ad un termine del contratto. Il che significa che il contratto deve rispondere ad un’oggettiva esigenza (tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva) di temporaneità del rapporto e non ad una scelta di politica aziendale delle assunzioni e (conseguentemente) della gestione dei rapporti di lavoro»[8].

3. Conseguenze derivanti dalla scorretta indicazione della causale

Il d. lgs. n. 368/2001 non indica le conseguenze derivanti dalla scorretta e/o carente e/o insufficiente indicazione della causale del contratto di lavoro a tempo determinato.

L’orientamento prevalente asserisce che – al ricorrere di tale mancanza - si applica il principio generale per cui il contratto è nullo per violazione di una norma imperativa ex art. 1418 c.c.. Ne consegue che:

- il contratto rimane valido ed efficace tra le parti e si applica la sanzione della trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato;

- la nullità travolge solo la clausola che prevede l’apposizione del termine;

- il datore è obbligato al ripristino del rapporto;

- il datore è obbligato al risarcimento del danno dalla data di offerta della prestazione lavorativa.

In senso conforme, in giurisprudenza: «Ogni ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, a prescindere dal fatto che ciò dipenda da motivi formali o dall’accertata insussistenza in concreto della motivazione addotta, comporta la conversione a tempo indeterminato del rapporto, e ciò - nel primo caso - in conseguenza dell’espressa previsione dell’art. l, comma 2, d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368, nel secondo caso ex art. 1419, comma 2, c.c., con conseguente diritto del lavoratore (in caso di recesso da parte del datore di lavoro) al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno dalla data di offerta della prestazione lavorativa»[9]. Ancora nello stesso senso: «Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 impone di interpretare la norma nel senso che dispone la conversione automatica del contratto di lavoro a termine in contratto a tempo determinato in qualunque ipotesi di invalidità della clausola appositiva del termine, e ciò anche in conformità del principio per cui il contratto di lavoro non viene travolto dalle nullità sancite a tutela del lavoratore dipendente perché la sua validità ed efficacia si recupera mediante un effetto legale sostitutivo; altrimenti, in caso di diversa interpretazione, basterebbe al datore di lavoro stipulare un contratto scritto indicando a giustificazione dell’apposizione del termine ragioni palesemente insussistenti affinché la nullità dell’intero contratto, invocabile dallo stesso datore di lavoro, porterebbe ad inserire nell’alveo dell’art. 2126 c.c. la prestazione di fatto resa dal datore di lavoro, eludendo per tal modo le garanzie sancite a favore del dipendente da norme inderogabili di legge, a cominciare dalla garanzia della stabilità del posto di lavoro»[10]; ed ancora: «In ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato e di comunicazione al lavoratore della conseguente disdetta non sono applicabili né l’art. 6 della l. n. 604/66 né l’art. 18 St. Lav., ancorché la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato dia ugualmente diritto al lavoratore di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno; conseguentemente, al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro»[11]. Altresì in senso conforme: «Posto che anche a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 368 del 2001 l’apposizione del termine al contratto di lavoro costituisce una deroga della regola generale della durata indeterminata del rapporto, l’omessa specificazione nel contratto delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che abbiano determinato l’apposizione del termine comporta la nullità parziale del contratto e la sostituzione della clausola nulla di apposizione del termine con la regola generale di matrice legale della durata indeterminata»[12].

In senso contrario Trib. Roma 21 febbraio 2005[13]: « (...) mentre nella disciplina precedentemente vigente era espressamente prevista la conseguenza dell’illegittima apposizione del termine (il contratto doveva in tal caso reputarsi a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 1, legge n. 230 del 1962), nella disciplina attualmente vigente non è più contenuta una disciplina del genere nel caso di mera apposizione ingiustificata o vietata del termine. [...] Tuttavia una significativa differenza rispetto al regime previgente deriva dall’applicabilità della regola della nullità parziale, secondo cui “la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità”(art. 1419 cod. civ.)».

4. Divieto di ricorso al contratto a termine

Sussiste il divieto legale di assunzioni a termine:

a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti, ovvero sia concluso ai sensi dell’articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991 n. 223, ovvero abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi;

c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine;

d) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’articolo 4 del d. lgs. 19 settembre 1994 n. 626, e successive modificazioni.

5. Parità di trattamento economico-normativo con il contratto a tempo indeterminato

La norma fondamentale per la disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato è la cd. norma “antidiscriminatoria”, che stabilisce parità di trattamento fra il lavoratore a termine ed il lavoratore a tempo indeterminato. L’art. 6, d. lgs. n. 368/2001, prevede che al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine.

Nonostante le difficoltà di calcolo e di erogazione, non possono quindi essere negati ai lavoratori a termine neppure i premi di risultato. L’unico limite a quanto finora affermato è rappresentato dall’esclusione degli istituti di anzianità e dei superminimi individuali, perché questi appaiono oggettivamente incompatibili con il lavoro a tempo determinato.

6. Durata e proroga

Il contratto di lavoro non può avere una durata iniziale superiore ai 36 mesi.

Il termine finale del contratto può essere prorogato, per una sola volta, quando il contratto iniziale ha una durata inferiore a tre anni e con il consenso del lavoratore. La proroga è ammessa quando sussistono ragioni oggettive e si riferisce alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto iniziale. In tal caso, la durata complessiva del rapporto di lavoro, data dalla sommatoria fra durata iniziale e proroga, non può superare i 3 anni.

7. Diritto di precedenza

Prima dell’entrata in vigore della l. n. 133/2008, il lavoratore che aveva prestato attività lavorativa a termine presso la stessa azienda per un periodo superiore ai 6 mesi, aveva diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per mansioni equivalenti, effettuate dal datore di lavoro entro i 12 mesi successivi. Invece - per effetto dell’art. 21, comma 3, della legge di cui sopra - è stato ritoccato l’art. 5, comma 4 quater, del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 (come modificato dall’articolo 1, comma 40, della legge 24 dicembre 2007 n. 247) relativo al diritto di precedenza che scattava al superamento dei sei mesi anche con più contratti riferiti alla stessa mansione. Conseguentemente ora, invece, il diritto di precedenza non è più assoluto in quanto la sua disciplina viene demandata alla contrattazione collettiva, anche territoriale e/o aziendale che potrà prevedere anche differenti modalità applicative.

