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Il linguaggio nei processi di violenza di genere: il potere delle parole

Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Questo articolo è l’elaborazione scritta dell’intervento svolto all’omonimo seminario organizzato dal CPO dell’Ordine degli avvocati di Ferrara il 23 novembre 2021.

 

Premessa

Laura Terragni ha affermato che “il modo in cui una società reagisce alla violenza nei confronti delle donne rappresenta uno specchio per comprendere il modo in cui essa intende le relazioni tra uomini e donne, i loro comportamenti, il loro modo di interagire” [1].

In tutte le campagne di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere le donne vengono invitate a denunciare il proprio partner violento: si chiede alle donne questo sforzo enorme in un momento in cui sono prostrate dalla sofferenza. Poche ci riescono, qualcuna più che in passato ma sempre poche. Ma quelle poche che riescono a denunciare l’uomo che le ha maltrattate, cosa ricevono poi in cambio dallo Stato che ha promesso di proteggerle? La donna maltrattata dovrebbe poter vedere nella giustizia – penale e civile – un porto sicuro a cui approdare senza timore di non essere creduta o di essere colpevolizzata. Il punto quindi, su cui è necessario riflettere, è l’adeguatezza della risposta del sistema nei confronti delle vittime, misurata non sul piano della gravità della sanzione comminata all’autore della violenza, bensì sotto il profilo della capacità del sistema giuridico e della magistratura di cogliere il disvalore del fenomeno e di trasmettere in modo chiaro la disapprovazione dell’ordinamento nel momento della sua applicazione concreta, al fine di evitare la vittimizzazione secondaria della donna [2]. Solo una volta accertata questa capacità diventa logico interrogarsi su quale sia la sanzione più appropriata.

 

Il ruolo della letteratura in tema di violenza maschile contro le donne

La scrittrice Clarice Lispector sosteneva che “Scrivere è cercare di capire, è cercare di riprodurre l'irriproducibile, è sentire fino all'ultima estremità la sensazione che altrimenti rimarrebbe vaga e soffocante”. La letteratura ha, infatti, il potere di raccontare e denunciare la realtà. In due dei miei libri mi sono, in particolare, interrogata da un lato sulla risposta che il sistema giudiziario dà alle donne vittime di violenza di genere, e dall’altro sul linguaggio che la società tutta utilizza per parlare di questo fenomeno.

Con il mio romanzo Troppo giusto quindi sbagliato[3] ho voluto raccontare il rapporto tra violenza maschile e sistema giudiziario, tra violenza maschile e società. Si tratta di un romanzo giudiziario, un legal-thriller, in cui è imputata una donna accusata di aver ucciso suo marito, ma lei sostiene di averlo ucciso solo per legittima difesa per difendersi da una sua aggressione, poiché lui la maltrattava da anni, durante tutto il loro matrimonio. La voce narrante è quella dell’avvocata di questa donna – Vittoria Ferri – ed è attraverso i suoi occhi che chi legge può percepire e quindi riflettere sulle ambiguità sociali e giudiziarie con cui conviviamo. In un passaggio della sua difesa Vittoria afferma: «È questo il vero problema, signori giudici: Linda Giraudo è viva. Se Linda Giraudo fosse morta, uccisa di botte da suo marito, sarebbe l’ennesima vittima di un infinito elenco di vittime di femminicidio, parola che ancora fatica a essere digerita in Italia. Perché il pregiudizio sociale vuole che siano rispettati alcuni criteri fondamentali: se la donna muore è una vittima, se sopravvive è lei la colpevole.» Parleremo più avanti del concetto di “vittima perfetta”, ma si evidenziano fin d’ora le ambiguità, le carenze culturali che il nostro sistema giudiziario ha nei confronti della violenza maschile contro le donne.

