Il privilegio. Dal sistema di Suárez alla disciplina in vigore

Il privilegio. Dal sistema di Suárez alla disciplina in vigore
Premessa: la distinzione tra privilegium generale e privilegium speciale
Illustrato il retroterra storico dell'istituto del privilegio, restano ora da esaminare il suo presente ed il passato prossimo, che, come spesso accade in diritto canonico, comincia con l'elaborazione sistematica di Suárez, cui, almeno a mio parere, si deve riconoscere una coerenza capace di reggere alle critiche di Labandeira (e altri) menzionate nel precedente articolo.
Non è comunque inutile premettere brevi cenni sull'impalcatura concettuale che arriva allo stesso Suárez per il tramite di glossatori, decretisti e commentatori: pur nella relativa fluidità della terminologia, infatti, la costanza della tradizione attesta un saldo inquadramento del multiforme fenomeno, premessa necessaria della sistematizzazione ulteriore. In particolare, sebbene i canonisti usino poco l'espressione ius singulare, muovono da un quadro concettuale di riferimento del tutto affine agli studiosi della compilazione giustinianea: esistono i privilegi generali – applicabili ad intere categorie di persone – e quelli speciali ossia accordati a destinatari determinati;[1] nell'ambito di questa summa divisio, si propongono specificazioni ulteriori, secondo l'oggetto e gli effetti dei vari provvedimenti in discorso.[2] Il Cardinale Ostiense ha poi introdotto una categoria aggiuntiva tipica dei canonisti, quella di privilegia clausa in corpore iuris - riferendosi sia al diritto romano sia a quello canonico – per indicare quelli che, essendo inclusi in una compilazione ufficiale, anche se formulati come singolari debbono comunque intendersi estesi in omnibus similibus, salva indicazione contraria espressa;[3] l'espressione diventa poi di uso comune come sinonimo di privilegio generale la cui conoscenza si presume come quella delle leggi, una volta promulgate. Di ius singulare gli autori parlano specialmente riguardo ai privilegi generali,[4] per mancare sia l'appartenenza allo stesso genere sia le differenze specifiche rispetto al ius commune:[5] si tratta di leggi speciali, dotate della caratteristica della perpetuità, rispondenti all'utilitas particolare di una certa categoria (e non a qualità proprie di persone singolarmente determinate), ma nello stesso tempo in armonia con l'utilitas communis, perché altrimenti non si tratterebbe di vere leggi.
Alla summa divisio dei privilegi corrispondono diversità di disciplina notevoli: sebbene la concessione venga comunque fatta derivare da un atto della potestà legislativa (tali essendo al tempo considerati anche il rescritto e la dispensa), il privilegio generale ha carattere perpetuo, il singolare si estingue con la morte dei beneficiari; a quest'ultimo si può rinunziare, al primo no. Tuttavia, a mio parere non sarebbe corretto desumerne che si tratti di due istituti completamente diversi, accomunati in modo improprio sotto uno stesso nomen iuris che, così dilatato, quasi perderebbe ogni proprietà denotativa: mi sembra, piuttosto, che il tratto comune consista in un'esigenza di uniformità di trattamento che, nell'ambito canonico, corrisponde quantomeno all'intuizione di uno statuto comune a tutti i Christifideles, rispetto a cui le norme differenziatrici debbono iustificarsi in nome di una ratio che le riconduca ad armonia nonostante l'apparente disordine.
E lo dimostra molto bene proprio il sistema elaborato da Suárez.
Il Libro VIII del Tractatus de legibus
Il Dottore Esimio dedica al privilegium tutto il Libro VIII del Tractatus de legibus; ma già nel Libro I, trattando della definizione di lex e del necessario riferimento al bene comune, anticipa un punto molto importante, osservando che il privilegio soddisfa tale requisito, perché tra bene comune e bene privato non vi è un'opposizione necessaria, ma piuttosto un'armonia almeno tendenziale che fa scaturire quello da questo: “per il fatto stesso che ciascuna persona è parte della comunità, il bene di ciascuno, che non torna a danno di altri, è un vantaggio per la comunità intera”.[6] Le leggi che si occupano direttamente del bene privato, poi, in tanto si dicono “leggi”, in quanto considerino i destinatari come appartenenti ad una data condizione (pupilli, tutori...), o secondo l'origine (nobili), o membri anche futuri della tal famiglia, tratti che corrispondono alla perpetuità e alla destinazione comunitaria, almeno nel senso che questo bene si ritrova in molti[7] e che un'esigenza specifica di rationabilitas impone di accordare privilegi simili in situazioni simili. Inoltre, tutti questi provvedimenti impongono alla generalità dei sudditi almeno il dovere di rispettare quanto concesso; tuttavia, non hanno carattere di lex, per carenza dei predetti requisiti, quelli assunti pro o contro determinate persone, se soggetti a scadenza o destinati ad estinguersi con la morte dei beneficiari (1.14.5).