8. Successione di contratti a termine

Per effetto della l. n. 247 del 24 dicembre 2007 - che ha approvato le norme di attuazione del Protocollo fra Governo e Parti sociali del 23 luglio 2007 su “previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili e ulteriori norme in materia di previdenza sociale” - la successione di contratti a termine con lo stesso lavoratore per lo svolgimento di “mansioni equivalenti” non deve superare, tra proroghe e rinnovi (e indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro), il limite massimo complessivo di 36 mesi. Superato questo termine il contratto si considera a tempo indeterminato dal momento del superamento del complessivo termine “esterno” di 36 mesi, secondo le regole previste dall’art. 5, comma 2, del d.lgs.. n. 368/01 (l’ipotesi si aggiunge alle altre previste dal medesimo comma 2 citato, secondo cui, alla scadenza del termine del contratto di lavoro, c’è un’ulteriore tolleranza di 20/30 giorni, a seconda della durata del contratto, durante i quali deve essere corrisposta solo una maggiorazione retributiva). Sono state fatte salve diverse disposizioni contenute nella contrattazione collettiva nazionale, territoriale ed aziendale. Facoltà, quest’ultima, introdotta dal “ritocco” - ad opera dell’art. 21 del d.l. n. 112/08 convertito con modificazioni nella l. n. 133/2008 - dell’articolo 5, comma 4 bis, della l. n. 247/2007 che prevedeva il tetto massimo dei 36 mesi. Pertanto, in caso di successione (per effetto di proroghe o rinnovi) di più contratti a termine per lo svolgimento di “mansioni equivalenti”, la contrattazione collettiva di categoria (nazionale, provinciale e territoriale) può estendere il termine dei 36 mesi stabilendo così una diversa durata massima prima che il contratto possa trasformarsi automaticamente a tempo indeterminato.

Al fine dell’individuazione delle “mansioni equivalenti” è intervenuta la circolare n. 13/2008 del Ministero del lavoro, asserendo che: «il limite generale di durata massima in casi di reiterazione di contratti a tempo determinato richiede l’identità delle parti del rapporto di lavoro e l’equivalenza delle mansioni. Secondo la giurisprudenza prevalente l’equivalenza non deve essere intesa in termini di mera corrispondenza del livello di inquadramento contrattuale tra le mansioni svolte precedentemente e quelle contemplate dal nuovo contratto, ma occorre verificare i contenuti concreti delle attività espletate: “L’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto” (Cass. sez. un., 24 novembre 2006, n. 25033). La contrattazione collettiva ha peraltro il potere di individuare la nozione di “equivalenza” attraverso le c.d. clausole di fungibilità, volte a consentire un impiego più flessibile del lavoratore, almeno per “sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della “professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica, senza incorrere nella sanzione della nullità comminata dal secondo comma della citata disposizione [art. 2103 c.c.]».

9. Eccezioni al limite di durata (la cd. deroga assistita)

Anche se complessivamente il rapporto di lavoro ha superato i 36 mesi, un successivo contratto a termine può essere concluso per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio con l’assistenza di un rappresentante sindacale appartenente ad una delle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

In sede di conversione in legge del d.l. n.112/2008 è stato stabilito che il limite dei 36 mesi limite può essere derogato dai contratti collettivi, stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale, con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (al riguardo ed esemplificativamente il Ccnl metalmeccanici ha fissato in otto mesi tale durata addizionale e il Ccnl alimentaristi l’ha stabilita in dodici mesi).

Il limite dei 36 mesi non si applica nei confronti delle attività stagionali. Inoltre è sempre consentita l’assunzione a termine dei dirigenti, purché la durata del contratto non sia superiore a 5 anni. Casi particolari si rilevano inoltre nel settore del trasporto aereo dove sono ammessi contratti a termine di durata complessiva non superiore a 6 mesi nei periodi compresi tra aprile e ottobre di ogni anno, nonché contratti a termine di durata non superiore a 4 mesi per periodi diversamente distribuiti.

10. Indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine

In sede di conversione del d.l. n. 112/2008 – tramite l’art. 21, comma 1 bis, della l. n. 133/2008 - è stato addizionato al d.lgs. n. 368/2001, l’art. 4 bis che ha disposto (limitatamente ai soli giudizi in corso al 21.8.2008, data di entrata in vigore della Legge di conversione del citato d.l. 112/2008, e fatte salve le sentenze passate in giudicato), che in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604, e successive modificazioni.

A seguito di numerosissime eccezioni di costituzionalità sollevate dalle Corti d’appello del Paese, la Corte costituzionale, con sentenza n. 214 dell’8 luglio 2009, in accoglimento delle medesime, ha dichiarato la caducazione per incostituzionalità della norma contestata, atteso che colpiva discriminatoriamente solo coloro che avevano avuto l’ardire ed il coraggio di adire la magistratura prima della data della sua entrata in vigore del 21 agosto 2008, così statuendo: «Siffatta discriminazione è priva di ragionevolezza, né è collegata alla necessità di accompagnare il passaggio da un certo regime normativo ad un altro. Infatti l’intervento del legislatore non ha toccato la disciplina relativa alle condizioni per l’apposizione del termine o per la proroga dei contratti a tempo determinato, ma ha semplicemente mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro». La pratica conseguenza è stata quella del doversi considerare abrogato l’art. 4 bis del d.lgs. n. 368/2001, cioè tanquam non esset.

Peraltro va detto che la disposizione tesa ad una forfetizzazione risarcitoria per i contratti a termine riscontrati illegittimi – espunta dalla Corte costituzionale nella veste dell’art. 4 bis, di cui alla l. n. 133/2008, in quanto non generalizzata per l’avvenire ma ristretta ai soli giudizi anteriori alla vigenza della legge, ancora pendenti – è stata reintrodotta nell’ordinamento tramite il 5, 6 e 7 comma dell’art. 32 della successiva l. n. 183/2010 (di conversione del cd. Collegato lavoro) ed estesa a tutti i giudizi pendenti e successivi all’entrata in vigore della legge in questione, risultando così formulata: «5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604» (cioè dimensione dell’impresa, anzianità di servizio risultante dalla durata di fatto del rapporto di lavoro data dalla sommatoria dei vari contratti a termine, ecc.).

La qualificazione “onnicomprensiva” riferita all’indennità risarcitoria ha posto sin dall’origine alcuni dubbi interpretativi: ci si è chiesti infatti – prima di Corte cost. n. 3003/2011 che ha eliminato il dubbio, come diremo in seguito - se l’indennità fosse da considerarsi sostitutiva della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto a termine illegittimo e dell’eventuale retribuzione maturata dal lavoratore nel periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto e la data di riammissione in servizio ovvero cumulativa della conversione del rapporto di lavoro, cioè a dire aggiuntiva rispetto sia alla trasformazione del rapporto, sia al risarcimento del danno commisurato al valore delle retribuzioni maturate dalla data di messa in mora del datore di lavoro mediante offerta della prestazione.

Stante l’aggettivo adoperato per qualificare l’indennità come “onnicomprensiva”, è stato correttamente ritenuto che la finalità del legislatore fosse stata quello di porre un limite al risarcimento posto a carico del datore di lavoro, nei casi di conversione del contratto e per effetto delle lungaggini del processo: con ciò portando a ritenere che l’indennità dovesse considerarsi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Tale conclusione, peraltro, risultava confermata dai lavori preparatori, dai quali si desumeva che, in ordine all’interpretazione del comma 5 dell’art. 32, la previsione del risarcimento del danno si aggiungeva e non sostituiva il ripristino del rapporto di lavoro e che, quindi, «non vi è conflitto tra la conversione a tempo indeterminato e quella di definizione di risarcimento, anzi i due termini coabitano».

In data 11 novembre 2011 è stata depositata Corte cost. n. 303 la quale ha disatteso le varie questioni di legittimità sollevate in ordine all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183.

