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Il fenomeno della collaborazione con lo stato

La figura del “collaboratore di giustizia”
Il fenomeno della collaborazione con lo stato
Il fenomeno della collaborazione con lo stato

II Parte

Lo status di “collaboratore di giustizia”, presupposto dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione e degli istituti premiali da essa stabiliti o richiamati, è attribuito alle persone che versano in grave e attuale pericolo conseguente a condotte di collaborazione tenute in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Sotto un profilo tecnico-giuridico, la condotta di collaborazione deve esser tenuta nel corso di un procedimento penale, deve presentare carattere di intrinseca attendibilità e deve altresì qualificarsi per novità o completezza o comunque deve apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio.

Le speciali misure di protezione adottate mediante il particolare procedimento amministrativo previsto dalla legge valgono a definire lo status di collaboratore di giustizia ed a produrre tutti i conseguenti effetti, anche di natura processuale.[1]

La fine degli anni ottanta è coincisa con il periodo storico di maggior fioritura dei collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, la cui  qualificazione è  in stretta relazione con le indagini concernenti la criminalità organizzata di tipo mafioso.  Parliamo dell’epoca di celebrazione dei grandi processi di mafia, in gran parte fondati sulle dichiarazioni dei “pentiti”, i cui nomi e le cui vicende sono divenuti di pubblico dominio in forza dell’ampio risalto loro dato dalla stampa nazionale ed internazionale.

Secondo alcuni operatori giuridici si tratta, tuttavia, di una “stagione ormai tramontata”, così scriveva già nell’anno 1992 [2]poco prima di cadere sotto la scure della criminalità, il magistrato per antonomasia Paolo Borsellino, per cui si riteneva che per il futuro le indagini sulla criminalità mafiosa non avrebbero più usufruito di tale preziosissimo apporto,  cioè capace di consentire una  lettura “dall’interno” delle organizzazioni criminali e permettere adeguata collocazione delle altre fonti di prova, acquisite e raccoglibili, per altro, in gran parte, proprio in forza della collaborazione di tali soggetti. Il “tramonto del fenomeno del pentitismo”, secondo questa opinione peraltro non isolata, sarebbe stato cagionato dalla perdurante incapacità dello Stato di assumendosi il gravoso onere di tutelare e  gratificare i collaboratori, mediante la concessione di benefici, adeguati al loro apporto allo sviluppo concreto delle indagini. L’opinione così formulata a parere di Borsellino era solo parzialmente condivisibile. L’esperienza giudiziaria maturata dall’insigne magistrato lo aveva indotto a credere che il fenomeno dei “collaboratori”  era ben lontano dall’avere concluso la sua stagione e che, pur in presenza di carenze normative ed amministrative, le Autorità inquirenti dovessero continuare ad avvalersi della collaborazione di soggetti contigui alle cosche mafiose, anche al solo fine di arginare il tentativo delle stesse organizzazioni criminali di rafforzare l’impenetrabile muro dell’omertà.

In materia di criminalità organizzata di tipo mafioso è assolutamente raro riscontrare negli affiliati all’organizzazione, considerati gli stretti legami familiari, delle vere scelte di natura ideologica o morale. La scelta di collaborare nasce principalmente dal timore di ritorsioni, o di rischi per la propria vita, per contrasti verificatisi all’interno delle consorterie criminali. E fin tanto che lo Stato riesce a fornire la percezione di poter tutelare il soggetto, allora si realizzano le condizioni che interessano il potenziale collaboratore, il quale, generalmente, non avanza altro genere di richieste, né ne avanzerà in seguito, se le esigenze di tutelare la propria incolumità e quella dei familiari rimarranno nel tempo assicurate .

Quindi sin da subito il problema della sicurezza dei collaboratori e dei loro familiari si è posto all’attenzione di tutti a seguito del verificarsi di gravissimi fatti omicidiari nell’ambito delle c.d. vendette trasversali. L’esplosione, tuttavia, all’interno delle organizzazioni mafiose di contrasti insanabili ed il conseguente stato di estremo pericolo in cui esponenti dell’organizzazione vennero a trovarsi, hanno favorito il sorgere delle prime collaborazioni, anche se questi soggetti si sono “al buio” affidati allo Stato senza conoscere i contenuti dei programmi di protezione.