Poste queste premesse di sicuro momento e spessore, all'inizio del Libro VIII egli identifica subito il privilegium con la lex favorabilis, non nel senso generico che compete ad ogni legge giusta, ma “quae specialem favorem aliquibus concedit” (Premessa). Precisato, poi, che privilegium può dirsi anche l'atto concessorio,[8] ma che a lui interessa il contenuto, lo definisce “lex privata aliquid speciale concedens” (8.1.3), includendo il privilegio non perpetuo (8.1.2) e quello semplicemente praeter ius commune:[9] Bartolo e il Panormitano circoscrivono l'uso rigoroso di privilegium a quello contra ius, chiamando beneficium il praeter ius, ma la distinzione è respinta perché puramente nominale (8.1.5).[10]
Quanto alla forma dell'atto di concessione, di per sé la scrittura non è indispensabile, ma “suffiit voluntas et potestas principis satis declarata” (8.2.2); però, secondo le Regole della Cancelleria, le grazie pontificie non documentate per iscritto valgono soltanto in foro interno e la prova per testi è ammessa solo in caso di perdita del documento o privilegio non gravoso per terzi (8.2.3).
Posta la non scontata differenza tra fruitore del privilegio e suo titolare, l'Esimio suddivide il privilegium in personale e reale:[11] siccome quest'ultimo può inerire tanto ad un oggetto quanto ad un ufficio o status, si considerano reali quelli concessi agli Ordini collettivamente, ma anche ai singoli in quanto loro membri (8.3.3). Considerato poi che la differenza fondamentale consiste nella perpetuità,[12] ben si comprende perché, a suo dire, debba presumersi reale il privilegio che si risolve in un puro beneficio, personale invece quello contrario al diritto comune od odioso, perché lesivo di diritti di terzi o per essi gravatorio (8.3.8-9, 8.6.4). Invece, nel privilegio remunerativo, e convenzionale in genere, non opera alcuna presunzione, ma occorre attenersi ai termini della conventio (8.4.5 e 8.4.8).
Fonte del privilegio, peraltro, può essere anche la consuetudine, sia contra sia praeter ius, che è pienamente equiparata alla legge (8.7.6-7), posto che il concedente un privilegio deve avere la potestà legislativa (8.8) e il beneficiario essere un suo suddito (8.9.3-4); il privilegio scritto può essere accordato anche laddove è proibita la consuetudine contra legem, ma per contro lo si abolisce più facilmente (8.7.12-3). Tuttavia, solo il privilegio contra ius richiede la maturazione di una consuetudo contra legem nel tempo necessario secondo i casi, per quello praeter ius bastano i termini di prescrizione acquisitiva (8.7.14)
Dal canto suo, il privilegio scritto si concede in genere per rescriptum (8.12) e quindi consta di una richiesta, importante per stabilire la ratio anche in presenza di una clausola motu proprio, di un responso concessorio e di condizioni o limiti ad esso annessi; nella sua interpretazione ed applicazione, bisogna attenersi rigorosamente al tenore verbale e non si può estenderlona soggetti non espressamente indicati, soprattutto in quanto abbia carattere odioso (8.10), anche se possono esistere provvedimenti che “comunicano” privilegi già esistenti ad altri soggetti (8.16-7); tuttavia, l'accessorio si intende incluso nella concessione del principale, quando rientra nella ratio del privilegio, non vi sono norme di diritto comune in contrario e non ne risulta pregiudizio per alcun terzo (8.11). La clausola derogatoria espressa non è necessaria, se il contenuto è già di per sé contrario al diritto comune o del terzo; ma nel dubbio la deroga non si presume (8.14.4-5) e la clausola è sempre necessaria se, nella legge comune, ve n'è una di resistenza ai privilegi (8.14.6). similmente, la regola generale interpretativa è che, sebbene Odia restringi et favores convenit ampliari, il tenore letterale dell'atto non va esteso oltre il significato proprio delle parole, a meno che sia altrimenti impossibile attribuirgli un effetto utile; e in quest'ultimo caso potrà anche essere inteso in un senso sia improprio sia contra ius (8.22.3-6). Fermi questi principii, il privilegium favorabile o concesso motu proprio va interpretato in senso ampio, l'odiosum o contra ius in quello più stretto (8.27-8).