Detta sentenza ha asserito, in linea di principio, che: «In termini generali, la norma scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Difatti, l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario. Non a caso, dall’esame dei lavori preparatori si desume che la disposizione di cui all’art. 32, comma 5, dell’anzidetta legge dev’essere correttamente letta come riferita alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento del danno in favore del lavoratore dev’essere intesa «come aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione» (ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato della Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite nella seduta del 2 marzo 2010)».

Relativamente all’eccepita incostituzionalità del comma 5, art. 32, l. n.183/2010 – statuente la conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine invalido con l’aggiunta di una indennità risarcitoria forfettizzata a copertura dell’arco temporale tra la data di instaurazione del contratto a termine e quello della sentenza che ne stabilisce la conversione a tempo indeterminato - la Consulta ne ha dichiarato la legittimità (confermando la cumulabilità tra conversione e indennità risarcitoria forfettizzata), asserendo che la normativa in questione «…risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque (cioè senza alcuna deduzione dell’aliunde perceptum o percipiendum, legislativamente non contemplata, ndr), senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die»[14].

Parimenti legittimo è stato dalla Consulta ritenuto il dimezzamento (ex 6 co., art. 32, l. n. 183/2010) dell’indennità risarcitoria nel caso in cui contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali - stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale - prevedano la conversione dei contratti a termine illegittimi in contratti a tempo indeterminato, in quanto il dimezzamento è stato riconosciuto quale incentivo per la definizione in sede sindacale del contenzioso seriale sui contratti a termine.

11. Cessazione del rapporto

Una particolarità della disciplina del lavoro a termine riguarda il licenziamento: il lavoratore assunto a tempo determinato non può essere licenziato prima della scadenza del termine se non per “giusta causa”, cioè per un fatto talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. Non è possibile, in altre parole, il licenziamento per giustificato motivo, sia soggettivo che oggettivo (ad esempio, per riduzione dell’attività dell’impresa).

In tal senso, pacificamente: «Il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., non può essere risolto anticipatamente per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/66, ma solo se ricorrono le ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli art. 1453 ss. c.c. Ne consegue che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato»[15].

Il licenziamento intimato senza giusta causa prima della scadenza del termine comporta il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, pari a tutte le retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore fino alla scadenza inizialmente prevista, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore lavorando presso un altro datore di lavoro nel periodo considerato.

In tal senso, pacificamente, in giurisprudenza: «Il dipendente a tempo determinato illegittimamente licenziato in difetto di giusta causa (non potendosi ritenere tale la situazione di transeunte difficoltà economica del datore di lavoro) ha diritto non alla reintegrazione nel posto di lavoro ma al risarcimento del danno, che può legittimamente quantificarsi, in via equitativa, sulla base delle retribuzioni che gli sarebbero spettate fino alla scadenza del termine; né da esso può essere legittimamente dedotto, a titolo di "aliunde perceptum", quanto dal lavoratore percepito a seguito di altra sua occupazione, qualora risulti la non esclusività della prestazione illegittimamente interrotta per volontà unilaterale del datore di lavoro»[16].

Va tuttavia tenuto presente l’orientamento consolidato per cui dalla illegittimità del contratto a termine (trasformato giudizialmente a tempo indeterminato) non discende il diritto ininterrotto alle retribuzioni medio tempore maturate, se il lavoratore non ha - per iscritto - notificato al datore di lavoro la sua disponibilità alla impedita prestazione. In tal senso: «Ove nell’ambito di una controversia sulla sussistenza o meno di un rapporto di lavoro a tempo determinato, si accerti la natura a tempo indeterminato del rapporto stesso, da tale accertamento non deriva automaticamente il diritto della ricorrente alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine illegittimamente apposto, atteso che tale diritto è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa. Ne consegue che al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per l’attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro»[17]. Confermativamente: «Nei casi di illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, il dipendente che cessi l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto non ha diritto alla retribuzione finché non provveda ad offrire le sue prestazioni lavorative, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro; in base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo a detta scadenza, posto che l’interruzione della funzionalità di fatto non consegue ad un’iniziativa del datore di lavoro, il quale non pone in essere un licenziamento anche se richiama formalmente la scadenza del termine»[18]. In senso conforme: «Nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla - in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione - soltanto qualora provveda a costituire in mora il datore di lavoro ex art. 1217 c.c., non essendo applicabili in via analogica le norme della l. n. 604/66 e l’art. 18, l. n. 300/70 e non potendo neppure ritenersi che non occorra la messa in mora, reputando, in contrasto con gli art. 1206 e 1217 c.c., che l’offerta della prestazione coincida con l’interesse all’esecuzione ed alla controprestazione»[19].

12. Criteri di computo dei lavoratori

L’art. 8, d.lgs. n. 368/2001, prevede che ai fini di cui all’art. 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (esercizio dell’attività sindacale), i lavoratori con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi.

13. Limiti quantitativi ed esclusioni da tali limiti

In conformità al principio per cui la fattispecie normale del rapporto di lavoro è quella a tempo indeterminato, il legislatore ha previsto un regime cautelativo nella utilizzazione dei contratti a termine, affidando ai contratti collettivi nazionali il compito di individuare i limiti quantitativi di utilizzazione.

L’art. 1, comma 41, della legge n. 247/2007 è intervenuto sull’art. 10, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 368/2001, limitando ulteriormente le ipotesi nelle quali è possibile assumere con contratto a termine senza rispettare gli specifici limiti numerici fissati dalla contrattazione collettiva.

A partire dal 1° gennaio 2008 è stata, poi, ridisegnata l’area di esenzione dal rispetto dei limiti quantitativi, consentendo la conclusione di contratti a termine senza limiti, nelle seguenti ipotesi tassativamente fissate dalla legge:

a) nella fase di avvio (cd. start up) di una nuova attività per periodi che saranno definiti dai contratti nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;

b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al d.P.R. n. 1525/1963 e successive modificazioni. In tale ambito vanno comprese tutte quelle ipotesi già individuate dall’art.1, comma 1, lettera b) della legge n. 230/1962, nonché quelle (come la sostituzione del lavoratore per ferie) già oggetto di previsione da parte degli accordi collettivi;

c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;

d) per le assunzioni effettuate a conclusione di un periodo di tirocinio o stage, finalizzato a facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. La disposizione sembra riferirsi al “primo” contratto successivo al periodo formativo e dovrebbe riguardare soltanto l’imprenditore presso il quale si è svolta l’esperienza;

e) per i contratti stipulati con lavoratori di età superiore ai cinquantacinque anni. Tale previsione è finalizzata ad agevolare la ricollocazione, per certi versi complicata, di soggetti che, in ragione della loro età, sono ai margini del mercato del lavoro;

f) per i contratti conclusi quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti o predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario o occasionale. E’ questa una ipotesi già prevista dalla l. n. 230/1962 e si riferisce, secondo un indirizzo espresso dalle S.U. della Cassazione «a quelle opere o servizi che determinano un incremento dell’attività particolarmente rilevante, in relazione ad eventi isolati ed eccezionali, tali da non poter essere affrontati con la normale struttura organizzativa e produttiva. Detta norma non può essere invocata alfine di giustificare assunzioni a tempo determinato per sopperire a fluttuazioni di mercato ed incrementi della domanda prevedibili e ricorrenti in determinati periodi dell’anno per punte stagionali»[20]. Come si vede, ci si trova di fronte ad una ipotesi completamente diversa da quella della stagionalità;

g) per le assunzioni non rientranti nelle tipologie sopra menzionate, la cui durata, comprensiva della proroga, non supera i sette mesi o il periodo maggiore individuato con la contrattazione collettiva la quale può, altresì, fissare limiti temporali diversi a seconda delle aree geografiche interessate. C’è da aggiungere una precisazione contenuta al comma 8: l’esenzione quantitativa viene meno se il contenuto del contratto è identico quello di un rapporto precedente scaduto nei sei mesi antecedenti.