Partendo perciò dal presupposto che la violenza di genere sia un problema culturale, che quindi deve trovare la propria soluzione nella cultura e non solo nella legge, nel mio saggio Parole e pregiudizi [4] ho voluto analizzare il linguaggio che i quotidiani italiani scelgono di utilizzare nel riportare in cronaca i casi di femminicidio, al fine di verificare se la narrazione che viene restituita a chi legge è coerente o no con gli obiettivi di prevenzione della violenza e di ogni forma di discriminazione imposti in primo luogo dalla Convenzione di Istanbul. La prevenzione della violenza parte infatti proprio dalla cultura, dall’esigenza di un profondo rinnovamento culturale che renda effettiva la pari dignità delle donne all’interno della società. E quindi l’uso corretto e consapevole della lingua, delle parole, è uno dei primi indispensabili passi per costruire una società nuova, più libera e rispettosa di tutte le sue componenti. Analizzando gli articoli apparsi sui più diffusi quotidiani italiani nell’arco di un anno - tra aprile 2019 e aprile 2020 – Parole e pregiudizi verifica come la stampa italiana, nel riportare i casi di femminicidio, tenda a fornire al lettore un frame interpretativo che deresponsabilizza l’azione violenta dell’uomo, rappresentando per lo più il fatto come un delitto d’impeto, determinato da un discontrollo episodico, e causato spesso da un comportamento della donna che ha deluso le amorose aspettative del partner, con la conseguenza di isolare ciascun evento dall’altro senza coglierne la comune matrice culturale. I media – così come le sentenze dei tribunali - hanno un ruolo strategico nel progresso delle pari opportunità, possono ostacolare oppure favorire una rappresentazione della realtà stereotipata e discriminatoria. È quindi importante interrogarci non solo su cosa viene detto, ma anche e soprattutto su come viene detto; e anche su quanto non viene esplicitamente detto bensì implicato.

Un problema cruciale del femminicidio è il fatto che la retorica dell’emergenza si rifiuti ancora di considerarlo un fenomeno strutturale socio-culturale, e non solo una delle tante forme di devianza criminale. Emblematico in questo senso è un passaggio scritto sull’uccisione di Rosalia Mifsud: “Oggi quella casa, acquistata con sacrifici da Rosy circa tre anni fa, è il simbolo di un orrore che ha sconvolto l’intera comunità di Mussomeli, dai vigili urbani fino ai frequentatori del bar, intimoriti dalle telecamere, con l’orecchio alla televisione per sentire il racconto di quanto accaduto. «Chissà cosa gli è passato per la testa» dicono i passanti, desiderosi che tutto ritorni alla tranquillità, mentre si avviano a tornare a casa per il pranzo dopo aver assistito alle fasi dei rilievi e alle operazioni dei carabinieri. Loro vogliono cancellare quella pagina di sangue dalla loro cittadina e vivere ancora in quel posto tranquillo, lontano da telecamere e televisioni.” (Repubblica, 1/02/2020)

Queste poche righe sembrano proprio riassumere il sentimento popolare esistente nei confronti della violenza maschile contro le donne: è stato un momento di pazzia che, tutto sommato, non ci riguarda; possiamo continuare a vivere come abbiamo sempre fatto. Ma è proprio continuando a vivere come abbiamo sempre fatto che noi donne continuiamo a morire!

Per risolvere un problema è evidente che bisogna prima riconoscere che c’è n’è uno. E per far questo gli unici strumenti a nostra disposizione sono una nuova formazione dei professionisti e delle professioniste e una nuova educazione di tutte e tutti. Partendo quindi dalle parole, e consci del loro potere di rappresentazione e costruzione della realtà, vediamo in che modo i tribunali italiani parlano di violenza di genere. Propongo qui due ambiti di riflessione: il primo sulla violenza sessuale, il secondo sul femminicidio [5].

 

La sentenza della Corte EDU nel caso J.L. contro Italia del 27 maggio 2021

La Corte EDU, nel caso J.L. contro Italia – nel maggio di quest’anno – ha condannato l’Italia perché la Corte d’appello di Firenze nel giudicare una violenza sessuale di gruppo nei confronti di una donna ventiduenne ha riprodotto stereotipi sessisti e veicolato “pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente[6]. I pregiudizi hanno la perversa caratteristica di essere invisibili, perché automatici e interiorizzati, e il devastante effetto di perpetuare l’impunità degli uomini autori di violenza e la colpevolizzazione delle donne che denunciano. Se i pregiudizi sono posti alla base delle sentenze ciò determina che in nome del popolo italiano venga ufficializzata e mantenuta quella disuguaglianza di fatto che è causa stessa della violenza maschile.  Perché, scrive la Corte, “la redazione della sentenza costituisce una parte integrante [del procedimento penale] della massima importanza, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico” [7].