La giusta causa è necessaria per la liceità del privilegio, anche in quello praeter ius perché può comunque generare invidie e risentimenti, ma non per la validità, neanche in quello contra ius (8.21.2). Li invalida l'inganno nella petizione, a meno che la concessione non sia stata disposta motu proprio (8.21.4).
La cessazione della causa finale, per contro, provoca l'estinzione del privilegio contra ius commune vel tertii, ma solo se è perpetua e se il mutamento delle circostanze fa sì che l'uso di esso divenga positivamente ingiusto (8.30.5). inoltre, lo si perde per abuso, da intendersi in senso ampio, ossia come trasgressione dei limiti in esso imposti (abusus per excessum), o uso che lo fa diventare occasione di peccato per sé o per altri (abusus per occasionem) o infine per indegnità morale (8.36). Può, inoltre, essere revocato, anche quando ha natura contrattuale ed onerosa, se lo esige il bene comune (8.37).
Infine, il privilegio permanente per tractum successivum, cioè suscettibile di tradursi nel compimento di atti futuri (un diritto, una facoltà... non, invece, una dispensa dall'irregolarità ali Ordini, che è permanente ma, una volta concessa, esaurisce il proprio effetto nel renderne lecito lesercizio una volta per tutte), può venir meno anche per rinuncia, purché però chi ne fruisce ne sia il veroo titolare e non vi sia un pregiudizio per terzi nel cui interesse sia stato stabilito il privilegio, p.es. se un prelato rinunciasse alla libertas Ecclesiae (8.33.1-2); la rinuncia impropria, ossia il semplice non uso, è lecita in generale e non richiede formalità, ma la rinuncia propria richiede la manifestazione esteriore della volontà e l'accettazione del superiore, o anche del terzo nel cui interesse il privilegio è stato concesso (8.33.21).
Il Codice del 1917
Nella dottrina precodiciale non mancavano voci favorevoli a considerare i privilegi generali come leggi a tutti gli effetti;[13] tuttavia, il CIC 17 (cann. 63-79) ha mantenuto le due categorie tradizionali: se «i cc. 63-70 si riferivano in particolare ai privilegi singolari o concreti, concessi per mezzo di un particolare atto dall'autorità»,[14] ma il can. 71 ne distingueva quelli contenuti nel Codice (evoluzione naturale della categoria clausa in corpore iuris), il 72 §4 parlava proprio di privilegio concesso per modum legis e il 63 §1 prevedeva l'acquisto del privilegio a titolo derivativo, dunque per legittima consuetudine o prescrizione.[15]
In effetti, l'approccio dei codificatori è stato fortemente riassuntivo, mirando a fissare le linee generali e lasciare alla dottrina la specificazione dei dettagli; va però notato che, malgrado l'assenza di una definizione, per privilegium i canoni intendono sempre il contenuto.[16] La cura è andata, come sempre, alla soluzione di questioni disputate:[17] si chiarisce quando la comunicazione dei privilegi resta dipendente dal titolo originario e quando ne è slegata (cann. 64-5); il privilegio reale annesso ad un luogo distrutto rivive, se questo è ricostruito entro quarant'anni (can. 75). In generale, però, il Codice non fa che recepire le linee portanti del sistema di Suarez e basta un elenco molto sintetico per darne conto. Infatti:
- il privilegio si interpreta secondo il tenore suo proprio (can. 67); in caso di dubbio, prevale l'interpretazione stretta per quelli che si riferiscono a liti, ledono i diritti di terzi, derogano alla legge o sono stati richiesti per conseguire un beneficio ecclesiastico, tutti gli altri si interpretano in senso ampio (cann. 50 e 68); sempre, però, bisogna fare in modo che dal privilegio consegua un effetto utile;
- il privilegio si presume perpetuo (can. 70); ma quello personale segue la persona e con essa si estingue (can. 74);