[1] Cass. 17.12. 2008, n. 29470.

[2] Trib. Milano, 13.1. 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 78; conformi: Cass. 21.5. 2002 n. 7468; App. Milano 9.1. 2006; Trib. Firenze 5.2. 2004.

[3] App. Milano, 9.12. 2003; in senso conforme Trib. Milano 11.5. 2006 n. 1431; Trib. Milano 24.12. 2005, in Orient. giur. lav., 2006,114; Trib. Milano 16.10. 2006, inedita; Trib. Milano, 25.11.2004, in Riv. crit. dir. lav.,2005, 152.

[4] Trib. Milano, 8.1. 2004, in Dir. relaz. ind. 2006, 1, 146.

[5] Trib. Milano, 21.4.2004.

[6] Cass. 7.8. 2003 n. 11921.

[7] Cass. 30.7.2003, n. 11699.

[8] App. Bari, 20.7.2005.

[9] Trib. Monza, 18.1.2005, in Riv. crit. dir. lav. 2005,152.

[10] Trib. Genova, 14.12.2006, in Banca Dati Lex 24, il Sole 24ore, 2007.

[11] Trib. Bassano del Grappa, 19.4.2007, in Il Sole 24 Ore, n. 38, settembre 2007.

[12] Cass. 21.5. 2008, n. 12985, in Foro it. 2008, 12, 3569.

[13] In Riv. giur. lav. 2005, 709.

[14] Così, espressamente, Corte cost. 11/11/2011 n. 303.

[15] Cass. 10.2.2009, n. 3276, in Dir. prat. lav. n. 11/2009.

[16] Cass. 1.6.2005, n. 11692, in Giust.civ.Mass. 2005,6.

[17] Cass. 22.1.2004, n. 995.

[18] App. Salerno, 19.10.2005.

[19] Cass. 3.10.2008 n. 24952.

[20] Cass., S.U., 29.9.1983 n. 5739, in Giur. it., 1984, I,I, 452.

Sommario:

1. Riferimenti normativi

2. Forma del contratto

3. Conseguenze derivanti dalla scorretta indicazione della causale

4. Divieto di ricorso al contratto a termine

5. Parità di trattamento economico-normativo con il contratto a tempo indeterminato

6. Durata e proroga

7. Diritto di precedenza

8. Successione di contratti a termine

9. Eccezioni al limite di durata (la cd. deroga assistita)

10. Indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine

11. Cessazione del rapporto

12. Criteri di computo dei lavoratori

13. Limiti quantitativi ed esclusioni da tali limiti

1. Riferimenti normativi

Il contratto a tempo determinato è attualmente disciplinato dal d. lgs. 6.9.2001 n.368 (emanato in attuazione della Direttiva comunitaria 1999/70 sul lavoro a termine) - che ha espressamente abrogato la precedente normativa - così come modificato ed integrato dalla legge 24.12.2007 n. 247 (cd. collegato alla finanziaria 2007) e dal d.l. 112/2008 convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008.

A tal proposito, il d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368 stabilisce che è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro (art.1, comma 1).

La modifica ex lege n. 247/07 interviene su uno dei punti più controversi della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 368/2001, cioè in ordine alla natura straordinaria oppure ordinaria delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto a termine. Secondo una lettura - molto seguita dalla giurisprudenza successiva all’approvazione della precitata normativa - le esigenze che legittimano l’apposizione del contratto dovrebbero avere necessariamente caratteristiche di eccezionalità, e, pertanto, non dovrebbero essere connesse all’ordinaria attività dell’impresa.

In tal senso, con riferimento alla vecchia normativa dell’abrogata legge n. 230/1962, è stato affermato: «Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c, l. 18 aprile 1962 n. 230, l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato è consentita anche nel caso di un incremento della normale ed ordinaria attività aziendale, sempreché tale incremento sia correlato ad eventi eccezionali, di per sé non ripetibili negli stessi tempi e con le stesse modalità e che sconvolgano la pur adeguata programmazione dell’imprenditore, per cui l’assunzione a termine non è consentita allorché alla stessa si sia fatto ricorso in previsione di un incremento dell’attività produttiva ed al solo fine di ridurre il rischio di impresa. Ciò vale anche quando l’assunzione avvenga subito dopo ed in ragione dell’avvenuta espansione dell’impresa, alla quale devono pertanto rapportarsi le situazioni di straordinarietà ed occasionalità, in generale riferibili, rispettivamente, le prime al verificarsi di fatti eccedenti i limiti della normalità e, le seconde, al verificarsi di circostanze esorbitanti dalla normale programmazione. Ne consegue che la programmata espansione o la normale fluttuazione dell’impresa sul mercato non possiedono i suddetti requisiti, solo in presenza dei quali il contratto a termine diventa eccezionalmente legittimo»[1].

Invece, ferma restando la dichiarazione di principio introdotta dall’articolo 1, comma 39, della legge n. 247 del 24 dicembre 2007, al comma 1 dell’art. 1 del d. lgs. n. 368/2001 - in base alla quale “il contratto di lavoro subordinato è di regola a tempo indeterminato” - in sede di conversione del d.l. n. 112/2008 è stato previsto che le esigenze “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” possano essere riferite anche “alla ordinaria attività del datore di lavoro”. In tal modo sembrerebbe che il contratto a termine possa essere stipulato anche a fronte di carenze strutturali e permanenti nell’organico aziendale.

Quanto alla natura del contratto a termine, per effetto del comma 39 della l. n. 247/07 - secondo cui «il contratto di lavoro subordinato è di regola a tempo indeterminato» - la giurisprudenza ha correttamente riconosciuto il “carattere eccezionale” del contratto di lavoro a tempo determinato, rispetto a quello a tempo indeterminato che, pertanto, costituisce la forma o fattispecie normale del rapporto di lavoro. In tal senso: «Alla stregua del D. Lgs n. 368 del 2001, interpretato in conformità alla normativa comunitaria da cui trae origine, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro resta un’ipotesi eccezionale e, pertanto, è giustificata solo se sussistono ragioni oggettive, eziologicamente collegate ad ogni specifica assunzione a termine»[2].

