Il potere discrezionale del governo e i limiti del controllo giurisdizionale sul decreto di scioglimento ex articolo 143 TUEL
L’azione del legislatore, in tema di politiche di contrasto alla criminalità di tipo mafioso e similare mediante poteri amministrativi, si è mossa sostanzialmente in due direzioni, la prima, quella del controllo esterno sulle imprese, infiltrate o condizionate dalla mafia, che rivestano o siano in procinto di assumere il ruolo di parte di un rapporto giuridico con una P.A., la seconda, quella del controllo esterno sugli enti territoriali.
La prima funzione fa capo ai poteri del prefetto di interdizione delle imprese (artt. 90 e ss. d.lgs n. 159/2011);
la seconda (di cui agli artt. 143-146 TUEL), individua una particolare ipotesi di scioglimento di enti locali e, insieme agli artt. 141 e 142, completa il sistema di controllo sugli organi” delineato nel T.U. degli enti locali.
La disciplina dello scioglimento per mafia dei comuni è un tema ampiamente discusso sia dai giuristi che dalla politica, data l’importanza che il fenomeno è andato assumendo nel corso degli anni.
Controllare un ente locale vuol dire ipotecare la vita di una città, gli appalti, i lavori, le scelte edilizie. Ma non solo. La mafia è interessata ad occupare gli enti pubblici, non solo per il possibile rientro economico, ma anche per affermare il proprio prestigio e dimostrare la sua forza nei confronti della comunità.
Lo scioglimento delle amministrazioni locali conseguente a fenomeni di infiltrazione e condizionamenti da parte della criminalità di tipo mafioso o similare è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico nel 1991, in uno dei momenti più difficili della lotta tra Stato e mafia.
Dal 1991 ai nostri giorni sono stati emanati nel complesso 511 decreti ex articolo 143 TUEL; di cui 326 decreti di scioglimento, solo 26 dei quali annullati dai giudici amministrativi, oltre a 185 decreti di proroga, che hanno interessato 62 amministrazioni locali. La reiterazione, anche a brevi intervalli di tempo, degli scioglimenti ha dimostrato che non sempre la misura si è dimostrata un rimedio adeguato alla lotta contro la criminalità organizzata.
Tenuto conto delle proroghe, gli enti locali complessivamente coinvolti nella procedura sono stati 276. Le quattro regioni maggiormente coinvolte sono state la Calabria, la Campania, la Sicilia e la Puglia, ma il virus “mafia” non conosce limiti territoriali.
Un fenomeno in espansione anche nel Nord Italia. Il primo comune del nord sciolto per mafia è stato il comune di Bardonecchia nel 1995. Rocco Lo Presti ne fu il maggior responsabile. Muratore di Marina di Gioiosa Ionica venne mandato al soggiorno obbligato nel 1963 e per quasi quarant’anni ha controllato l’edilizia e il commercio con bar, ristoranti e sale giochi. Ancora oggi la Val di Susa è la prima zona di infiltrazione mafiosa in Piemonte.
Nonostante i numeri ci raccontino di uno scenario quasi completamente incentrato nelle regioni del sud, è anche vero che i numeri nel nord Italia stanno crescendo. Tra il 2001 e il 2009 non ci sono stati comuni sciolti per mafia, dal 2010 al 2017 ce sono stati 6. Una crescita che, per quanto minima, dimostra l’inizio di una nuova fase, che vede la criminalità organizzata protagonista anche nelle regioni del nord.
Lo scioglimento, ad eccezione di Reggio Calabria nel 2012, ha interessato sempre comuni di piccole dimensioni. Questo per due ordini di ragioni:
1) nei grossi centri la presenza della criminalità è più difficile da individuare, come è stato ampiamente messo in luce dalle indagini nel caso del sopracitato comune;
2) i grossi centri hanno forti agganci sia a livello regionale che nazionale.
La scelta, quindi, deve tener conto anche di delicati equilibri politici. Si rammenti, a questo proposito, come esempio fortemente indicativo, la vicenda, nota come “mafia capitale”, sorta a proposito di Roma Capitale. La verosimile sussistenza dei presupposti per lo scioglimento del massimo organo collegiale della città metropolitana di Roma non ha avuto l’esito prevedibile per ragioni diverse da quelle semplicemente tecniche.