- il non uso è libero, per il privilegio concesso soltanto in favore del destinatario, a meno che un obbligo non sorga da altra fonte (can. 69),[18] e il privilegio non si perde, però può aversi prescrizione, o anche rinuncia tacita, degli aspetti gravatori per i terzi (can. 76);
- l'estinzione per il venir meno della potestà del concedente si verifica solo se la concessione è avvenuta ad beneplacitum nostrum, o con clausola equivalente (can. 73);
- la rinuncia richiede l'accettazione del Superiore; il singolo non può rinunciare ad una concessione accordata ad una comunità, ma solo a quella in favore proprio, e neppure l'intera comunità lo può, se il privilegio è dato per modum legis o se la rinuncia comporta un pregiudizio per la Chiesa o per altri (can. 72);
- il privilegio cessa per scadenza dei termini, esaurimento del numero di casi per cui fu concesso, o se a giudizio del Superiore le circostanze sono mutate al punto di renderlo nocivo, o di renderne illecito l'uso (can. 77);
- la revoca avviene per legge generale, nel caso di privilegi contenuti nel Codice, o per atto contrario come nel caso dei rescritti (can. 71);
- chi abusa del potere concessogli per privilegio, merita di esserne privato (can. 78).
Le disposizioni, nel loro complesso, erano adatte a risolvere la maggior parte dei problemi concreti e si può dire che abbiano dato buona prova di sé; semmai, è diminuita la possibilità di farne concreta applicazione, poiché alla falcidia di privilegi già disposta con l'entrata in vigore del Codice se n'è aggiunta un'altra, anche più ampia, in occasione delle riforme postconciliari. In effetti, nel clima di “costituzionalizzazione” del diritto canonico, che sembrava prevalente negli anni '60/'70, il privilegio poteva ben sembrare un relitto destinato a scomparire;[19] ma la riforma del Codice ha compiuto scelte diverse, che lasciano largamente inalterata la disciplina di dettaglio, eppure innovano in modo radicale la concezione stessa dell'istituto.
La disciplina riformata [20]
Chi scorre i cann. 76-84 del CIC 83 nota subito la scomparsa dei privilegia generalia, che, non più menzionati, sono assorbiti nelle leggi; per effetto di similare silenzio, quelli derivanti da consuetudine rientrano tra le consuetudini; infine ma non da ultimo, gli acquisiti tramite prescrizione sono diritti in tutto e per tutto. Tutto questo si desume dalla definizione formale con cui il legislatore ha voluto aprire il Caput IV De privilegiis, per effetto della quale il nome di privilegium resta circoscritto ad una grazia concessa a persone determinate, fisiche o giuridiche (cfr. can. 76 §1), tramite un atto amministrativo singolare, il rescritto (cfr. cann. 35 e 59 §1).[21]
Peraltro, la natura dell'atto concessorio merita qualche considerazione in più: la qualifica di lex era già ritenuta impropria o analogica da svariati autori alla vigilia del CIC 17, ma i commentatori di esso lo ascrivono comunque alla potestà legislativa, per la sua capacità di derogare al diritto comune; Del Giudice per primo, e poi Giacchi, si sono pronunziati per la natura amministrativa e la tesi ha guadagnato consensi; si è affermata dopo la promulgazione del CIC 83, ma restano autorevoli voci contrarie, in particolare il Lombardía. Infatti, sebbene interpretazione e revoca seguano le regole dell'atto amministrativo (cfr. cann. 77 e 79), la potestà richiesta nel concedente è la legislativa, oppure il conferimento, da parte del legislatore, del potere di concedere privilegi al titolare di potestà esecutiva[22] (can. 76 §1; la seconda ipotesi sarebbe una legge delegata); inoltre, l'atto è contra vel praeter ius e non già vincolato alla legge (cfr. can. 38).
Nondimeno, si deve concludere che il privilegio, nella configurazione post-riforma, è concesso per atto amministrativo, ancorché nell'autore si richiedano la potestà legislativa o una delega specifica del legislatore.