Cosa ha scritto, quindi, la Corte d’appello di Firenze che ha determinato la condanna dell’Italia? La Corte, allo scopo di valutare la credibilità della persona offesa, accusatrice degli imputati, scrive che ella “liberamente aveva scelto di passare una serata di festa insieme a soggetti che già conosceva, con due avendo già fatto sesso occasionale in precedenza, lasciando peraltro il fidanzato a casa che non stava bene”; la descrive come “un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta”; definisce il clima della serata “goliardico”, “godereccio” e rappresenta più volte gli “atteggiamenti particolarmente disinvolti e provocatori della [persona offesa], che aveva ballato strusciandosi con alcuni di loro ed aveva mostrato gli slip rossi mentre cavalcava sul toro meccanico”; attribuisce la denuncia alla “volontà della [persona offesa] di stigmatizzare quella iniziativa di gruppo comunque non ostacolata […] evidentemente per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e di fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere”. Tutti questi passaggi della sentenza vengono definiti dalla Corte EDU “deplorevoli e irrilevanti[8]. È necessario notare che le parole hanno un peso, e che la Corte europea sceglie di utilizzare due parole molto pesanti: “deplorevoli e irrilevanti”. La Corte d’appello descrive infine quanto accaduto come un “rapporto di gruppo che alla fine nel suo squallore non aveva soddisfatto nessuno, nemmeno coloro che nell’impresa si erano cimentati”, […] una “incresciosa storia, non encomiabile per nessuno” ma “un fatto penalmente non censurabile[9].

Le parole che utilizziamo rappresentano il modo in cui interpretiamo la realtà. Chi utilizza le parole per lavoro – che siano giudici o giornalisti – ha il potere di veicolare in chi legge quella rappresentazione, che peraltro risente dell’autorevolezza della fonte da cui proviene. Chi siamo noi poveri cittadini qualunque per mettere in discussione ciò che un autorevole quotidiano o un tribunale della Repubblica attesta come vero?

Scrive, infatti, la Corte EDU: La Corte è convinta che l'azione penale e la punizione abbiano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere. È quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria, utilizzando un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario”. [10]

Questa ragazza ha denunciato quanto accadutole nel 2008. Ha dovuto ripetere più volte il suo drammatico racconto davanti alla Polizia e alla Procura. Due udienze pubbliche (su diciotto) del processo di primo grado sono state dedicate alla sua escussione, in cui otto avvocati difensori dei sei imputati le hanno rivolto domande relative alla sua situazione familiare e affettiva e sulle sue esperienze sessuali, più volte dichiarate inammissibili dal giudice; più volte il giudice ha dovuto interrompere l’udienza per dar modo alla donna di riprendersi dalle sue emozioni. In primo grado, nel 2013, il tribunale ha condannato gli imputati per violenza sessuale di gruppo abusando delle di lei condizioni di inferiorità fisica e psicologica, e li ha invece assolti dall’aver commesso lo stesso reato mediante violenza o minaccia. La Corte d’appello di Firenze, nel 2015, ha poi assolto tutti gli imputati perché il fatto non sussiste, ritenendo non credibile la ricostruzione fornita dalla persona offesa. A seguito di tale assoluzione, la persona offesa ha inviato al pubblico ministero una memoria in cui chiedeva di presentare ricorso per cassazione. La Procura non ha presentato ricorso, lasciando quindi passare in giudicato l’assoluzione. Sempre nel 2015 è stata presentata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia un’interrogazione parlamentare sulle motivazioni della sentenza e sulla loro compatibilità con la normativa nazionale e sovranazionale in materia di tutela delle vittime di reato e di contrasto alla violenza di genere: non è stata esaminata. Nel 2016 la persona offesa ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui sentenza giunge nel 2021. Tredici anni dopo i fatti.