 Anche agli albori del fenomeno del pentitismo e nella carenza normativa iniziale, si è spesso verificato che collaboratori avanzassero crescenti richieste di assistenza durante il corso dei procedimenti, rappresentando varie difficoltà, derivate per l’appunto dalla scelta compiuta la quale incideva in maniera negativa sulla totalità dei loro rapporti giuridici e sulle attività economiche preesistenti.

Per di più il susseguirsi di tali richieste veniva spesso considerato dalle istituzioni con il sospetto che il soggetto beneficiario volesse in qualche modo “negoziare” il mantenimento della sua posizione di collaboratore, subordinandola all’accoglimento delle richieste medesime.

In realtà, dopo qualche decennio, ed un’attenta analisi sociologica del fenomeno in questione una lettura più approfondita ci porta è decifrare questo dato come il fulcro della problematica inerente alla protezione ed alla assistenza di coloro che collaborano con la giustizia, siano essi collaboranti o testimoni : l’approccio traumatico con una realtà sconosciuta, preconfezionata e contrastante con le esigenze di vita dell’individuo, il quale deve piegarsi ad un modello, rigido sacrificando la propria natura e le proprie abitudini  per uniformarsi agli schemi del sistema tutorio ; l’impossibilità per i soggetti protetti di esprimere direttamente ( poiché possono agire solo attraverso i propri legali)  il dramma di vivere una condizione che non risponde alle aspettative precedenti all'ingresso in protezione. Le difficoltà legate al cosiddetto reinserimento sociale e il disagio psicologico vengono attribuiti a limiti normativi e a scarse disponibilità finanziarie e umane, delle quali il sistema di protezione non si fa carico.

A questo riguardo si può muovere un rilievo in negativo alla legge 45 del 2001, la quale pur individuando la necessità di introdurre nel programma di protezione misure per il reinserimento lavorativo, non determina obblighi specifici per il Servizio centrale di protezione, che svolge per lo più funzioni burocratiche. Si può rilevare, in particolare, come la soluzione proposta dalla normativa sia la capitalizzazione sociale, senza l'obbligo di un'analisi di fattibilità preventiva, né del monitoraggio dell'andamento delle attività avviate dai collaboratori o dai testimoni di giustizia e dai loro familiari che restano gli unici responsabili del successo o del fallimento delle iniziative, con ogni prevedibile conseguenza sul piano sociale.

Addirittura la fuoriuscita dal programma da parte dei collaboratori e dai testimoni è considerata un indicatore positivo del funzionamento del sistema che in tal modo riuscirebbe a garantire quel necessario ricambio fisiologico . Di contro, emerge che tale provvedimento non è sempre sufficiente a risolvere i problemi delle persone che fuoriescono dal programma, le quali si imbattono in molti problemi che rendono arduo un effettivo reinserimento nella vita "normale". Occorrerebbe, dunque, un intervento legislativo volto a introdurre misure di sostegno per attuare un effettivo reinserimento degli ammessi a programma di protezione e misure anche di controllo e di verifica dell'avvenuto o meno reinserimento.

Abbiamo già accennato che il punto forse più dolente del programma di protezione, a cui sono sottoposti anche i collaboratori, oltre ai testimoni,  è il grande disagio psicologico e relazionale che vivono i "protetti" a causa del trasferimento in località protetta, dall'assenza di un progetto di vita e dalla paura in cui tali soggetti piombano: problema, ancora oggi, affrontato dal Servizio centrale di protezione con scarsa considerazione ed inefficienza, in ragione dell’esiguità di personale specializzato in grado di gestire le delicate vicende di questi soggetti. [3]

[1] Il legislatore ha voluto correttamente affermare che il collaboratore ammesso a programma di protezione, dunque fornito di status giuridico, che abbia fruito di attenuanti in sede processuale e di benefici penitenziari, deve trasformarsi in un soggetto rispettoso della legge e del vivere civile; se dunque, commette nuovamente  dei reati o si accerta che ha goduto di attenuanti o benefici per l’effetto di false dichiarazioni, il suo comportamento deve essere sanzionato, in primo luogo con l’esclusione dal programma  e con la revoca delle attenuanti e dei benefici ricevuti.

[2] Sul tema dei collaboratori di giustizia si vedano le annotazioni  contenute nei quaderni del CSM a cura di Paolo Borsellino del  22.01.1992 :”Problematiche connesse ai collaboratori di giustizia”.

[3] Sempre sul tema dei collaboratori di giustizia cfr.: Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare – Relazione annuale, XIV Legislatura, Doc. XXIII n. 3; Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare – Relazione conclusiva, XIV Legislatura, Doc. XXIII n. 16;

I Parte

II Parte

Lo status di “collaboratore di giustizia”, presupposto dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione e degli istituti premiali da essa stabiliti o richiamati, è attribuito alle persone che versano in grave e attuale pericolo conseguente a condotte di collaborazione tenute in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Sotto un profilo tecnico-giuridico, la condotta di collaborazione deve esser tenuta nel corso di un procedimento penale, deve presentare carattere di intrinseca attendibilità e deve altresì qualificarsi per novità o completezza o comunque deve apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio.

Le speciali misure di protezione adottate mediante il particolare procedimento amministrativo previsto dalla legge valgono a definire lo status di collaboratore di giustizia ed a produrre tutti i conseguenti effetti, anche di natura processuale.[1]

La fine degli anni ottanta è coincisa con il periodo storico di maggior fioritura dei collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, la cui  qualificazione è  in stretta relazione con le indagini concernenti la criminalità organizzata di tipo mafioso.  Parliamo dell’epoca di celebrazione dei grandi processi di mafia, in gran parte fondati sulle dichiarazioni dei “pentiti”, i cui nomi e le cui vicende sono divenuti di pubblico dominio in forza dell’ampio risalto loro dato dalla stampa nazionale ed internazionale.

Secondo alcuni operatori giuridici si tratta, tuttavia, di una “stagione ormai tramontata”, così scriveva già nell’anno 1992 [2]poco prima di cadere sotto la scure della criminalità, il magistrato per antonomasia Paolo Borsellino, per cui si riteneva che per il futuro le indagini sulla criminalità mafiosa non avrebbero più usufruito di tale preziosissimo apporto,  cioè capace di consentire una  lettura “dall’interno” delle organizzazioni criminali e permettere adeguata collocazione delle altre fonti di prova, acquisite e raccoglibili, per altro, in gran parte, proprio in forza della collaborazione di tali soggetti. Il “tramonto del fenomeno del pentitismo”, secondo questa opinione peraltro non isolata, sarebbe stato cagionato dalla perdurante incapacità dello Stato di assumendosi il gravoso onere di tutelare e  gratificare i collaboratori, mediante la concessione di benefici, adeguati al loro apporto allo sviluppo concreto delle indagini. L’opinione così formulata a parere di Borsellino era solo parzialmente condivisibile. L’esperienza giudiziaria maturata dall’insigne magistrato lo aveva indotto a credere che il fenomeno dei “collaboratori”  era ben lontano dall’avere concluso la sua stagione e che, pur in presenza di carenze normative ed amministrative, le Autorità inquirenti dovessero continuare ad avvalersi della collaborazione di soggetti contigui alle cosche mafiose, anche al solo fine di arginare il tentativo delle stesse organizzazioni criminali di rafforzare l’impenetrabile muro dell’omertà.

In materia di criminalità organizzata di tipo mafioso è assolutamente raro riscontrare negli affiliati all’organizzazione, considerati gli stretti legami familiari, delle vere scelte di natura ideologica o morale. La scelta di collaborare nasce principalmente dal timore di ritorsioni, o di rischi per la propria vita, per contrasti verificatisi all’interno delle consorterie criminali. E fin tanto che lo Stato riesce a fornire la percezione di poter tutelare il soggetto, allora si realizzano le condizioni che interessano il potenziale collaboratore, il quale, generalmente, non avanza altro genere di richieste, né ne avanzerà in seguito, se le esigenze di tutelare la propria incolumità e quella dei familiari rimarranno nel tempo assicurate .

Quindi sin da subito il problema della sicurezza dei collaboratori e dei loro familiari si è posto all’attenzione di tutti a seguito del verificarsi di gravissimi fatti omicidiari nell’ambito delle c.d. vendette trasversali. L’esplosione, tuttavia, all’interno delle organizzazioni mafiose di contrasti insanabili ed il conseguente stato di estremo pericolo in cui esponenti dell’organizzazione vennero a trovarsi, hanno favorito il sorgere delle prime collaborazioni, anche se questi soggetti si sono “al buio” affidati allo Stato senza conoscere i contenuti dei programmi di protezione.

 Anche agli albori del fenomeno del pentitismo e nella carenza normativa iniziale, si è spesso verificato che collaboratori avanzassero crescenti richieste di assistenza durante il corso dei procedimenti, rappresentando varie difficoltà, derivate per l’appunto dalla scelta compiuta la quale incideva in maniera negativa sulla totalità dei loro rapporti giuridici e sulle attività economiche preesistenti.

Per di più il susseguirsi di tali richieste veniva spesso considerato dalle istituzioni con il sospetto che il soggetto beneficiario volesse in qualche modo “negoziare” il mantenimento della sua posizione di collaboratore, subordinandola all’accoglimento delle richieste medesime.

In realtà, dopo qualche decennio, ed un’attenta analisi sociologica del fenomeno in questione una lettura più approfondita ci porta è decifrare questo dato come il fulcro della problematica inerente alla protezione ed alla assistenza di coloro che collaborano con la giustizia, siano essi collaboranti o testimoni : l’approccio traumatico con una realtà sconosciuta, preconfezionata e contrastante con le esigenze di vita dell’individuo, il quale deve piegarsi ad un modello, rigido sacrificando la propria natura e le proprie abitudini  per uniformarsi agli schemi del sistema tutorio ; l’impossibilità per i soggetti protetti di esprimere direttamente ( poiché possono agire solo attraverso i propri legali)  il dramma di vivere una condizione che non risponde alle aspettative precedenti all'ingresso in protezione. Le difficoltà legate al cosiddetto reinserimento sociale e il disagio psicologico vengono attribuiti a limiti normativi e a scarse disponibilità finanziarie e umane, delle quali il sistema di protezione non si fa carico.

A questo riguardo si può muovere un rilievo in negativo alla legge 45 del 2001, la quale pur individuando la necessità di introdurre nel programma di protezione misure per il reinserimento lavorativo, non determina obblighi specifici per il Servizio centrale di protezione, che svolge per lo più funzioni burocratiche. Si può rilevare, in particolare, come la soluzione proposta dalla normativa sia la capitalizzazione sociale, senza l'obbligo di un'analisi di fattibilità preventiva, né del monitoraggio dell'andamento delle attività avviate dai collaboratori o dai testimoni di giustizia e dai loro familiari che restano gli unici responsabili del successo o del fallimento delle iniziative, con ogni prevedibile conseguenza sul piano sociale.

Addirittura la fuoriuscita dal programma da parte dei collaboratori e dai testimoni è considerata un indicatore positivo del funzionamento del sistema che in tal modo riuscirebbe a garantire quel necessario ricambio fisiologico . Di contro, emerge che tale provvedimento non è sempre sufficiente a risolvere i problemi delle persone che fuoriescono dal programma, le quali si imbattono in molti problemi che rendono arduo un effettivo reinserimento nella vita "normale". Occorrerebbe, dunque, un intervento legislativo volto a introdurre misure di sostegno per attuare un effettivo reinserimento degli ammessi a programma di protezione e misure anche di controllo e di verifica dell'avvenuto o meno reinserimento.

Abbiamo già accennato che il punto forse più dolente del programma di protezione, a cui sono sottoposti anche i collaboratori, oltre ai testimoni,  è il grande disagio psicologico e relazionale che vivono i "protetti" a causa del trasferimento in località protetta, dall'assenza di un progetto di vita e dalla paura in cui tali soggetti piombano: problema, ancora oggi, affrontato dal Servizio centrale di protezione con scarsa considerazione ed inefficienza, in ragione dell’esiguità di personale specializzato in grado di gestire le delicate vicende di questi soggetti. [3]

[1] Il legislatore ha voluto correttamente affermare che il collaboratore ammesso a programma di protezione, dunque fornito di status giuridico, che abbia fruito di attenuanti in sede processuale e di benefici penitenziari, deve trasformarsi in un soggetto rispettoso della legge e del vivere civile; se dunque, commette nuovamente  dei reati o si accerta che ha goduto di attenuanti o benefici per l’effetto di false dichiarazioni, il suo comportamento deve essere sanzionato, in primo luogo con l’esclusione dal programma  e con la revoca delle attenuanti e dei benefici ricevuti.

[2] Sul tema dei collaboratori di giustizia si vedano le annotazioni  contenute nei quaderni del CSM a cura di Paolo Borsellino del  22.01.1992 :”Problematiche connesse ai collaboratori di giustizia”.

[3] Sempre sul tema dei collaboratori di giustizia cfr.: Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare – Relazione annuale, XIV Legislatura, Doc. XXIII n. 3; Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare – Relazione conclusiva, XIV Legislatura, Doc. XXIII n. 16;

I Parte