Infatti, i cann. 76 sgg., in virtù del can. 75, si aggiungono alla disciplina dei rescritti, quando essi contengono un privilegio; questo consente di dire che, «per quanto riguarda i privilegi, l'autorità esecutiva competente è il legislatore. Non si tratta dell'esercizio della potestà legislativa, ma dell'esercizio della potestà esecutiva da parte del legislatore.».[23] La contrarietà al ius, poi, non vale certo illiceità, ma contrasto con una certa legge, rispetto a cui il privilegio si pone come deroga; però non legislativa, bensì fondata sulla legge, quella che abilita alla concessione (lo stesso dicasi per la dispensa). La clausola derogatoria, requisito legale, non costituisce esercizio di potestà legislativa. Vi sono, d'altronde, anche privilegi previsti dall'ordinamento, come la possibilità di celebrare seduti, che l'Ordinario può concedere, ex can. 930, ai Sacerdoti anziani o malati: non sono generali, perché la legge è solo abilitante, l'atto concessorio è il rescritto.
Infine, il Codice non esplicita che esso è «contra vel praeter ius commune, giacché o contraddice a ciò che è stabilito dal regime giuridico ordinario, oppure consiste in qualche diritto o potere che tale regime non concede»;[24] del resto, si tratta di una caratteristica comune anche alla dispensa. Non è, quindi, una norma oggettiva, ma una situazione giuridica soggettiva; «può appartenere alla specie del diritto soggettivo, se ha un soggetto passivo e un oggetto determinato, o alla specie della potestà, in caso contrario.»[25] (cfr., rispettivamente, i cann. 199 §2 e 84). Né la permanenza né l'obbligo di rispetto erga omnes bastano a qualificarlo norma obiettiva.[26] Rimane, tuttavia, una forma di indisponibilità: il can. 80 §2 afferma la possibilità, per il singolo persona fisica, di rinunziare al privilegio concesso soltanto in proprio favore, ma a contrario implica che essa non è possibile in tutti gli altri casi. Il che si giustifica benissimo, sol che si pensi che la situazione giuridica, benché di favore, nasce da un provvedimento (e infatti la rinuncia richiede sempre l'accettazione del Superiore: cfr. can. 80 §1).
Per il resto, le novità sono assai limitate – scomparsa della comunicazione, da intendersi ormai come concessione pura e semplice senza necessità di disciplina speciale; abrogazione della rinuncia tacita, incompatibile con il nuovo can. 80 §1; ampliamento del tempo entro cui si può far rivivere il privilegio locale... - e la disciplina ricalca la precedente:
- si reputa implicita la distinzione tra il privilegio gratuito e l'oneroso, che importa obblighi per il beneficiario;[27]
- il privilegio si presume perpetuo se non si prova il contrario (can. 78 §1),[28] per esempio tramite la clausola ad beneplacitum nostrum o altra equivalente (can. 81);
- è personale, oppure reale quando viene annesso ad un luogo (chiesa...) o ad un oggetto (l'altare privilegiato, prima della riforma delle indulgenze);
- il privilegio reale si considera perpetuo, salvo il caso di distruzione; ma se il luogo è ricostruito entro cinquant'anni, il privilegio rivive (can. 78 §3).
La giurisprudenza della Segnatura Apostolica
Sono edite solo due decisioni del ST in materia di privilegi. La prima,[29] resa su ricorso di un'associazione di chierici beneficiati della Cattedrale di Lérida, riguarda il decreto con cui la S.C. per il Clero, su richiesta del Vescovo, sospendeva il diritto di presentazione di tali benefici e anche la loro collazione, «donec aliter providebitur», e ordinava che i relativi redditi fossero interamente consegnati al Vescovo stesso. Secondo il ST, non sussiste alcuna violazione dei diritti: il m.p. Ecclesiae Sanctae fa bensì salvi i privilegi onerosi, finché non vadano a buon fine le trattative con i titolari per farli cessare, ma consente di sospenderne l'esercizio, soprattutto se necessario per assicurare l'equa distribuzione dei redditi tra i Sacerdoti, che esso stesso prescrive. E poiché i ricorrenti percepiscono somme di gran lunga maggiori degli altri beneficiati e dei Canonici, ma, diversamente da loro, non svolgono alcun servizio liturgico (che pur sarebbe il fine dell'Associazione), l'esigenza di riequilibrio è palese.