In presenza di un quadro indiziario di infiltrazione o di condizionamenti mafiosi, la scelta tra l’adozione della misura interdittiva, con i gravissimi effetti sulla capacità dell’ente locale, e la decisione di non intervento, con conseguente abbandono dell’ente in balia dell’assalto della mafia, non può non apparire quanto mai delicata.
Per questo, il legislatore ha deciso di intervenire, con il D.L. n. 113/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge 1.12.2018, n. 132, introducendo all’articolo 143 il nuovo comma 7bis, che prevede che, nel caso in cui non siano stati riscontrati i presupposti per lo scioglimento del consiglio comunale, ma una situazione di diffusa mala gestio connotata da illegittimità, ritardi o mancata adozione di atti in relazione alle diverse procedure amministrative di competenza degli enti locali, su iniziativa del prefetto debba essere avviato un procedimento che potrà sfociare anche nella nomina di un commissario ad acta, in sostituzione dell’amministrazione locale inadempiente.
Nello schema della sentenza della Corte Costituzionale n. 103/1993, ribadito anche nella più recente sentenza n. 182/2014, avente ad oggetto la questione di costituzionalità della norma di cui all’articolo 135, comma 1, del D.lgs n. 104/2010 (C.P.A.), che attribuisce al Tar del Lazio la competenza funzionale relativamente alle controversie relative a provvedimenti ex articolo 143, lo scioglimento consiliare doveva considerarsi una misura governativa straordinaria di carattere sanzionatorio, avente come diretti destinatari gli organi elettivi, anche se caratterizzata da rilevanti aspetti di prevenzione sociale per la sua ricaduta sulle comunità locali, che la legge intende sottrarre all’influenza della criminalità organizzata.
Secondo detto schema, il potere di scioglimento degli organi elettivi era previsto al ricorrere di alcune situazioni o evenienze e del nesso di causalità tra le stesse. Pertanto, se era vero che la sussistenza di “collegamenti” o “condizionamenti” poteva essere collegata ad elementi di fatto insufficienti per l’esercizio dell’azione penale o per l’adozione di misure di prevenzione, era altrettanto vero che detti elementi vengono ad assumere rilievo solo se collegati causalmente con la compromissione della funzionalità dell’organo collegiale ovvero con un grave e perdurante pregiudizio per la sicurezza pubblica.
Secondo il Consiglio di Stato, invece, la misura di cui all’articolo 143 costituisce una misura straordinaria di prevenzione, basata sull’accertata diffusione sul territorio della criminalità organizzata e sulla ricorrenza di collegamenti, diretti o indiretti, degli amministratori con la medesima ovvero di forme di condizionamenti nei confronti di questi ultimi, che abbiano determinato la carente funzionalità dell’ente in uno o più settori sensibili agli interessi della criminalità organizzata, ovvero una situazione di grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica.
La connotazione preventiva attribuita dal giudice amministrativo allo scioglimento comporta il riconoscimento di un’amplissima potestà discrezionale attribuita dal legislatore al prefetto e agli altri organi competenti.
Non solo lo scioglimento, infatti, potrebbe conseguire alla verifica del malfunzionamento dell’organo collegiale cagionato dal collegamento dei consiglieri con l’organizzazione mafiosa o dal loro condizionamento, ma, configurandosi come una misura straordinaria, per fronteggiare un’emergenza straordinaria, appare giustificato anche sulla base di un giudizio prognostico di verosimiglianza.
Come anche di recente ribadito dal Consiglio di Stato (cfr. sent. n. 1349/2019), invero, il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato, non in base al criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, ma in base al criterio del “più probabile che non”, alla stregua di una regola di giudizio che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è anzitutto il fenomeno mafioso.
L’aver ricondotto lo scioglimento per mafia nell’ambito delle misure di prevenzione comporta delle conseguenze importanti sotto due profili.
A livello procedimentale, dette misure postulano un’elevata “amministrativizzazione”, alla quale consegue la negazione delle principali garanzie del giusto procedimento, anzitutto sotto l’aspetto dell’assenza di contraddittorio nella fase istruttoria.
La Commissione di accesso, nominata ai sensi del comma 2 dell’articolo 143, opera unilateralmente e senza un confronto con i destinatari del provvedimento. La mancanza è, tuttavia, ampiamente giustificata dalla circostanza che si tratta di una misura che si caratterizza per il fatto di costituire la reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine e alla sicurezza pubblica, e pertanto si rendono indispensabili interventi rapidi e decisivi.