Tredici anni ci sono voluti per giungere ad una sentenza che dichiara la violazione da parte dello Stato italiano delle norme sulla tutela delle vittime di reato, e che nulla ovviamente cambia nei confronti degli imputati assolti.

Questa donna descrive l’intera procedura processuale come “lunga e dolorosa”. Già questa valutazione, prima di ogni altra, descrive il fallimento dello Stato nei confronti di una donna che ha denunciato una violenza. Come peraltro nei confronti di qualunque persona abbia denunciato qualunque violazione dei propri diritti.

Scriveva Alba De Céspedes nel romanzo Dalla parte di lei:Non ero mai riuscita a parlare fin dalla prima volta in cui il giudice mi aveva interrogato, aspro, ostile, dettando poi freddamente al cancelliere. Mi avevano condotto in una stanzetta grigia nel palazzo di giustizia […] avevo incominciato a parlare con spontanea confidenza. Ma il giudice, subito, alla mia sincerità aveva opposto un incredulo sarcasmo, come faceva mio padre. Era già tanto difficile esprimere in poche parole ciò che mi aveva spinto ad agire così: e, soprattutto, citare i fatti concreti. Mia madre usava dire che le donne sono sempre in torto di fronte ai fatti concreti. Sentivo che quell’uomo sarebbe stato sordo alle mie ragioni, come certo lo era a quelle delle donne di casa sua. Perciò, da allora, ho preferito tacere sempre, accettando intera la mia colpevolezza.” [11]

 

Pregiudizi inconsapevoli

Questione essenziale nei processi per maltrattamenti e violenze legate al genere è la credibilità della persona offesa. Leggo in una sentenza penale: “Interrogata in ordine alle ragioni del proprio silenzio la parte civile ha evidenziato di avere, in un primo tempo, pensato di essere lei stessa la causa dei malumori del marito, e di avere compreso, solo in un secondo momento, che l’uomo era violento per sua natura[12]. Ciò che dovrebbe colpire è che sono esclusivamente le donne vittime ad essere interrogate sulle ragioni del loro lungo silenzio; gli uomini imputati, essendo legittimati a tacere e mentire, non vengono interrogati sui motivi della loro lunga violenza. Purtroppo c’è sempre qualcosa che non va nel nostro comportamento: se denunciamo troppo presto non siamo in grado di sopportare un po’ di difficoltà in nome del bene della famiglia, se non denunciamo o denunciamo troppo tardi allora la situazione non era poi così drammatica. I tribunali sono quotidianamente alla ricerca della vittima perfetta che, in quanto tale, non esiste. La violenza di genere colpisce qualunque tipologia di donna, in qualunque contesto socio-culturale e in qualsiasi angolo del mondo, per cui è impossibile avere una vittima perfetta che risponda ad un numero chiuso di requisiti predefiniti. Purtroppo la conseguenza della non-esistenza della vittima perfetta non è, a quanto pare, la consapevolezza di dover ridefinire i propri preconcetti sui ruoli di uomini e donne, bensì il credere che la donna che denuncia una violenza menta. L’effetto di tale colpevolizzazione inconscia è “quello di porre al centro dell’accertamento giudiziario non cosa è accaduto, ma cosa è convincente che sia accaduto per assecondare il soggettivo punto di vista del giudice[13].

Quando il processo si basa sulla parola dell’una contro quella dell’altro, il giudice e la giudice deve decidere a chi dei due credere, ed è in quel frangente che i pregiudizi così profondamente ed inconsapevolmente radicati in tutti e tutte noi entrano in gioco. Ovviamente, come persone istruite, crediamo di essere immuni dai pregiudizi, ma sbagliamo: è la giudice Paola Di Nicola Travaglini a ricordarci che “il pregiudizio contro le donne ha la prerogativa di appartenere all’intera umanità, che si ritrova ogni giorno a condividere, al di là dei confini di spazio e tempo, un’identica impari struttura di relazione tra uomini e donne fondata su di esso[14]. E questo vale per tutti, anche per i giudici e le giudici. “C’è una sola differenza: quella tra chi ne è consapevole e tenta, con razionalità e studio, di distaccarsene e chi ritiene di essere aprioristicamente imparziale per la sola circostanza di essere magistrato/a[15].