Più interessante la sentenza successiva, che verteva su un privilegio plurisecolare, accordato da Clemente VII nel 1526.[30] La relativa Bolla unisce in perpetuo Santuario e ospizio per pellegrini, di proprietà della Confraternita ricorrente, ad essa affidando l'amministrazione di tutti i beni e proventi, senza necessità di licenza del Vescovo, con l'obbligo di provvedere alle spese di manutenzione e agli arredi per il culto (nonché con indulgenze per i donatori); le accorda il diritto di presentazione di rettori e cappellani; dichiara nulla qualunque sottrazione dei beni predetti per fondare altre istituzioni o iniziative di apostolato; sottrae a tutti i giudici, inclusi i Cardinali, «quamvis facultatem iudicandi et interpretandi aliter has dispositiones, sub poena nullitatis, easque salvas vult contra omnes alias».[31]
Ma, il 14 settembre 1981, il Vescovo, secondo il diritto comune, nomina motu proprio un rettore per il santuario e gli affida l'amministrazione dei beni, separando questa e il patrimonio da quelli della Confraternita (dell'attuazione pratica incarica una Commissione mista). Il 18 luglio 1984, la Congregazione per il Clero conferma il decreto. Il ST, prontamente adito, accorda la sospensiva e la conferma, rigettando un ricorso del resistente.
In sede di decisione, il Collegio, in iure, ricorda che le Confraternite sono state disciplinate da Clemente VIII con la Cost. Quaecumque (1604), che accordava agli Ordinari diritto di visita e di vigilanza sull'amministrazione dei beni, e dal CIC 17, che, tra l'altro, prescriveva la separazione dei patrimoni solo nelle chiese non di proprietà della Confraternita (can. 717 §2). Ritenuta provata l'esistenza del privilegio pontificio a termini di Bolla, deve ritenersi abrogata dal Tridentino l'esenzione dal diritto di visita dell'Ordinario e dall'obbligo di rendiconto, ma non così il diritto di presentazione, fatto salvo anche dal nuovo CIC, perché il m.p. Ecclesiae Sanctae, n. 18, ha fatto cessare solo i privilegi gratuiti, non gli onerosi, e questo è stato accordato proprio in vista degli oneri da sostenere ad culti incrementum; circa la separazione dei beni, il nuovo can. 319 enuncia il principio “administratio spectat ad dominum”. Il Vescovo non ha minimamente menzionato la Bolla; la Congregazione, pur menzionandola, non l'ha tenuta in nessun conto, quindi ha errato in procedendo (pur avendo rispettato il diritto di difesa) e in decernendo. La proprietà del Santuario e dell'ospizio è da sempre in capo alla Confraternita e costituisce la ragione dell'unione perpetua disposta da Clemente VII; quindi la Congregazione «separat quod Summus Pontifex coniunxit, idque absque mandato speciali Pontificio; et insuper rationem essentialem Bullae ipsius negavit.». Non si sostengono né la separazione del patrimonio, né quella dell'amministrazione, né la libera collazione degli uffici, ma solo il diritto di vigilanza dell'Ordinario, d'altronde riconosciuto negli Statuti. Se poi c'erano ragioni di abuso o di inopportunità che militavano per la revoca del privilegio, il Vescovo non le ha sottoposte alla S. Sede e il ST non può conoscere «de merito pastorali causae».[32]
Quali margini per la tutela da parte del giudice ordinario?
Nella misura in cui il privilegio deriva da un atto amministrativo, il contenzioso sulla sua revoca, ma più in generale anche la sua violazione da parte dell'autorità, sembra destinato a finir attratto nell'ambito amministrativo, con esclusione del giudice ordinario. Tanto più interessante, dunque, una decisione della Rota[33] che ad oggi resta isolata, almeno per quanto ne so, ma che ha riaperto la discussione su quali cause siano iurium e quali amministrative.