2. Forma del contratto

Dall’art.1, comma 2, del decreto n. 112/08 si evince che l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1. La legge precisa, quindi, che tanto l’apposizione del termine, quanto la ragione che la giustifica devono risultare per iscritto, pena l’inefficacia del termine stesso, a meno che il termine non sia superiore a dodici giorni, nel qual caso l’atto scritto non è necessario. Il contratto deve essere, quindi, stipulato in forma scritta e deve contenere l’indicazione delle ragioni sopra indicate; in loro mancanza, il contratto si considera a tempo indeterminato. Una copia dell’atto scritto deve essere consegnata al lavoratore all’inizio del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza ha chiarito che la causale del ricorso al contratto a termine deve essere descritta in modo “puntuale e dettagliato”, evitando locuzioni generiche e/o tautologiche, dal momento che quest’ultime impedirebbero al Giudice di operare il controllo sull’effettività della causale e quindi sulla legittimità del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato: «Le ragioni devono essere chiaramente specificate, esplicitate in modo preciso e sufficientemente dettagliato; non è sufficiente il mero richiamo a formule di legge, a ipotesi alternative o comunque indicazioni di carattere generico; deve essere possibile per il giudice verificare il nesso di causalità tra le ragioni addotte e la specifica assunzione a tempo determinato: è a carico del datore di lavoro l’onere di provare l’effettiva sussistenza delle ragioni giustificative addotte»[3]. Parte della giurisprudenza ha sostenuto che sarebbe necessario specificare anche il nesso causale fra le ragioni aziendali che giustificano il ricorso al contratto di lavoro a termine ed il singolo contratto di lavoro: «Anche dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 368 del 2001, la causa che giustifica l’apposizione del termine non può essere formulata in termini generici, ma devono essere indicate le specifiche circostanze di fatto (come ad esempio i motivi organizzativi, cronologici, territoriali, tecnologici) per le quali si procede all’assunzione, nonché il loro nesso causale con il singolo contratto stipulato»[4]. E’ stato infatti detto: «La ragione sostitutiva, che giustifica ex art. 1 D.lgs. 368/01 l’assunzione di personale a tempo determinato, deve essere specificamente indicata, in modo da consentire l’individuazione del personale che l’assunto a termine deve sostituire, a maggior ragione in una struttura aziendale numerosa e territorialmente vasta (Poste Italiane)»[5].

Relativamente al ricorso al contratto a termine per sostituzione di lavoratore con diritto alla conservazione del posto, è affermazione pacifica quella per cui: «L’assunzione di un lavoratore allo scopo di sostituire temporaneamente un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, può avvenire con la fissazione di un termine finale al rapporto, o anche con l’indicazione di un termine per relationem con riferimento al ritorno in servizio del lavoratore sostituito»[6]. A tal riguardo va segnalata l’irregolarità della prassi aziendale di prolungamento di fatto della cessazione del contratto a termine del sostituto (non al venir meno dell’originaria causale: es. assenza per maternità della sostituita, ma) al rientro della lavoratrice dopo la fruizione, in aggiunta all’assenza per maternità, del periodo di ferie da essa maturate nell’anno. La prassi è illegittima giacché un simile prolungamento di fatto aggira la necessitata instaurazione (eventualmente con lo stesso lavoratore a termine) di un distinto contratto a termine per autonoma causale (le ferie). Ne consegue che se tale proroga è superiore ai 20 giorni (in caso di contratto a termine inferiore a 6 mesi) o di 30 giorni (in caso di contratto a termine superiore ai 6 mesi), dalla scadenza dei predetti termini il contratto si trasforma a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 368/2001.

Altrettanto pacifica risulta l’affermazione giurisprudenziale secondo cui: «Il lavoratore assunto a termine (...) per la sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell’impresa; pertanto non può essere disconosciuta all’imprenditore - nell’esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell’assenza di un dipendente) l’utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per “scorrimento a catena”, sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed assunzione a termine, nel senso che la seconda deve essere realmente determinata dalla necessità creatasi nell’azienda per effetto della prima»[7].

In ordine alla natura delle “ragioni” determinative della soluzione del ricorso al contratto a termine, è stato detto in giurisprudenza, che: «Le ragioni di cui all’art. 1 del D. Lgs. n. 368/2001 non possono essere dilatate a tal punto da essere identificate con le preferenze insindacabili del datore di lavoro. In tal modo la norma perderebbe qualsiasi senso e comporterebbe la possibilità di una scelta sostanzialmente arbitraria. Di "ragioni" si deve trattare. E non di ragioni di mera convenienza economica, ma di ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive. Ma soprattutto si deve trattare di ragioni che giustificano la scelta del contratto a termine, altrimenti non consentita. Quindi ragioni della assoggettabilità ad un termine del contratto. Il che significa che il contratto deve rispondere ad un’oggettiva esigenza (tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva) di temporaneità del rapporto e non ad una scelta di politica aziendale delle assunzioni e (conseguentemente) della gestione dei rapporti di lavoro»[8].

3. Conseguenze derivanti dalla scorretta indicazione della causale

Il d. lgs. n. 368/2001 non indica le conseguenze derivanti dalla scorretta e/o carente e/o insufficiente indicazione della causale del contratto di lavoro a tempo determinato.

L’orientamento prevalente asserisce che – al ricorrere di tale mancanza - si applica il principio generale per cui il contratto è nullo per violazione di una norma imperativa ex art. 1418 c.c.. Ne consegue che:

- il contratto rimane valido ed efficace tra le parti e si applica la sanzione della trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato;

- la nullità travolge solo la clausola che prevede l’apposizione del termine;

- il datore è obbligato al ripristino del rapporto;

- il datore è obbligato al risarcimento del danno dalla data di offerta della prestazione lavorativa.

In senso conforme, in giurisprudenza: «Ogni ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, a prescindere dal fatto che ciò dipenda da motivi formali o dall’accertata insussistenza in concreto della motivazione addotta, comporta la conversione a tempo indeterminato del rapporto, e ciò - nel primo caso - in conseguenza dell’espressa previsione dell’art. l, comma 2, d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368, nel secondo caso ex art. 1419, comma 2, c.c., con conseguente diritto del lavoratore (in caso di recesso da parte del datore di lavoro) al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno dalla data di offerta della prestazione lavorativa»[9]. Ancora nello stesso senso: «Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 impone di interpretare la norma nel senso che dispone la conversione automatica del contratto di lavoro a termine in contratto a tempo determinato in qualunque ipotesi di invalidità della clausola appositiva del termine, e ciò anche in conformità del principio per cui il contratto di lavoro non viene travolto dalle nullità sancite a tutela del lavoratore dipendente perché la sua validità ed efficacia si recupera mediante un effetto legale sostitutivo; altrimenti, in caso di diversa interpretazione, basterebbe al datore di lavoro stipulare un contratto scritto indicando a giustificazione dell’apposizione del termine ragioni palesemente insussistenti affinché la nullità dell’intero contratto, invocabile dallo stesso datore di lavoro, porterebbe ad inserire nell’alveo dell’art. 2126 c.c. la prestazione di fatto resa dal datore di lavoro, eludendo per tal modo le garanzie sancite a favore del dipendente da norme inderogabili di legge, a cominciare dalla garanzia della stabilità del posto di lavoro»[10]; ed ancora: «In ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato e di comunicazione al lavoratore della conseguente disdetta non sono applicabili né l’art. 6 della l. n. 604/66 né l’art. 18 St. Lav., ancorché la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato dia ugualmente diritto al lavoratore di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno; conseguentemente, al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro»[11]. Altresì in senso conforme: «Posto che anche a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 368 del 2001 l’apposizione del termine al contratto di lavoro costituisce una deroga della regola generale della durata indeterminata del rapporto, l’omessa specificazione nel contratto delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che abbiano determinato l’apposizione del termine comporta la nullità parziale del contratto e la sostituzione della clausola nulla di apposizione del termine con la regola generale di matrice legale della durata indeterminata»[12].

In senso contrario Trib. Roma 21 febbraio 2005[13]: « (...) mentre nella disciplina precedentemente vigente era espressamente prevista la conseguenza dell’illegittima apposizione del termine (il contratto doveva in tal caso reputarsi a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 1, legge n. 230 del 1962), nella disciplina attualmente vigente non è più contenuta una disciplina del genere nel caso di mera apposizione ingiustificata o vietata del termine. [...] Tuttavia una significativa differenza rispetto al regime previgente deriva dall’applicabilità della regola della nullità parziale, secondo cui “la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità”(art. 1419 cod. civ.)».

4. Divieto di ricorso al contratto a termine

Sussiste il divieto legale di assunzioni a termine:

a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti, ovvero sia concluso ai sensi dell’articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991 n. 223, ovvero abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi;

c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine;

d) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’articolo 4 del d. lgs. 19 settembre 1994 n. 626, e successive modificazioni.

5. Parità di trattamento economico-normativo con il contratto a tempo indeterminato

La norma fondamentale per la disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato è la cd. norma “antidiscriminatoria”, che stabilisce parità di trattamento fra il lavoratore a termine ed il lavoratore a tempo indeterminato. L’art. 6, d. lgs. n. 368/2001, prevede che al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine.

Nonostante le difficoltà di calcolo e di erogazione, non possono quindi essere negati ai lavoratori a termine neppure i premi di risultato. L’unico limite a quanto finora affermato è rappresentato dall’esclusione degli istituti di anzianità e dei superminimi individuali, perché questi appaiono oggettivamente incompatibili con il lavoro a tempo determinato.

6. Durata e proroga

Il contratto di lavoro non può avere una durata iniziale superiore ai 36 mesi.

Il termine finale del contratto può essere prorogato, per una sola volta, quando il contratto iniziale ha una durata inferiore a tre anni e con il consenso del lavoratore. La proroga è ammessa quando sussistono ragioni oggettive e si riferisce alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto iniziale. In tal caso, la durata complessiva del rapporto di lavoro, data dalla sommatoria fra durata iniziale e proroga, non può superare i 3 anni.

7. Diritto di precedenza

Prima dell’entrata in vigore della l. n. 133/2008, il lavoratore che aveva prestato attività lavorativa a termine presso la stessa azienda per un periodo superiore ai 6 mesi, aveva diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per mansioni equivalenti, effettuate dal datore di lavoro entro i 12 mesi successivi. Invece - per effetto dell’art. 21, comma 3, della legge di cui sopra - è stato ritoccato l’art. 5, comma 4 quater, del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 (come modificato dall’articolo 1, comma 40, della legge 24 dicembre 2007 n. 247) relativo al diritto di precedenza che scattava al superamento dei sei mesi anche con più contratti riferiti alla stessa mansione. Conseguentemente ora, invece, il diritto di precedenza non è più assoluto in quanto la sua disciplina viene demandata alla contrattazione collettiva, anche territoriale e/o aziendale che potrà prevedere anche differenti modalità applicative.

8. Successione di contratti a termine

Per effetto della l. n. 247 del 24 dicembre 2007 - che ha approvato le norme di attuazione del Protocollo fra Governo e Parti sociali del 23 luglio 2007 su “previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili e ulteriori norme in materia di previdenza sociale” - la successione di contratti a termine con lo stesso lavoratore per lo svolgimento di “mansioni equivalenti” non deve superare, tra proroghe e rinnovi (e indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro), il limite massimo complessivo di 36 mesi. Superato questo termine il contratto si considera a tempo indeterminato dal momento del superamento del complessivo termine “esterno” di 36 mesi, secondo le regole previste dall’art. 5, comma 2, del d.lgs.. n. 368/01 (l’ipotesi si aggiunge alle altre previste dal medesimo comma 2 citato, secondo cui, alla scadenza del termine del contratto di lavoro, c’è un’ulteriore tolleranza di 20/30 giorni, a seconda della durata del contratto, durante i quali deve essere corrisposta solo una maggiorazione retributiva). Sono state fatte salve diverse disposizioni contenute nella contrattazione collettiva nazionale, territoriale ed aziendale. Facoltà, quest’ultima, introdotta dal “ritocco” - ad opera dell’art. 21 del d.l. n. 112/08 convertito con modificazioni nella l. n. 133/2008 - dell’articolo 5, comma 4 bis, della l. n. 247/2007 che prevedeva il tetto massimo dei 36 mesi. Pertanto, in caso di successione (per effetto di proroghe o rinnovi) di più contratti a termine per lo svolgimento di “mansioni equivalenti”, la contrattazione collettiva di categoria (nazionale, provinciale e territoriale) può estendere il termine dei 36 mesi stabilendo così una diversa durata massima prima che il contratto possa trasformarsi automaticamente a tempo indeterminato.

Al fine dell’individuazione delle “mansioni equivalenti” è intervenuta la circolare n. 13/2008 del Ministero del lavoro, asserendo che: «il limite generale di durata massima in casi di reiterazione di contratti a tempo determinato richiede l’identità delle parti del rapporto di lavoro e l’equivalenza delle mansioni. Secondo la giurisprudenza prevalente l’equivalenza non deve essere intesa in termini di mera corrispondenza del livello di inquadramento contrattuale tra le mansioni svolte precedentemente e quelle contemplate dal nuovo contratto, ma occorre verificare i contenuti concreti delle attività espletate: “L’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto” (Cass. sez. un., 24 novembre 2006, n. 25033). La contrattazione collettiva ha peraltro il potere di individuare la nozione di “equivalenza” attraverso le c.d. clausole di fungibilità, volte a consentire un impiego più flessibile del lavoratore, almeno per “sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della “professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica, senza incorrere nella sanzione della nullità comminata dal secondo comma della citata disposizione [art. 2103 c.c.]».

9. Eccezioni al limite di durata (la cd. deroga assistita)

Anche se complessivamente il rapporto di lavoro ha superato i 36 mesi, un successivo contratto a termine può essere concluso per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio con l’assistenza di un rappresentante sindacale appartenente ad una delle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

In sede di conversione in legge del d.l. n.112/2008 è stato stabilito che il limite dei 36 mesi limite può essere derogato dai contratti collettivi, stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale, con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (al riguardo ed esemplificativamente il Ccnl metalmeccanici ha fissato in otto mesi tale durata addizionale e il Ccnl alimentaristi l’ha stabilita in dodici mesi).

Il limite dei 36 mesi non si applica nei confronti delle attività stagionali. Inoltre è sempre consentita l’assunzione a termine dei dirigenti, purché la durata del contratto non sia superiore a 5 anni. Casi particolari si rilevano inoltre nel settore del trasporto aereo dove sono ammessi contratti a termine di durata complessiva non superiore a 6 mesi nei periodi compresi tra aprile e ottobre di ogni anno, nonché contratti a termine di durata non superiore a 4 mesi per periodi diversamente distribuiti.

10. Indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine

In sede di conversione del d.l. n. 112/2008 – tramite l’art. 21, comma 1 bis, della l. n. 133/2008 - è stato addizionato al d.lgs. n. 368/2001, l’art. 4 bis che ha disposto (limitatamente ai soli giudizi in corso al 21.8.2008, data di entrata in vigore della Legge di conversione del citato d.l. 112/2008, e fatte salve le sentenze passate in giudicato), che in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604, e successive modificazioni.

A seguito di numerosissime eccezioni di costituzionalità sollevate dalle Corti d’appello del Paese, la Corte costituzionale, con sentenza n. 214 dell’8 luglio 2009, in accoglimento delle medesime, ha dichiarato la caducazione per incostituzionalità della norma contestata, atteso che colpiva discriminatoriamente solo coloro che avevano avuto l’ardire ed il coraggio di adire la magistratura prima della data della sua entrata in vigore del 21 agosto 2008, così statuendo: «Siffatta discriminazione è priva di ragionevolezza, né è collegata alla necessità di accompagnare il passaggio da un certo regime normativo ad un altro. Infatti l’intervento del legislatore non ha toccato la disciplina relativa alle condizioni per l’apposizione del termine o per la proroga dei contratti a tempo determinato, ma ha semplicemente mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro». La pratica conseguenza è stata quella del doversi considerare abrogato l’art. 4 bis del d.lgs. n. 368/2001, cioè tanquam non esset.

Peraltro va detto che la disposizione tesa ad una forfetizzazione risarcitoria per i contratti a termine riscontrati illegittimi – espunta dalla Corte costituzionale nella veste dell’art. 4 bis, di cui alla l. n. 133/2008, in quanto non generalizzata per l’avvenire ma ristretta ai soli giudizi anteriori alla vigenza della legge, ancora pendenti – è stata reintrodotta nell’ordinamento tramite il 5, 6 e 7 comma dell’art. 32 della successiva l. n. 183/2010 (di conversione del cd. Collegato lavoro) ed estesa a tutti i giudizi pendenti e successivi all’entrata in vigore della legge in questione, risultando così formulata: «5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604» (cioè dimensione dell’impresa, anzianità di servizio risultante dalla durata di fatto del rapporto di lavoro data dalla sommatoria dei vari contratti a termine, ecc.).

La qualificazione “onnicomprensiva” riferita all’indennità risarcitoria ha posto sin dall’origine alcuni dubbi interpretativi: ci si è chiesti infatti – prima di Corte cost. n. 3003/2011 che ha eliminato il dubbio, come diremo in seguito - se l’indennità fosse da considerarsi sostitutiva della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto a termine illegittimo e dell’eventuale retribuzione maturata dal lavoratore nel periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto e la data di riammissione in servizio ovvero cumulativa della conversione del rapporto di lavoro, cioè a dire aggiuntiva rispetto sia alla trasformazione del rapporto, sia al risarcimento del danno commisurato al valore delle retribuzioni maturate dalla data di messa in mora del datore di lavoro mediante offerta della prestazione.

Stante l’aggettivo adoperato per qualificare l’indennità come “onnicomprensiva”, è stato correttamente ritenuto che la finalità del legislatore fosse stata quello di porre un limite al risarcimento posto a carico del datore di lavoro, nei casi di conversione del contratto e per effetto delle lungaggini del processo: con ciò portando a ritenere che l’indennità dovesse considerarsi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Tale conclusione, peraltro, risultava confermata dai lavori preparatori, dai quali si desumeva che, in ordine all’interpretazione del comma 5 dell’art. 32, la previsione del risarcimento del danno si aggiungeva e non sostituiva il ripristino del rapporto di lavoro e che, quindi, «non vi è conflitto tra la conversione a tempo indeterminato e quella di definizione di risarcimento, anzi i due termini coabitano».

In data 11 novembre 2011 è stata depositata Corte cost. n. 303 la quale ha disatteso le varie questioni di legittimità sollevate in ordine all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183.

Detta sentenza ha asserito, in linea di principio, che: «In termini generali, la norma scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Difatti, l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario. Non a caso, dall’esame dei lavori preparatori si desume che la disposizione di cui all’art. 32, comma 5, dell’anzidetta legge dev’essere correttamente letta come riferita alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento del danno in favore del lavoratore dev’essere intesa «come aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione» (ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato della Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite nella seduta del 2 marzo 2010)».

Relativamente all’eccepita incostituzionalità del comma 5, art. 32, l. n.183/2010 – statuente la conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine invalido con l’aggiunta di una indennità risarcitoria forfettizzata a copertura dell’arco temporale tra la data di instaurazione del contratto a termine e quello della sentenza che ne stabilisce la conversione a tempo indeterminato - la Consulta ne ha dichiarato la legittimità (confermando la cumulabilità tra conversione e indennità risarcitoria forfettizzata), asserendo che la normativa in questione «…risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque (cioè senza alcuna deduzione dell’aliunde perceptum o percipiendum, legislativamente non contemplata, ndr), senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die»[14].

Parimenti legittimo è stato dalla Consulta ritenuto il dimezzamento (ex 6 co., art. 32, l. n. 183/2010) dell’indennità risarcitoria nel caso in cui contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali - stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale - prevedano la conversione dei contratti a termine illegittimi in contratti a tempo indeterminato, in quanto il dimezzamento è stato riconosciuto quale incentivo per la definizione in sede sindacale del contenzioso seriale sui contratti a termine.

11. Cessazione del rapporto

Una particolarità della disciplina del lavoro a termine riguarda il licenziamento: il lavoratore assunto a tempo determinato non può essere licenziato prima della scadenza del termine se non per “giusta causa”, cioè per un fatto talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. Non è possibile, in altre parole, il licenziamento per giustificato motivo, sia soggettivo che oggettivo (ad esempio, per riduzione dell’attività dell’impresa).

In tal senso, pacificamente: «Il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., non può essere risolto anticipatamente per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/66, ma solo se ricorrono le ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli art. 1453 ss. c.c. Ne consegue che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato»[15].

Il licenziamento intimato senza giusta causa prima della scadenza del termine comporta il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, pari a tutte le retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore fino alla scadenza inizialmente prevista, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore lavorando presso un altro datore di lavoro nel periodo considerato.

In tal senso, pacificamente, in giurisprudenza: «Il dipendente a tempo determinato illegittimamente licenziato in difetto di giusta causa (non potendosi ritenere tale la situazione di transeunte difficoltà economica del datore di lavoro) ha diritto non alla reintegrazione nel posto di lavoro ma al risarcimento del danno, che può legittimamente quantificarsi, in via equitativa, sulla base delle retribuzioni che gli sarebbero spettate fino alla scadenza del termine; né da esso può essere legittimamente dedotto, a titolo di "aliunde perceptum", quanto dal lavoratore percepito a seguito di altra sua occupazione, qualora risulti la non esclusività della prestazione illegittimamente interrotta per volontà unilaterale del datore di lavoro»[16].

Va tuttavia tenuto presente l’orientamento consolidato per cui dalla illegittimità del contratto a termine (trasformato giudizialmente a tempo indeterminato) non discende il diritto ininterrotto alle retribuzioni medio tempore maturate, se il lavoratore non ha - per iscritto - notificato al datore di lavoro la sua disponibilità alla impedita prestazione. In tal senso: «Ove nell’ambito di una controversia sulla sussistenza o meno di un rapporto di lavoro a tempo determinato, si accerti la natura a tempo indeterminato del rapporto stesso, da tale accertamento non deriva automaticamente il diritto della ricorrente alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine illegittimamente apposto, atteso che tale diritto è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa. Ne consegue che al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per l’attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro»[17]. Confermativamente: «Nei casi di illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, il dipendente che cessi l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto non ha diritto alla retribuzione finché non provveda ad offrire le sue prestazioni lavorative, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro; in base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo a detta scadenza, posto che l’interruzione della funzionalità di fatto non consegue ad un’iniziativa del datore di lavoro, il quale non pone in essere un licenziamento anche se richiama formalmente la scadenza del termine»[18]. In senso conforme: «Nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla - in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione - soltanto qualora provveda a costituire in mora il datore di lavoro ex art. 1217 c.c., non essendo applicabili in via analogica le norme della l. n. 604/66 e l’art. 18, l. n. 300/70 e non potendo neppure ritenersi che non occorra la messa in mora, reputando, in contrasto con gli art. 1206 e 1217 c.c., che l’offerta della prestazione coincida con l’interesse all’esecuzione ed alla controprestazione»[19].

12. Criteri di computo dei lavoratori

L’art. 8, d.lgs. n. 368/2001, prevede che ai fini di cui all’art. 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (esercizio dell’attività sindacale), i lavoratori con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi.

13. Limiti quantitativi ed esclusioni da tali limiti

In conformità al principio per cui la fattispecie normale del rapporto di lavoro è quella a tempo indeterminato, il legislatore ha previsto un regime cautelativo nella utilizzazione dei contratti a termine, affidando ai contratti collettivi nazionali il compito di individuare i limiti quantitativi di utilizzazione.

L’art. 1, comma 41, della legge n. 247/2007 è intervenuto sull’art. 10, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 368/2001, limitando ulteriormente le ipotesi nelle quali è possibile assumere con contratto a termine senza rispettare gli specifici limiti numerici fissati dalla contrattazione collettiva.

A partire dal 1° gennaio 2008 è stata, poi, ridisegnata l’area di esenzione dal rispetto dei limiti quantitativi, consentendo la conclusione di contratti a termine senza limiti, nelle seguenti ipotesi tassativamente fissate dalla legge:

a) nella fase di avvio (cd. start up) di una nuova attività per periodi che saranno definiti dai contratti nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;

b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al d.P.R. n. 1525/1963 e successive modificazioni. In tale ambito vanno comprese tutte quelle ipotesi già individuate dall’art.1, comma 1, lettera b) della legge n. 230/1962, nonché quelle (come la sostituzione del lavoratore per ferie) già oggetto di previsione da parte degli accordi collettivi;

c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;

d) per le assunzioni effettuate a conclusione di un periodo di tirocinio o stage, finalizzato a facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. La disposizione sembra riferirsi al “primo” contratto successivo al periodo formativo e dovrebbe riguardare soltanto l’imprenditore presso il quale si è svolta l’esperienza;

e) per i contratti stipulati con lavoratori di età superiore ai cinquantacinque anni. Tale previsione è finalizzata ad agevolare la ricollocazione, per certi versi complicata, di soggetti che, in ragione della loro età, sono ai margini del mercato del lavoro;

f) per i contratti conclusi quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti o predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario o occasionale. E’ questa una ipotesi già prevista dalla l. n. 230/1962 e si riferisce, secondo un indirizzo espresso dalle S.U. della Cassazione «a quelle opere o servizi che determinano un incremento dell’attività particolarmente rilevante, in relazione ad eventi isolati ed eccezionali, tali da non poter essere affrontati con la normale struttura organizzativa e produttiva. Detta norma non può essere invocata alfine di giustificare assunzioni a tempo determinato per sopperire a fluttuazioni di mercato ed incrementi della domanda prevedibili e ricorrenti in determinati periodi dell’anno per punte stagionali»[20]. Come si vede, ci si trova di fronte ad una ipotesi completamente diversa da quella della stagionalità;

g) per le assunzioni non rientranti nelle tipologie sopra menzionate, la cui durata, comprensiva della proroga, non supera i sette mesi o il periodo maggiore individuato con la contrattazione collettiva la quale può, altresì, fissare limiti temporali diversi a seconda delle aree geografiche interessate. C’è da aggiungere una precisazione contenuta al comma 8: l’esenzione quantitativa viene meno se il contenuto del contratto è identico quello di un rapporto precedente scaduto nei sei mesi antecedenti.



[1] Cass. 17.12. 2008, n. 29470.

[2] Trib. Milano, 13.1. 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 78; conformi: Cass. 21.5. 2002 n. 7468; App. Milano 9.1. 2006; Trib. Firenze 5.2. 2004.

[3] App. Milano, 9.12. 2003; in senso conforme Trib. Milano 11.5. 2006 n. 1431; Trib. Milano 24.12. 2005, in Orient. giur. lav., 2006,114; Trib. Milano 16.10. 2006, inedita; Trib. Milano, 25.11.2004, in Riv. crit. dir. lav.,2005, 152.

[4] Trib. Milano, 8.1. 2004, in Dir. relaz. ind. 2006, 1, 146.

[5] Trib. Milano, 21.4.2004.

[6] Cass. 7.8. 2003 n. 11921.

[7] Cass. 30.7.2003, n. 11699.

[8] App. Bari, 20.7.2005.

[9] Trib. Monza, 18.1.2005, in Riv. crit. dir. lav. 2005,152.

[10] Trib. Genova, 14.12.2006, in Banca Dati Lex 24, il Sole 24ore, 2007.

[11] Trib. Bassano del Grappa, 19.4.2007, in Il Sole 24 Ore, n. 38, settembre 2007.

[12] Cass. 21.5. 2008, n. 12985, in Foro it. 2008, 12, 3569.

[13] In Riv. giur. lav. 2005, 709.

[14] Così, espressamente, Corte cost. 11/11/2011 n. 303.

[15] Cass. 10.2.2009, n. 3276, in Dir. prat. lav. n. 11/2009.

[16] Cass. 1.6.2005, n. 11692, in Giust.civ.Mass. 2005,6.

[17] Cass. 22.1.2004, n. 995.

[18] App. Salerno, 19.10.2005.

[19] Cass. 3.10.2008 n. 24952.

[20] Cass., S.U., 29.9.1983 n. 5739, in Giur. it., 1984, I,I, 452.