Al tal riguardo il Comitato CEDAW, nel suo settimo rapporto sull’Italia pubblicato nel 2017, “nota con preoccupazione:

(a) I radicati stereotipi relativi a ruoli e responsabilità di donne e uomini nella famiglia e nella società, che perpetuano i ruoli tradizionali delle donne come madri e casalinghe, minacciando lo status sociale delle donne e le loro possibilità di istruzione e carriera;

(b) Le limitate misure adottate per eliminare gli stereotipi nel sistema di istruzione, compresi i testi ed i curricula scolastici;

(c) La crescente influenza delle organizzazioni maschili nei media, rappresentando stereotipi delle donne negativi[16].

Similmente il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (GREVIO), nel suo rapporto sull’Italia del 2020, scrive: “Pur riconoscendo i progressi fatti nella promozione dell'uguaglianza di genere e dei diritti delle donne, il rapporto rileva che la causa dell'uguaglianza di genere incontra resistenze in Italia. Il GREVIO esprime la sua preoccupazione per i segni emergenti di una tendenza a reinterpretare e riorientare le politiche di uguaglianza di genere in termini di politiche familiari e di maternità. Per superare queste sfide, GREVIO ritiene essenziale che le autorità continuino a progettare e ad attuare efficacemente politiche di uguaglianza di genere e di empowerment delle donne che riconoscano chiaramente la natura strutturale della violenza contro le donne come manifestazione di relazioni di potere storicamente ineguali tra donne e uomini[17].

Ebbene chi occupa il ruolo di giudice o avvocato non vive in un mondo diverso da quello descritto da questi rapporti, vive in questo stesso mondo e perciò è intriso/a della stessa cultura che non lo/la dota di quegli strumenti concettuali e interpretativi indispensabili per riconoscere la violenza maschile contro le donne, che non si imparano nei manuali di giurisprudenza. È così che, in nome del libero convincimento del giudice, si protrae un contesto culturale discriminatorio nei confronti delle donne.

 

Femminicidio: un reato che non esiste

Anche quando siamo morte i tribunali continuano ad interrogarsi sulla bontà del nostro comportamento e su quanto possa essere stato questo a determinare l’azione omicida del nostro compagno o ex. Naturalmente dobbiamo partire dal presupposto che in Italia il reato di femminicidio non esiste; esiste l’omicidio aggravato dalla relazione intrattenuta con la vittima. Quando Massimo Sebastiani – l’uomo definito “gigante buono” e “innamorato” dalla stampa – è stato condannato (a 20 anni di reclusione) per aver ucciso Elisa Pomarelli, la stampa ha commentato che la sentenza non l’aveva riconosciuto come femminicidio: ciò costituisce da un lato ignoranza e dall’altro cattiva informazione, perché nessuna Corte poteva e può condannare Massimo Sebastiani per femminicidio; in questo caso l’affermazione si riferiva al fatto che non avendo Sebastiani una relazione sentimentale con Elisa Pomarelli non gli è stata riconosciuta – correttamente, è chiaro – la corrispondente aggravante. Ma l’uccisione di Elisa Pomarelli è un femminicidio proprio perché Sebastiani l’ha uccisa per il suo “no”, per il suo rifiuto, perché Elisa non ha accondisceso alle sue richieste [18].

Propongo un paio di esempi – ma tanti se ne possono fare – per analizzare il linguaggio che viene utilizzato dai tribunali per descrivere la nostra morte e le sue cause.

La Corte d’Assise d’appello di Bologna, nel novembre 2018 - con una sentenza che ha determinato un certo scalpore mediatico - ha riconosciuto le attenuanti generiche all’imputato condannato per l’omicidio della sua fidanzata, motivando in questo modo: “Sebbene quel sentimento [la gelosia N.d.A.] fosse certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come ‘una soverchiante tempesta emotiva e passionale’, che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale[19].