Le famiglie nobili del borgo X. (“i civici”), avendo contribuito alla ricostruzione della chiesa dopo il terremoto del 1693, in particolare donando la statua di Cristo alla colonna, godono del privilegio ereditario, nato ex conventione, di organizzare la solenne processione ai Vespri del Giovedì Santo e di portare, in tale occasione, la statua stessa, privilegio esteso, di loro accordo e con decreto vescovile 25 gennaio 1988, alla locale Confraternita del SS.mo Sacramento. Ma il Parroco si è lamentato con il Vescovo che costoro «vantano dei diritti, ma non sono inseriti nella comunità ecclesiale», e chiedendo la facoltà di scegliere i portatori (lettera 11 novembre 1993). L'Ecc.mo, il 9 marzo 1994, gli conferisce la presidenza della Commissione organizzatrice, con facoltà di «sceglie[re] e aggrega[re] membri tra persone di provata vita cristiana» e di estendere il trasporto a soggetti non compresi nel decreto del 1988. I “civici” vengono esclusi dalla processione e si rivolgono al Tribunale diocesano, che (dopo tre anni...) rigetta in limine per difetto di legittimazione; la seconda istanza conferma, ma uno degli attori chiede la restitutio in integrum alla Rota e alla fine la ottiene.[34] Nel merito, si discute su spettanza del privilegio e risarcimento dei danni, anche morali, in via equitativa (pare che l'esclusione perdurasse).
Il privilegio, scrive il Ponente citando Labandeira, sorge per atto amministrativo singolare ed attribuisce un diritto soggettivo;[35] quindi al Sig. X spetta l'azione ex can. 221 §1, che compete alla Rota perché qui il privilegio nasce da contratto.[36] Esso si presume perpetuo, ma può cessare per non uso, rinuncia accettata o revoca legittimamente intimata (nel rispetto del can. 51); però il concedente non è libero di revocare quello che «non solum pendet ex sola voluntate [sua], sed ex iure alteri quaesito» (Baldo). D'altronde, la lettera vescovile del 1994 non ha né la forma né la natura del decreto amministrativo e non fa neppure menzione del privilegio, sicché si deve ritenere che non intendesse revocarlo.[37] Quindi, il Parroco, fondandosi su di essa, ha illegittimamente spogliati dei loro diritti soggetti neppure uditi in proposito; il che non vieta di fissare un regolamento, d'intesa con i “civici”, che richiami l'attenzione sulle necessarie doti morali. In punto danni, si decreta «Parochum […] non teneri, ad reconciliationem, concordiam et communionem in Paroecia fovendam animosque emulcendos, eo magis quod ipse Parochus se gessit» a termini di lettera.
La pronunzia divide i commentatori in favorevoli (Gherri) e contrari (Zuanazzi):[38] l'una ritiene la Rota incompetente in materia di privilegi e di atti amministrativi, come sarebbe quello del Parroco;[39] l'altro obietta che la causa riguarda (non il privilegio in sé, ma) la sua concreta non applicazione in casu e che gli atti del Parroco volti alla corretta fruizione dei mezzi di santificazione corrispondono ad una funzione tutoria, estranea alla potestà di governo vera e propria.[40] Contrastanti anche i giudizi sul mancato risarcimento.
Sia dato, qui, prospettare brevemente una diversa lettura. O l'ultimo punto della sentenza è un'improprietà che vuole attenuare la responsabilità morale del Parroco, oppure veramente, ad avviso della Rota, il tenore della lettera era tale da fargli ragionevolmente credere di disporre della facoltà di escludere “i civici”.[41] Non credo, però, che essa, stando almeno alle citazioni in sentenza, rendesse l'errore inevitabile; e, in dubiis, doveva prevalere l'interpretazione favorevole al privilegio (cfr. cann. 36 §1 e 38). Questo, però, rende l'ambiguità della lettera inidonea a fungere da scusante o da attenuante per il Parroco: nella sentenza si dà, a mio sommesso avviso, una vera contraddizione.[42] Non vedo, invece, gravi problemi sulla competenza della Rota: il Parroco non ha adottato un atto scritto, quindi il suo era un mero comportamento, non rientrante nel contenzioso amministrativo ex can. 1400; e il giudice ben poteva interpretare la lettera del Vescovo secondo le regole comuni, per escludere che costituisse decreto o revoca del privilegio. Se poi si temesse una violazione del riparto di competenze, la Segnatura potrebbe sempre essere investita di querela nullitatis per violazione dei canoni su natura e interpretazione degli atti amministrativi.
Peraltro, sembra lecito interrogarsi sul ruolo del Vescovo, non solo come autore della lettera, ma soprattutto perché, almeno dalla sentenza, non risultano suoi interventi per risolvere la controversia e/o chiarire come dovesse interpretarsi la lettera stessa.[43]