La giurisprudenza ha avuto più volte modo di precisare che l’adozione di un provvedimento ai sensi dell’articolo 143 non è soggetta al generale obbligo di cui all’articolo 7 legge n. 241/90 dell’invio della comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari, nella fattispecie gli amministratori degli enti locali, indicati all’articolo 77, comma 2, che vedono cessare la propria carica per effetto dello scioglimento. “La natura stessa dell’atto di scioglimento dà, infatti, ragione dell’esistenza, oltre che della gravità, dell’urgenza del provvedere”.
È stato anche fatto rilevare come non si veda quale utilità potrebbe avere la partecipazione al procedimento degli interessati, dato che l’intera istruttoria rientra tra le categorie di documenti inaccessibili per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero a fini di prevenzione e repressione della criminalità.
La conoscibilità degli atti del procedimento è parziale persino nella fase successiva all’adozione del provvedimento,
Il TAR del Lazio ha ritenuto che il mancato spontaneo deposito in giudizio da parte della Amministrazione degli atti del procedimento non comporti l’applicazione del principio di cui all’articolo 64, comma 2, C.P.A. (c.d. principio di non contestazione) a ragione della loro natura “riservata”; l’esibizione di tale tipologia di atti, infatti, può essere disposta solo dal giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri istruttori.
Il Consiglio di Stato ha in linea generale chiarito (cfr., per tutti, Cons. St., III, 6 marzo 2012 n. 1266; 14 febbraio 2014 n. 727) che, dalla natura di atto preventivo e cautelare dello scioglimento ex articolo 143 discende che i termini previsti dalla predetta norma non hanno natura decadenziale. Invero, non v’è connesso loro alcun effetto caducatorio o di estinzione di una potestà che il Prefetto ben potrebbe esercitare avendo “... comunque diversamente acquisito gli elementi di cui al comma 1.
Detti termini, del resto, non mirano a garantire l’efficace difesa degli amministratori locali a fronte d’una pari puntuale contestazione di addebiti, come accade, ad es., per i termini posti a tutela dell’incolpato nel procedimento disciplinare, i quali sono inderogabili.
Così come decadenziale è il termine complessivo posto per la conclusione di detto procedimento, laddove tale non sembra essere il termine ex comma 3, posto al Prefetto per formulare la proposta di scioglimento in base alla relazione. Del resto questo appare solo un falso problema a causa dell’ampiezza, da un lato e dell’indeterminabilità a priori, dall’altro, delle condotte condizionate o colluse con cui s’invera l’infiltrazione e che giustifica l’ampia terminologia normativa.
In passato, l’atto di scioglimento era stato qualificato come atto politico, non sottoponibile al vaglio del Giudice amministrativo, ai sensi dell’articolo 31, R.D. n. 1054 del 1924. La Corte Costituzionale ne ha escluso la natura politica, considerato che, con la fissazione dei presupposti del provvedimento, lo Stato ha già effettuato in sede legislativa le sue scelte politiche.
Il Consiglio di Stato ha definito lo scioglimento per mafia un atto di “alta amministrazione”, a causa della sua “forza”, che determina la prevalenza delle esigenze di contrasto alle mafie rispetto all’interesse (costituzionalmente protetto) alla conservazione degli esiti delle consultazioni elettorali.
Nel procedimento sono individuabili tre diverse fasi:
una prima operazione, consistente nell’accertamento degli elementi di fatto. Il prefetto è tenuto ad individuare ed accertare dei fatti concreti che, nel loro insieme, siano univoci nel rilevare collegamenti o condizionamenti con la criminalità organizzata;
una seconda operazione, di valutazione dei fatti accertati, al fine di determinare se siano o meno sintomatici di collegamenti “diretti o indiretti” degli amministratori con la criminalità organizzata, ovvero dimostrino forme di condizionamento degli stessi;
una terza, diretta a stabilire se i collegamenti o i condizionamenti provati, anche indiziariamente, siano di misura e intensità tali da “determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni (…), nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”.
L’apprezzamento giurisdizionale sul corretto esercizio del potere di scioglimento non può, quindi, essere limitato alla verifica dell’esistenza di un sufficiente quadro istruttorio, anche ben motivato, ma deve estendersi anche all’accertamento di una sostanziale ragionevolezza delle valutazioni operate, in quanto, diversamente opinando, potrebbe configurarsi il vizio di eccesso/sviamento di potere, per erronea interpretazione di elementi di fatto ed allontanamento dalla funzione tipica del potere.