Similmente il GUP di Genova, nel dicembre dello stesso anno, dopo aver descritto la relazione tra i coniugi come “tormentata”, evidenziato i tradimenti della moglie e il di lei “atteggiamento ambiguo”, ha riconosciuto le attenuanti generiche all’imputato ritenendo che egli “non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo, l’ha indotto a uscire dal volontario isolamento in cui si era ritirato proprio per lasciare spazio alle sue scelte, con la promessa di un futuro insieme, ma tutto questo invano[20].

Da questo genere di sentenze emergono due problemi. Il primo problema è che attribuire valore attenuante alla “tempesta emotiva” significa attribuirlo proprio all’origine del problema, in qualche modo legittimandolo, perché è proprio quella spinta identitaria di dominio del maschio che determina la violenza contro la donna, perché è proprio l’espressione di autonomia della donna ad essere inaccettabile per l’uomo violento, che quindi manifesta la sua aggressività in modo tutt’altro che irrazionale. Ciò che si contesta di queste sentenze non è l’applicazione tecnica delle norme penali sulla valutazione delle prove assunte nel processo, tra cui la perizia psichiatrica che utilizza l’espressione “tempesta emotiva”; il problema non è la tecnica matematica di aumento o diminuzione della pena, bensì la considerazione che di questo fatto i giudici hanno avuto. Dietro ad ogni tempesta emotiva c’è un’idea del mondo, un pregiudizio sui rapporti umani, e quindi la causa dell’agire è da ricercare nella cultura, nella mentalità di quel soggetto, non nel turbamento concomitante che ne è piuttosto la conseguenza. Ma, come si osservava prima, anche chi giudica è portatore e portatrice di quel radicato pregiudizio che in qualche misura colpevolizza sempre la donna, che non si è comportata nel modo in cui ci si aspettava da lei: ha tradito, ha lasciato, non ha accondisceso, ha addirittura illuso. Se si provasse ad invertire i ruoli, il risultato valutativo sarebbe diverso.

Il secondo problema che si osserva leggendo le sentenze relative a femminicidi è che si tende a dare molta rilevanza alle parole dell’imputato, soprattutto quando ha confessato almeno in parte il delitto. “La vittima sembra quasi una figura fantasmatica che gioca un ruolo di comparsa, emergendo solo in relazione a quanto da altri soggetti, a suo proposito viene narrato; di lei, come persona (e non solo come donna uccisa) non conosciamo nulla: spesso neanche età, professione, livello di istruzione. Ciò che sappiamo è il rapporto che la legava al suo assassino[21]. Testimoni, prove materiali e oggi prove derivanti dalle tecnologie della comunicazione sono lì per quello: per ricostruire, per ricostruirci. Tuttavia è proprio la ricostruzione dell’uomo che spesso viene presa per buona, specie quando fornisce elementi per valutarne una minore responsabilità, per esempio escludendo la premeditazione. Nei casi sopra richiamati i sentimenti di rabbia e delusione degli uomini emergono dalle loro sole parole. Eppure le loro parole andrebbero lette alla luce delle norme processuali che consentono all’imputato di mentire nel processo, e di ridimensionare più che riesce la sua posizione. Paradossalmente accade invece che si dia piena rilevanza alle sue ricostruzioni fattuali e psicologiche per attenuarne la responsabilità e quindi il trattamento sanzionatorio. Emblematico è il fatto che – in base alla recente indagine di Alessandra Dino – le sentenze sono meno severe nei confronti degli imputati che hanno ucciso donne con le quali avevano un legame sentimentale o familiare, mentre applicano pene più gravi ad assassini estranei alla vittima, quando proprio il legame dovrebbe – in base al buon senso e anche in base alla legge – aggravare la pena: questa differenza sul piano della severità della condanna fa sospettare “la persistenza di una qualche forma se non di giustificazione almeno di indulgenza verso il cosiddetto delitto passionale[22].

L’avvocata Giulia Bongiorno riassume dicendo che viviamo in un sistema giuridico e giudiziario così irrazionale che “crea sfiducia nelle vittime e non è un deterrente per chi delinque[23].

Il racconto del femminicidio nei tribunali, osserva Alessandra Dino, è “il risultato di un processo di ibridazione tra campi simbolici diversi, con frequenti sconfinamenti in saperi altri e con riferimenti frequenti al ‘sentire comune’[24]. Il problema di fondo, come chi ha studiato giurisprudenza sa bene, è che il processo e la giustizia (con la “g” minuscola) si confrontano con le prove e non con la verità. La verità non abita nelle aule dei tribunali. Lì abitano leggi, procedure, carta (un sacco di carta!), ma non la verità.

 

Giustizia e progresso culturale

Le sentenze non solo giudicano fatti storicamente accaduti, ma veicolano anche messaggi culturali alla società, possono contribuire ad orientare e favorire o piuttosto ad ostacolare lo sviluppo di positivi processi culturali della nazione sui cui comportamenti sono chiamate a giudicare. Si pensi, per esempio, a quanto la giurisprudenza ha fatto e sta facendo in tema di fine-vita: con una serie di processi – gli ultimi quelli che hanno visto come imputato Marco Cappato, ma prima quelli riguardanti Eluana Englaro e Piergiorgio Welby – la giurisprudenza ha colmato un vuoto di diritti che il legislatore si ostina a non colmare – nonostante la sollecitazione della Corte Costituzionale -, andando incontro al sentimento ormai ampio della nazione che non sente più come appropriata quell’artificiale forma di sopravvivenza biologica creata dalle tecnologie di rianimazione, o che almeno ritiene che quell’artificiale forma di sopravvivenza non possa essere imposta ma debba essere una scelta individuale. In tema di violenza maschile contro le donne la strada invece è ancora lunga: purtroppo ancora non c’è stata quell’evoluzione di coscienze collettiva che giudicherà sbagliata sempre e comunque la violenza di genere, che considererà violenza tutti i comportamenti violenti, e che soprattutto considererà colpevole di quei comportamenti solo chi li agisce e non chi li subisce, così come accade per tutti gli altri reati previsti dal nostro ordinamento. Ed è impensabile che questo così profondo retaggio culturale non si riversi anche nelle sentenze di quei giudici e quelle giudici che si credono immuni da pregiudizi. Paola Di Nicola Travaglini ci dice che per riuscire ad adottare questa nuova visione del mondo è necessario indossare le “lenti di genere”, cioè guardare la vita quotidiana con la consapevolezza delle millenarie discriminazioni subite dalle donne e dell’artificiale divisione dei ruoli che ci è stata imposta, accettando il fatto che raggiungere tale consapevolezza è un esercizio quotidiano assai impegnativo. Eppure doveroso, aggiungo io.

La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio – all’esito di un’indagine condotta presso Procure, Tribunali, Consiglio superiore della magistratura, Consiglio nazionale forense e Ordine degli psicologi – ha denunciato “una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene «letta» correttamente. Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro «sistema Paese» sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza. […] “È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una parte – purtroppo ancora minoritaria – della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura culturale.”[25]

Il grave problema che affligge, quindi, il nostro sistema giudiziario, e tutti i soggetti in esso coinvolti – magistrati inquirenti e giudicanti, avvocati, periti – è una insufficiente consapevolezza della complessità di questa materia e quindi della necessità di una formazione specifica. I tavoli dei giudici sono pieni di manuali sui reati tributari, ma non di testi che spieghino la Convenzione di Istanbul. Eppure è impensabile riuscire ad adottare le lenti di genere se ci si ostina a ritenere che per capire come va il mondo e come vanno le relazioni tra uomini e donne non sia necessario uno studio specifico, che bastino il senso comune e la legge. La legge non basta affatto, e certamente non è lo strumento per risolvere il problema. Un problema culturale può trovare la sua soluzione esclusivamente nella cultura che quel problema ha prodotto.

La giudice Paola Ortolan ci ricorda che “una qualità che non deve mancare, a trent’anni come a cinquanta, è la capacità di accoglienza delle persone, dei loro racconti e dei loro vissuti[26]. Certo risulta difficile mantenere quest’atteggiamento quando la propria scrivania è piena di fascicoli e il mestiere di giudice diventa sempre più legato a numeri di produzione: processi da chiudere, sentenze da depositare, efficienza a fine anno da dimostrare. È difficile, eppure necessario, ricordarsi che in ogni fascicolo non c’è solo carta, ma ci sono persone, vite, spesso vite distrutte, che attendono qualcosa che possa somigliare a giustizia.

Non posso quindi concludere senza qui ricordare le parole di una grande donna, la giudice Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema statunitense, che ci ha lasciato l’anno scorso con questo manifesto: “Io non chiedo favori per il mio sesso, chiedo solo che smettano di calpestarci!

 

[1] L. Terragni, Le definizioni di violenza, in C. Adami (a cura di), Libertà femminile e violenza sulle donne. Strumenti di lavoro per interventi con orientamenti di genere, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 32

[2] Cfr. Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

[3] M. Dell’Anno, Troppo giusto quindi sbagliato, Le Mezzelane, Santa Maria Nuova (AN), 2019

[4] M. Dell’Anno, Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio, LuoghInteriori, Città di Castello (PG), 2021

[5] Più tecnicamente si dovrebbe in questo caso parlare di “femicidio” – uccisione di una donna in quanto donna -, ma utilizzo il vocabolo più in uso in Italia “femminicidio”, sia per immediata comprensibilità, sia per evidenziare che ogni uccisione di donna non nasce dal nulla, c’è sempre un prima in cui è emersa una forma di violenza fisica o psicologica.

[6] Corte EDU, Caso J.L. v. Italia (ricorso n. 5671/16), Sentenza 27/05/2021, par. 140. Violazione dell’articolo 8 CEDU.

[7] Ibidem, par. 142.

[8] Ibidem, par. 136. Nel testo ufficiale francese: “regrettables et hors de propos”.

[9] Sentenza Corte d’appello di Firenze, 4/03/2015 n. 858

[10] Corte EDU, Caso J.L. v. Italia (ricorso n. 5671/16), Sentenza 27/05/2021, par.141.

[11] A. De Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori, Milano, 2021 [ed. orig. 1949], pp. 522-523

[12] Sentenza Tribunale di Ravenna, sez. penale, 31/03/2017 n. 527.

[13] P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima imperfetta, in Questione Giustizia 20/07/2021, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-edu-alla-ricerca-dell-imparzialita-dei-giudici-davanti-alla-vittima-imperfetta

[14] P. Di Nicola, La mia parola contro la sua, HarperCollins, Milano, 2018, p. 8

[15] P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima imperfetta, cit.

[16] Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, Osservazioni conclusive relative al VII Rapporto periodico dell’Italia, CEDAW/C/ITA/CO/7, 4/07/2017

[17] GREVIO Baseline Evaluation Report Italy, 13/01/2020

[18] Cfr. M. Dell’Anno, Femminicidio sì, femminicidio no, in NoiDonne, https://www.noidonne.org/articoli/femminicidio-s-femminicidio-no-17105.php

[19] Sentenza Corte d’Assise d’Appello di Bologna, 14/11/2018 n. 29; cassata con rinvio dalla Suprema Corte – sez. 1 n. 2692 del 8/11/2019. Nel nuovo giudizio la Corte d’Assise d’appello ha confermato la sentenza del GUP di Rimini 11/12/2017.

[20] Sentenza GUP presso il Tribunale di Genova, 5/12/2018 n.1340.

[21] A. Dino, Femminicidi a processo, Meltemi, Milano, 2021, p. 49.

[22] Ibidem, p.66.

[23] G. Bongiorno, Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta, Rizzoli, Milano, 2015, p. 34

[24] A. Dino, Femminicidi a processo, cit, p.17.

[25] Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria, approvato nella seduta del 17/06/2021

[26] P. Ortolan, La toga addosso, Edizioni San Paolo, Milano, 2018, p. 112

G. Bongiorno, Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta, Rizzoli, Milano, 2015

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M. Dell’Anno, Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio, LuoghInteriori, Città di Castello (PG), 2021

M. Dell’Anno, Femminicidio sì, femminicidio no, in NoiDonne, 26/08/2020,

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