La riforma del 2009, proprio in relazione a questa esigenza, ha posto come presupposto dello scioglimento l’esistenza di elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso degli amministratori locali e di forme di condizionamento degli stessi.
I fatti costituenti elementi sintomatici del condizionamento criminale devono essere, pertanto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; univoci, nel senso che rendano chiaramente manifesta la loro direzione agli scopi che la misura è intesa a prevenire; rilevanti, ossia idonei all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale (Cons. Stato, sez. III, sentenza 15 marzo 2016, n. 1038; id., n. 196/2016 e n. 4792/2015).
In base a quanto sopra esposto, può affermarsi che la natura e la finalità della misura in esame implichino due corollari:
a) l’ampiezza della potestà discrezionale di apprezzamento e valutazione degli elementi significativi di collegamenti diretti o indiretti, che, nondimeno, devono rivelare, anche solo secondo un giudizio di plausibilità (purché logico e attendibile), il condizionamento degli amministratori locali da parte delle consorterie mafiose. Ciò anche quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia, di per sé, sufficiente a determinare l’esercizio dell’azione penale o l’adozione di misure individuali di prevenzione, alle quali l’articolo143 TUEL non subordina il provvedimento di scioglimento del consiglio comunale;
b) il livello estrinseco e limitato del sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dei provvedimenti in questione, che deve arrestarsi nei limiti del vizio di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo, nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito, fermo restando che, in ogni caso, non può penetrare fino alla disamina del merito della scelta del commissariamento (Cons. St., sez. III, 6 marzo 2012, n.1266)..
Come affermato dal Consiglio di Stato, infatti: il livello istituzionale degli organi competenti ad adottare tale provvedimento garantisce l’apprezzamento del merito e la ponderazione degli interessi coinvolti.
L’amplissima discrezionalità di cui gode il governo in materia gli permette, secondo la giurisprudenza, di dare rilievo a situazioni o eventi anche verificatisi a distanza di tempo, che siano tali da rendere - nel loro insieme - plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata (Cons. di Stato, Sez. III, 2 luglio 2014, n. 3340).
Rientrano tra gli indizi di una infiltrazione mafiosa i vincoli di parentela o affinità, che si è ritenuto possano agevolare l’influenza dei boss anche se la persona, amministratrice e parente, sia incensurata e stimata in ambiente locale; i rapporti di amicizia o di affari;
le frequentazioni che presentino determinate caratteristiche di tipo e continuità;
un atteggiamento di debolezza, omissione di vigilanza e controllo, incapacità di gestione della “macchina” amministrativa da parte degli organi politici, che sia stato idoneo a beneficiare soggetti riconducibili ad ambienti “controindicati;
il ripetuto ricorrere ad affidamenti diretti e fiduciari, dietro i quali vi sarebbero state non già ragioni di urgenza, bensì una “programmata volontà” di avvantaggiare le imprese affidatarie con il conseguimento di utilità da parte di dipendenti infedeli, anche con la stipula di subcontratti con ditte riconducibili a loro familiari, il mancato rispetto del principio di rotazione negli appalti, ed altre pratiche che, seppure non manifestamente illegittime, creino un sospetto di “mafiosità”.
Tanto più, se tali vicende sono inquadrate in un particolare contesto ambientale notoriamente caratterizzato dalla pervasiva presenza di una locale organizzazione criminale, profondamente radicata nel tessuto economico e sociale.
In conclusione, deve osservarsi come l’attività criminale organizzata, nel tempo, si sia evoluta in un quadro diversificato di strategia, rispetto alle condizioni territoriali dei luoghi, della classe politica e quant’altro vada ad emergere nella collettività.
La principale difficoltà è sicuramente quella di individuazione del fatto illecito, risultando evidente che, nelle moderne società, il fenomeno delle infiltrazioni mafiose ha assunto forme eterogenee e sempre più insidiose e difficili da identificare, anche a causa dei complessi rapporti tra il potere mafioso e quello politico.
Spetterà, dunque, al legislatore adeguare la normativa ai nuovi e sempre più pericolosi attacchi della criminalità organizzata, conciliando le esigenze garantistiche con la necessità di eventuali ulteriori restringimenti e limitazioni, per evitare il dilagare del fenomeno, come richiesto dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani.