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Il ruolo del contribuente dichiarato fallito nel rapporto tributario

1. Il ruolo del contribuente dichiarato fallito nel rapporto tributario

2. Il ricorso per cassazione: l’inammissibilità nella prospettazione dell’errore revocatorio

1. IL RUOLO DEL CONTRIBUENTE DICHIARATO FALLITO NEL RAPPORTO TRIBUTARIO

La Corte di Cassazione, con la sentenza 24 febbraio 2006, n. 4235, è tornata ad occuparsi del ruolo del contribuente fallito nel rapporto tributario confermando, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’assunto per cui il contribuente fallito resta comunque soggetto passivo del rapporto tributario ed in quanto tale esposto alle conseguenze sanzionatorie della definitività dell’atto impositivo.

La Cassazione ritorna, nella sentenza in esame, sulla legittimazione attiva ad impugnare un avviso di accertamento in capo ad un contribuente che, nelle more dell’iter amministrativo tributario, si trova sottoposto ad una procedura concorsuale.

Nel caso specifico, l’ufficio finanziario ha emesso un avviso di ingiunzione nei confronti di un contribuente relativo al pagamento di una somma a titolo di imposta ed accessori, in relazione a un avviso di rettifica in precedenza notificato esclusivamente al curatore fallimentare della società, atteso che, nelle more dell’emanazione dell’atto, era stata emessa una sentenza di fallimento nei confronti dello stesso. Ebbene, mentre l’avviso di rettifica (siamo nel periodo ante riforma del 1997) era stato notificato esclusivamente al curatore fallimentare, dell’ingiunzione, invece, era stata data formale comunicazione al contribuente che nel frattempo, secondo la documentazione a disposizione dell’Ufficio, era tornato in bonis, a seguito della chiusura della procedura concorsuale.

Il ricorrente eccepiva, in sede processuale, che:

- l’ingiunzione doveva essere diretta nei confronti della curatela fallimentare, atteso che la procedura concorsuale, a cui era stato assoggettato, era ancora in corso;

- pertanto, egli non aveva legittimazione passiva a ricevere l’ingiunzione, in quanto alla data della notifica era ancora fallito.

La Commissione Tributaria Regionale ha respinto il ricorso perché, in primo luogo, la notifica dell’accertamento, diretta al curatore, non era stata opposta e perciò l’accertamento era da ritenersi definitivo. In secondo luogo, di contro, ha ritenuto, sulla scorta di quanto a disposizione, che il fallimento, all’epoca della notifica dell’ingiunzione, era chiuso, e pertanto il contribuente era tornato in bonis.

Contro tale statuizione, il contribuente ha eccepito vizi di legittimità per violazione di legge e difetto di motivazione, proponendo ricorso in Cassazione.

Il Supremo Collegio ha respinto il gravame, ritenendolo inammissibile sulla scorta di una consolidata tradizione giurisprudenziale, asserendo che:

- “”l’accertamento tributario, ove inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore - in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare, o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento - ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla "definitività" dell’atto impositivo;

- nell’inerzia degli organi fallimentari - ravvisabile, ad es., nell’omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo - il fallito è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli art. 43 della legge fallimentare e dell’art. 16 del d.P.R. 636/1972,[1] conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, comma 1 e 2), del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa””.

Preliminarmente, occorre considerare quella che è ritenuta la nozione di parte nel procedimento tributario: l’art. 10 del d.lgs. 546/92 stabilisce che sono da considerarsi tali:

- il ricorrente (parte attiva);

- l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’ atto richiesto (parte passiva).[2]

Parte attiva, dunque, è il soggetto ricorrente, ovvero il contribuente nei cui confronti è redatto l’avviso di accertamento (o altro atto di cui all’art. 18 della norma citata): questi, dunque, è il soggetto passivo del rapporto tributario, il debitore dell’imposta eventualmente accertata, il responsabile dell’eventuale sanzione comminata dall’Erario, il solo titolare della legittimazione processuale.

Come noto, tuttavia, in tema di legittimazione processuale di un soggetto incorso in una procedura concorsuale, l’art. 43 della legge fallimentare[3] stabilisce la “sostituzione processuale” del curatore per tutte le controversie relative ai rapporti di diritto patrimoniale.[4]

A norma del citato art. 43, infatti, il fallito perde la legittimazione processuale attiva e passiva rispetto ai beni e ai diritti assoggettati a spossessamento; in sua vece, il curatore sta in giudizio per quanto attiene a tutte le controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale comprese nel fallimento. Il curatore, dunque, si sostituisce al soggetto sottoposto a procedura fallimentare nei giudizi già promossi ante procedura e provvede personalmente a promuovere quelli tendenti al recupero della massa attiva fallimentare.[5]

Tuttavia, occorre considerare come “la perdita della capacità processuale del fallito a seguito della dichiarazione di fallimento non sia assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto - e per essa al curatore - è concesso eccepirla, con la conseguenza che se il curatore rimane inerte ed il fallito agisce per conto proprio, la controparte non è legittimata a proporre l’eccezione né il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di capacità”.[6] Infatti, secondo la Corte, “la perdita della capacità processuale del fallito conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore. Nel caso, tuttavia, in cui la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto in lite, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio”.[7]

Come visto, differentemente a quanto accaduto nelle precedenti statuizioni del Collegio su analoghe vicende, nel caso oggetto della presente trattazione non è il contribuente a dichiararsi “parte” processuale legittimata ad impugnare l’atto impositivo in luogo dell’inerzia della curatela, parte che si vede costretta a ricorrere per affermare il suo diritto, eccezionalmente riconosciuto dalla Corte[8]; il destinatario della pretesa erariale, stavolta, ha convocato in giudizio l’Amministrazione fiscale proprio perché si riteneva totalmente estraneo alle vicende oggetto di accertamento tributario, essendo egli – rectius dichiarandosi – ancora sottoposto ai limiti e alle privazioni tipiche del fallito.

Differentemente, la Cassazione si è mostrata, conformemente al passato, di avviso contrario, puntando la sua avversa statuizione sui seguenti punti:

- poteri e funzioni della curatela nel fallimento;

- posizione del fallito e tutela della massa dei creditori.

In relazione al primo aspetto, non si può prescindere dall’evidenziare la peculiare funzione che è chiamato a svolgere il curatore; egli è, in sintesi, l’amministratore del patrimonio del fallito, attività che svolge in aderenza agli interessi sia di quest’ultimo sia della massa dei creditori; tuttavia, il limite della sua attività e l’indirizzo che egli deve seguire è dato dall’interesse pubblicistico che la curatela deve necessariamente perseguire, in ossequio ai principi di correttezza, imparzialità e giustizia.

Come chiaramente affermato più volte dalla giurisprudenza, il curatore, che è investito dell’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato, non è chiamato a curare esclusivamente l’interesse dei creditori concorrenti, ma deve tutelare nel contempo quello del fallito a non trovarsi esposto, dopo la chiusura del fallimento (art. 120 l. fall.) a pretese dei creditori che avrebbero potuto essere contestate con una più solerte gestione da parte del curatore[9].

Per quanto attiene al secondo aspetto, strettamente connesso al precedente, occorre considerare come al fallito, che pure è limitato dalla procedura in taluni diritti e facoltà, debba essere garantito il diritto di difendersi da pretese impositive che, in talune circostanze, possono assurgere a rilievo penale: ciò trova naturale conferma con quanto indicato nello stesso art. 43 della legge fallimentare, allorquando la norma stabilisce che il soggetto incorso nel fallimento perde la capacità di stare in giudizio, ma non con riguardo alle ipotesi “dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico”.

Tale statuizione trova maggiore conferma, nel caso di specie, relativo a pretese di carattere tributario, in considerazione dei principi che, sulla scorta della più o meno recente produzione normativa in materia,[10] caratterizzano il comparto in esame.

Le violazioni e le sanzioni amministrative, quelle fiscali in particolare, sono connotate dal principio di “personalità”: ciò comporta, conseguentemente, la necessità per l’ordinamento di apprestare a favore delle persone coinvolte un sistema di tutele maggiormente idoneo a perseguire il principio costituzionale del diritto di difesa, anche qualora la persona sia coinvolta in una procedura concorsuale.[11]

In tal proposito, è bene evidenziare come il curatore non sia gravato da un mero onere di informazione nei confronti del fallito, ma sia comunque obbligato a trasmettergli tutti gli atti relativi a quelle situazioni giuridiche che siano suscettibili di incidere, dopo la chiusura del fallimento, nella sua sfera patrimoniale.

Inoltre, in merito alla possibilità concessa al fallito, in via del tutto eccezionale e soltanto nell’inerzia dell’organo che fisiologicamente avrebbe il potere di farlo, di eccepire in giudizio un atto relativo a “rettifiche” tributarie, si evidenzia che questi, a seguito dell’inizio della procedura, non è privato in alcun caso della sua posizione di soggetto passivo d’imposta nei confronti dell’Erario, le cui pretese potrebbero comportare un allargamento dello stato passivo in ragione della partecipazione dei crediti al concorso fallimentare (eventualmente nelle forme della ammissione al passivo con riserva), o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento, determinando conseguentemente una minor tutela anche della massa fallimentare.

Un limite essenziale, condicio sine qua non per l’esercizio del potere in esame, attiene alla sussistenza dell’inerzia del curatore: l’attività eventualmente posta in essere da tale figura della procedura fallimentare, ovviamente, fa venir meno una qualsiasi legittimazione, seppur eccezionale, del fallito; più nello specifico, ove l’inerzia sia derivata non da una mera omissione di atti, ma da una precisa scelta discrezionale di non porre in essere attività processuali, ad esempio perché in un’ottica di analisi di costi/benefici venga ritenuto di non voler provvedere ad eccepire in giudizio un determinato atto, sulla scorta magari di precise indicazioni del giudice delegato,[12] anche in questo caso nessuna legittimazione “ultrattiva” può essere concessa al fallito.[13]

Inoltre, deve essere considerato che[14] “nel caso in cui il fallito intenda tutelare, personalmente e direttamente, beni o rapporti già acquisiti al fallimento, di cui gli organi fallimentari abbiano dimostrato concretamente di volersi interessare, va rilevato, anche d’ufficio, il difetto di legittimazione processuale del fallito stesso per difetto assoluto della sua capacità. Tuttavia, perché operi tale ultima situazione, è necessario che l’interesse del curatore sia dimostrato essere preesistente al compimento di attività da parte del fallito, mentre è irrilevante quando detto interesse insorga o sia manifestato in un momento successivo a tale attività”. Ciò fa sì che il fallito possa azionare il proprio diritto eccezionale in caso di inerzia del curatore, ma solo fintanto che questi non lo azioni: un suo eventuale successivo interesse, secondo la Corte, non produce limiti alla possibilità di intervento giudiziario del fallito.

Un’ultima considerazione vale per le ipotesi di rimessione in termini del curatore quando il fallito aziona i suoi diritti in sede processuale: come stabilito dalla consolidata giurisprudenza, mentre deve ritenersi che “allorquando il curatore si sia disinteressato del rapporto tributario sorto nei confronti del fallito, il termine per impugnare l’atto di accertamento non decorre nei suoi confronti se non dal momento in cui l’accertamento stesso sia stato portato a sua conoscenza”[15], “nelle ipotesi in cui il curatore si sia disinteressato del rapporto tributario sorto nei confronti del fallito, il termine per impugnare l’atto di accertamento decorre, per quest’ultimo, dal momento in cui l’atto impositivo sia portato a sua conoscenza”[16].

Di contro, l’opposizione del fallito non vale, invece, dato il carattere di eccezionalità di tale potere, a rimettere in termini il curatore che, ricevuta la notificazione dell’avviso di accertamento, non si sia attivato con tempestiva impugnazione.

2. IL RICORSO PER CASSAZIONE: L’INAMMISSIBILITA’ NELLA PROSPETTAZIONE DELL’ERRORE REVOCATORIO.

La Cassazione ha peraltro considerato inammissibile il ricorso del contribuente nella parte in cui questi ha eccepito l’errore della Commissione Tributaria Regionale che, secondo il ricorrente, aveva ritenuto chiuso il fallimento al momento della consegna dell’ingiunzione di pagamento laddove invece la procedura sarebbe stata ancora in corso.

Non è censurabile in quella sede, secondo la Corte, il vizio consistito nella svista, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, da parte del giudice di merito in ordine ad un fatto documentato, nel caso in esame il momento in cui il fallimento si è chiuso. Tale situazione, consistente in un’omessa valutazione derivante da una falsa percezione della realtà, non costituisce un errore di motivazione, denunziabile per Cassazione ai sensi dell’articolo 360, numero 5) c.p.c., ma integra un errore di fatto, deducibile esclusivamente attraverso l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’articolo 395, n. 4, c.p.c.[17], essendo la sentenza l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa.

Tale decisione trova sostegno dottrinale e giurisprudenziale in riferimento alla sentenza 15672/2005 della Cassazione, di cui ultra.

Volendo in primo luogo sottolineare l’aderenza della motivazione ad un consolidato orientamento dottrinario, quale breve cenno all’istituto si vuole qui ricordare che la revocazione è un mezzo di impugnazione limitato, o a critica vincolata, poiché la legge stabilisce a priori i motivi per cui questa può proporsi.[18] Come tutti i mezzi di impugnazione della specie, presenta in modo spiccato la distinzione tra una fase rescindente ed una rescissoria: la prima mira a eliminare la sentenza impugnata ed ha quindi per oggetto l’accertamento dell’esistenza di qualcuno dei motivi previsti dalla legge, la seconda tende a sostituire quella revocata con un’altra decisione.

Nel dettaglio, il rimedio della revocazione è dato in presenza di situazioni eccezionali, le quali si ritiene abbiano impedito la retta formazione del giudizio[19]. Con l’istanza di revocazione si chiede allo stesso giudice, che pronunciò la sentenza impugnata, di annullarla e di sostituirla in quanto si assume che la sentenza sia inficiata da vizi sfuggiti alla cognizione dello stesso giudice. Interessante è qui ricordare come la migliore dottrina[20], costituendo valido supporto per la decisione della Corte, ricordi come i motivi di revocazione, a differenza di quelli di Cassazione, attengano alla cognizione del merito della causa. Tutti i motivi elencati nei primi 5 numeri dell’articolo 395[21] rappresentano infatti diverse anomalie del processo, un ostacolo alla cognizione del fatto da parte del giudice, mentre l’ultimo caso previsto dalla norma ipotizza il dolo del giudice stesso. Per questo motivo, i vizi che danno motivo alla revocazione, che non possono mai essere dedotti come motivo per Cassazione, possono invece essere denunciati in sede d’appello, poiché “nell’ampio riesame della controversia che ha luogo nel giudizio d’appello rientra anche l’indagine su quei vizi particolari”.

Deducibile per cassazione è invece, come sopra ricordato nella menzionata sentenza, il vizio di motivazione ex articolo 360, n. 5 c.p.c.[22]. Tale vizio, nella stessa interpretazione della Corte, postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico.

Entrando nel merito della vicenda de qua, nessun dubbio emerge in relazione all’ipotesi di sussistenza di un errore di fatto, avendo erroneamente la Commissione Tributaria Regionale considerato chiuso il fallimento in una data in cui, secondo il ricorrente che ha portato a sostegno idonea documentazione, la procedura era ancora in corso.

Tale errore andava dedotto per revocazione, ai sensi del quarto punto del menzionato articolo 395 c.p.c.

Costituisce questo, insieme al successivo punto cinque dello stesso articolo, uno dei casi definiti di revocazione ordinaria, così volendo riprendere la distinzione della revocazione, individuata nell’articolo 396 c.p.c. in riferimento al 326 c.p.c., in due categorie. Con la prima categoria, definita appunto ordinaria, vengono rappresentati vizi che possono essere desunti dalla lettura della sentenza ed eventualmente di altri documenti, che la parte è in grado di conoscere nel momento in cui le viene notificata la sentenza. In questi casi il termine per proporre la revocazione (di trenta giorni avverso le sentenze di primo grado, di sessanta avverso le sentenze della Cassazione) decorre dalla notifica della sentenza così come avviene per le altre impugnazioni ordinarie.

Nei casi indicati invece nei punti 1), 2), 3) e 6) dell’articolo 395, il presupposto della revocazione è costituito dalla scoperta o dall’accertamento di un vizio che era ignorato al momento in cui la sentenza è stata notificata. Il termine per proporre l’impugnazione decorre in queste ipotesi dalla scoperta del vizio, la quale può avvenire dopo che la sentenza, per la preclusione delle impugnazioni ordinarie, sia passata in giudicato. L’imprevedibile eventualità che vengano scoperti questi vizi non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza, che altrimenti non si potrebbe mai verificare: “ma d’altra parte il vizio non perde rilevanza giuridica col passaggio in giudicato della sentenza, data la sua eccezionale gravità”[23].

Individuato nel punto 4 dell’articolo 395 c.p.c. il limine dell’(eventuale) impugnazione, la Cassazione non può non respingere anche sotto questo profilo il ricorso, concludendo con un riferimento ad una precedente sentenza della stessa Corte[24], con la quale si era esplicitato che il ricorrente per cassazione deve rappresentare i fatti, sostanziali e processuali, in modo da far intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata senza dovere ricorrere al contenuto di altri del processo. Tale requisito, pertanto, non può ritenersi soddisfatto se il ricorso rinvii per i motivi di censura alla sentenza impugnata, allo svolgimento del processo ed alle posizioni delle parti quali risultanti dalla sentenza impugnata e dalla narrativa del ricorso principale, perché le censure sollevate devono essere immediatamente percepibili senza ricorrere al contenuto di altri atti del processo.



[1] La norma, rubricata “Revisione della disciplina del contenzioso tributario, è stata abrogata e sostituita dai dd.lgs 545 e 546 del 31.12.1992.

[2] Precedentemente alla riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria e nel vigore del D.p.r. 636/1972, così Russo, (voce Processo Tributario, in “Enciclopedia del diritto”, vol. XXXVI, 1987, p. 764): “la legittimazione ad agire spetta: dal lato attivo, al soggetto destinatario di uno degli atti dell’Amministrazione Finanziaria avverso i quali può essere proposto ricorso a norma dell’articolo 16 del d.p.r. 636, e quindi della pretesa tributaria o sanzionatorio avanzata con l’atto medesimo; dal lato passivo, all’ufficio finanziario da cui promanano l’atto e la pretesa di cui sopra”.

[3] R.D. 16-03-1942, n. 267. L’articolo in questione, nella parte che in questa sede rileva, è rimasto immutato anche a seguito della riforma di cui al d.lgs. 5/2006.

[4] Art. 43 - (Rapporti processuali): Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge. L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo (in corsivo la modifica del d.lgs. 5/2006).

[5] In caso di proposizione di un giudizio da parte di un soggetto dichiarato fallito, con riferimento ad un rapporto patrimoniale astrattamente suscettibile di essere compreso nel fallimento, qualora il curatore abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto in lite, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è, perciò, opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio (nella fattispecie, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della commissione tributaria regionale che aveva dichiarato il difetto di legittimazione processuale del fallito, in presenza di autonoma impugnazione dell’avviso di accertamento da parte del curatore). Così Cass. civ., sez. V, 03-04-2003, n. 5202.

[6] Cass. civ., sez. Unite, 21-07-1998, n. 7132.

[7] Cass. civ., sez. V, 26-04-2001, n. 6085: nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’interesse dell’amministrazione fallimentare alla definizione della controversia tributaria era reso manifesto dalla proposizione da parte del curatore dei relativi ricorsi innanzi al giudice tributario e che, per l’effetto, il difetto di legittimazione processuale del fallito, che aveva promosso analogo giudizio, poteva essere rilevato anche d’ufficio.

[8] Il caso esaminato nella fattispecie non è l’unico per cui la Cassazione ha statuito in tal senso : ad es., vgs. Cass. pen., sez. IV, 17-07-2003 (16-04-2003), n. 25940: “L’intervenuto fallimento dell’imputato non comporta la perdita della sua legittimazione passiva rispetto alle pretese risarcitorie avanzate in sede penale della costituita parte civile.”

[9] Cass. Civ. sent. n. 3667 del 28.04.1997.

[10] Cfr. legge n. 681 del 1981, sulle sanzioni amministrative in genere, e d.lgs. 472/1997, rubricato “disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norma tributarie, a norma dell’art. 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662”.

[11] Sul punto, è chiaro l’intervento del Collegio: “…omissis…perché nel diritto sanzionatorio amministrativo (cfr., ad es., art. 6 della legge n. 689 del 1981) in generale, ed in quello tributario (cfr. artt. 3 comma 133 lett. b della legge n. 662 del 1996 e 2 comma 2 del d.lgs n. 472 del 1997) in particolare, va progressivamente e tendenzialmente affermandosi - in analogia al principio penalistico della natura "personale" della relativa responsabilità ( art. 27 comma 1 Cost. ) - il principio della c.d. "personalizzazione" della responsabilità e della sanzione; alla quale tendenza non può non corrispondere la predisposizione di un’adeguata tutela, anche giurisdizionale, in favore del soggetto - persona fisica, la cui responsabilità da illecito amministrativo (e tributario) risulti comunque coinvolta (cfr., ad es., artt. 16 e 18 del d.lgs. n. 472 del 1997)…omissis…”. Così Cass. 20.11.2000, n. 14987.

[12] Il giudice delegato, a norma dell’art. 42 della legge fallimentare, anche dopo la recente riforma, costituisce l’organo cui sono demandati la vigilanza e il controllo sulla procedura.

[13] “Deve perciò ribadirsi che il fallito è legittimato in via eccezionale a impugnare l’accertamento tributario dal momento in cui esso, in mancanza di notifica personale, sia pervenuto a sua conoscenza, tutte le volte che il curatore, destinatario della notificazione relativa, non abbia azionato neppure il primo grado del contenzioso (Cass. 9 agosto 1996, n. 7308) e non risulti che tale comportamento sia derivato dal diniego dell’autorizzazione del giudice delegato ad agire in giudizio, poiché in tal caso non potrebbe imputarsi al curatore alcuna inerzia, ma solo l’adesione ad una scelta di convenienza in ordine alla prevedibile mancanza di risultati utili della contestazione della pretesa tributaria”: Cassazione Civile Sent. n. 3667 del 28.04.1997. A fortiori, ne consegue, logicamente, che “non è ritenuta ammissibile una legittimazione del soggetto fallito in contrasto con la posizione assunta dal curatore in rapporto alla tematica oggetto del contendere”: così Enzo di Giacomo, Le parti e loro rappresentanza nel processo tributario, in “il fisco” n. 27 del 5 luglio 2004, pag. 1-4214 e analogamente A. Amatucci, Le parti e loro rappresentanza ed assistenza in giudizio, in “Quaderni della Giustizia Tributaria”, n. 5/2002.

[14] --TIPSOA-- Cantillo M Marziale G Velardi M (conf.) Giur imposte 2001, II, pag 1042 XTP7 XY16031942 XY031942 XY1942 XN267 XPART43 XNC16921 Min. Finanze Vitali S.r.l. RV546331Cass. civ., sez. I, 23-07-1998, n. 7200.

[15] Giurisprudenza granitica: vgs. Cass. 28 aprile 1997, n. 3667; 20 marzo 1993, n. 3321; 17 marzo 1995, n. 3094; 11 luglio 1995, n. 7561.

[16] Cassazione Civile Sent. n. 14987 del 20-11-2000.

[17] Codice di procedura civile. Articolo 395. Casi di revocazione. -

Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: [omissis]

4) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.

[18] Girolamo Monteleone, Diritto Processuale Civile, Cedam, Padova 2000

[19] Andrea Lugo, Manuale di diritto processuale civile, Giuffrè Editore, Milano 1999

[20] Andrea Lugo, Manuale di diritto processuale civile, cit.

[21] Art. 395 Casi di revocazione: Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1) se sono l`effetto del dolo di una delle parti in danno dell`altra; 2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; 3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell`avversario; 4) se la sentenza è l`effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l`inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell`uno quanto nell`altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; 5) se la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; 6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.

[22] Codice di procedura civile. Articolo 360. Sentenze impugnabili e motivo di ricorso. (1) - Le sentenze pronunziate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione: [omissis]

5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio.

[23] Andrea Lugo, cit.

[24] Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza 27.07.2005, n. 15672 – Dangels Furs Srl c. Winterthur Assic. Spa, in Guida al Diritto, 2005, 41, 72.

1. Il ruolo del contribuente dichiarato fallito nel rapporto tributario

2. Il ricorso per cassazione: l’inammissibilità nella prospettazione dell’errore revocatorio

1. IL RUOLO DEL CONTRIBUENTE DICHIARATO FALLITO NEL RAPPORTO TRIBUTARIO

La Corte di Cassazione, con la sentenza 24 febbraio 2006, n. 4235, è tornata ad occuparsi del ruolo del contribuente fallito nel rapporto tributario confermando, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’assunto per cui il contribuente fallito resta comunque soggetto passivo del rapporto tributario ed in quanto tale esposto alle conseguenze sanzionatorie della definitività dell’atto impositivo.

La Cassazione ritorna, nella sentenza in esame, sulla legittimazione attiva ad impugnare un avviso di accertamento in capo ad un contribuente che, nelle more dell’iter amministrativo tributario, si trova sottoposto ad una procedura concorsuale.

Nel caso specifico, l’ufficio finanziario ha emesso un avviso di ingiunzione nei confronti di un contribuente relativo al pagamento di una somma a titolo di imposta ed accessori, in relazione a un avviso di rettifica in precedenza notificato esclusivamente al curatore fallimentare della società, atteso che, nelle more dell’emanazione dell’atto, era stata emessa una sentenza di fallimento nei confronti dello stesso. Ebbene, mentre l’avviso di rettifica (siamo nel periodo ante riforma del 1997) era stato notificato esclusivamente al curatore fallimentare, dell’ingiunzione, invece, era stata data formale comunicazione al contribuente che nel frattempo, secondo la documentazione a disposizione dell’Ufficio, era tornato in bonis, a seguito della chiusura della procedura concorsuale.

Il ricorrente eccepiva, in sede processuale, che:

- l’ingiunzione doveva essere diretta nei confronti della curatela fallimentare, atteso che la procedura concorsuale, a cui era stato assoggettato, era ancora in corso;

- pertanto, egli non aveva legittimazione passiva a ricevere l’ingiunzione, in quanto alla data della notifica era ancora fallito.

La Commissione Tributaria Regionale ha respinto il ricorso perché, in primo luogo, la notifica dell’accertamento, diretta al curatore, non era stata opposta e perciò l’accertamento era da ritenersi definitivo. In secondo luogo, di contro, ha ritenuto, sulla scorta di quanto a disposizione, che il fallimento, all’epoca della notifica dell’ingiunzione, era chiuso, e pertanto il contribuente era tornato in bonis.

Contro tale statuizione, il contribuente ha eccepito vizi di legittimità per violazione di legge e difetto di motivazione, proponendo ricorso in Cassazione.

Il Supremo Collegio ha respinto il gravame, ritenendolo inammissibile sulla scorta di una consolidata tradizione giurisprudenziale, asserendo che:

- “”l’accertamento tributario, ove inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore - in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare, o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento - ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla "definitività" dell’atto impositivo;

- nell’inerzia degli organi fallimentari - ravvisabile, ad es., nell’omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo - il fallito è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli art. 43 della legge fallimentare e dell’art. 16 del d.P.R. 636/1972,[1] conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, comma 1 e 2), del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa””.

Preliminarmente, occorre considerare quella che è ritenuta la nozione di parte nel procedimento tributario: l’art. 10 del d.lgs. 546/92 stabilisce che sono da considerarsi tali:

- il ricorrente (parte attiva);

- l’ufficio del Ministero delle finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’ atto richiesto (parte passiva).[2]

Parte attiva, dunque, è il soggetto ricorrente, ovvero il contribuente nei cui confronti è redatto l’avviso di accertamento (o altro atto di cui all’art. 18 della norma citata): questi, dunque, è il soggetto passivo del rapporto tributario, il debitore dell’imposta eventualmente accertata, il responsabile dell’eventuale sanzione comminata dall’Erario, il solo titolare della legittimazione processuale.

Come noto, tuttavia, in tema di legittimazione processuale di un soggetto incorso in una procedura concorsuale, l’art. 43 della legge fallimentare[3] stabilisce la “sostituzione processuale” del curatore per tutte le controversie relative ai rapporti di diritto patrimoniale.[4]

A norma del citato art. 43, infatti, il fallito perde la legittimazione processuale attiva e passiva rispetto ai beni e ai diritti assoggettati a spossessamento; in sua vece, il curatore sta in giudizio per quanto attiene a tutte le controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale comprese nel fallimento. Il curatore, dunque, si sostituisce al soggetto sottoposto a procedura fallimentare nei giudizi già promossi ante procedura e provvede personalmente a promuovere quelli tendenti al recupero della massa attiva fallimentare.[5]

Tuttavia, occorre considerare come “la perdita della capacità processuale del fallito a seguito della dichiarazione di fallimento non sia assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto - e per essa al curatore - è concesso eccepirla, con la conseguenza che se il curatore rimane inerte ed il fallito agisce per conto proprio, la controparte non è legittimata a proporre l’eccezione né il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di capacità”.[6] Infatti, secondo la Corte, “la perdita della capacità processuale del fallito conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore. Nel caso, tuttavia, in cui la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto in lite, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio”.[7]

Come visto, differentemente a quanto accaduto nelle precedenti statuizioni del Collegio su analoghe vicende, nel caso oggetto della presente trattazione non è il contribuente a dichiararsi “parte” processuale legittimata ad impugnare l’atto impositivo in luogo dell’inerzia della curatela, parte che si vede costretta a ricorrere per affermare il suo diritto, eccezionalmente riconosciuto dalla Corte[8]; il destinatario della pretesa erariale, stavolta, ha convocato in giudizio l’Amministrazione fiscale proprio perché si riteneva totalmente estraneo alle vicende oggetto di accertamento tributario, essendo egli – rectius dichiarandosi – ancora sottoposto ai limiti e alle privazioni tipiche del fallito.

Differentemente, la Cassazione si è mostrata, conformemente al passato, di avviso contrario, puntando la sua avversa statuizione sui seguenti punti:

- poteri e funzioni della curatela nel fallimento;

- posizione del fallito e tutela della massa dei creditori.

In relazione al primo aspetto, non si può prescindere dall’evidenziare la peculiare funzione che è chiamato a svolgere il curatore; egli è, in sintesi, l’amministratore del patrimonio del fallito, attività che svolge in aderenza agli interessi sia di quest’ultimo sia della massa dei creditori; tuttavia, il limite della sua attività e l’indirizzo che egli deve seguire è dato dall’interesse pubblicistico che la curatela deve necessariamente perseguire, in ossequio ai principi di correttezza, imparzialità e giustizia.

Come chiaramente affermato più volte dalla giurisprudenza, il curatore, che è investito dell’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato, non è chiamato a curare esclusivamente l’interesse dei creditori concorrenti, ma deve tutelare nel contempo quello del fallito a non trovarsi esposto, dopo la chiusura del fallimento (art. 120 l. fall.) a pretese dei creditori che avrebbero potuto essere contestate con una più solerte gestione da parte del curatore[9].

Per quanto attiene al secondo aspetto, strettamente connesso al precedente, occorre considerare come al fallito, che pure è limitato dalla procedura in taluni diritti e facoltà, debba essere garantito il diritto di difendersi da pretese impositive che, in talune circostanze, possono assurgere a rilievo penale: ciò trova naturale conferma con quanto indicato nello stesso art. 43 della legge fallimentare, allorquando la norma stabilisce che il soggetto incorso nel fallimento perde la capacità di stare in giudizio, ma non con riguardo alle ipotesi “dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico”.

Tale statuizione trova maggiore conferma, nel caso di specie, relativo a pretese di carattere tributario, in considerazione dei principi che, sulla scorta della più o meno recente produzione normativa in materia,[10] caratterizzano il comparto in esame.

Le violazioni e le sanzioni amministrative, quelle fiscali in particolare, sono connotate dal principio di “personalità”: ciò comporta, conseguentemente, la necessità per l’ordinamento di apprestare a favore delle persone coinvolte un sistema di tutele maggiormente idoneo a perseguire il principio costituzionale del diritto di difesa, anche qualora la persona sia coinvolta in una procedura concorsuale.[11]

In tal proposito, è bene evidenziare come il curatore non sia gravato da un mero onere di informazione nei confronti del fallito, ma sia comunque obbligato a trasmettergli tutti gli atti relativi a quelle situazioni giuridiche che siano suscettibili di incidere, dopo la chiusura del fallimento, nella sua sfera patrimoniale.

Inoltre, in merito alla possibilità concessa al fallito, in via del tutto eccezionale e soltanto nell’inerzia dell’organo che fisiologicamente avrebbe il potere di farlo, di eccepire in giudizio un atto relativo a “rettifiche” tributarie, si evidenzia che questi, a seguito dell’inizio della procedura, non è privato in alcun caso della sua posizione di soggetto passivo d’imposta nei confronti dell’Erario, le cui pretese potrebbero comportare un allargamento dello stato passivo in ragione della partecipazione dei crediti al concorso fallimentare (eventualmente nelle forme della ammissione al passivo con riserva), o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento, determinando conseguentemente una minor tutela anche della massa fallimentare.

Un limite essenziale, condicio sine qua non per l’esercizio del potere in esame, attiene alla sussistenza dell’inerzia del curatore: l’attività eventualmente posta in essere da tale figura della procedura fallimentare, ovviamente, fa venir meno una qualsiasi legittimazione, seppur eccezionale, del fallito; più nello specifico, ove l’inerzia sia derivata non da una mera omissione di atti, ma da una precisa scelta discrezionale di non porre in essere attività processuali, ad esempio perché in un’ottica di analisi di costi/benefici venga ritenuto di non voler provvedere ad eccepire in giudizio un determinato atto, sulla scorta magari di precise indicazioni del giudice delegato,[12] anche in questo caso nessuna legittimazione “ultrattiva” può essere concessa al fallito.[13]

Inoltre, deve essere considerato che[14] “nel caso in cui il fallito intenda tutelare, personalmente e direttamente, beni o rapporti già acquisiti al fallimento, di cui gli organi fallimentari abbiano dimostrato concretamente di volersi interessare, va rilevato, anche d’ufficio, il difetto di legittimazione processuale del fallito stesso per difetto assoluto della sua capacità. Tuttavia, perché operi tale ultima situazione, è necessario che l’interesse del curatore sia dimostrato essere preesistente al compimento di attività da parte del fallito, mentre è irrilevante quando detto interesse insorga o sia manifestato in un momento successivo a tale attività”. Ciò fa sì che il fallito possa azionare il proprio diritto eccezionale in caso di inerzia del curatore, ma solo fintanto che questi non lo azioni: un suo eventuale successivo interesse, secondo la Corte, non produce limiti alla possibilità di intervento giudiziario del fallito.

Un’ultima considerazione vale per le ipotesi di rimessione in termini del curatore quando il fallito aziona i suoi diritti in sede processuale: come stabilito dalla consolidata giurisprudenza, mentre deve ritenersi che “allorquando il curatore si sia disinteressato del rapporto tributario sorto nei confronti del fallito, il termine per impugnare l’atto di accertamento non decorre nei suoi confronti se non dal momento in cui l’accertamento stesso sia stato portato a sua conoscenza”[15], “nelle ipotesi in cui il curatore si sia disinteressato del rapporto tributario sorto nei confronti del fallito, il termine per impugnare l’atto di accertamento decorre, per quest’ultimo, dal momento in cui l’atto impositivo sia portato a sua conoscenza”[16].

Di contro, l’opposizione del fallito non vale, invece, dato il carattere di eccezionalità di tale potere, a rimettere in termini il curatore che, ricevuta la notificazione dell’avviso di accertamento, non si sia attivato con tempestiva impugnazione.

2. IL RICORSO PER CASSAZIONE: L’INAMMISSIBILITA’ NELLA PROSPETTAZIONE DELL’ERRORE REVOCATORIO.

La Cassazione ha peraltro considerato inammissibile il ricorso del contribuente nella parte in cui questi ha eccepito l’errore della Commissione Tributaria Regionale che, secondo il ricorrente, aveva ritenuto chiuso il fallimento al momento della consegna dell’ingiunzione di pagamento laddove invece la procedura sarebbe stata ancora in corso.

Non è censurabile in quella sede, secondo la Corte, il vizio consistito nella svista, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, da parte del giudice di merito in ordine ad un fatto documentato, nel caso in esame il momento in cui il fallimento si è chiuso. Tale situazione, consistente in un’omessa valutazione derivante da una falsa percezione della realtà, non costituisce un errore di motivazione, denunziabile per Cassazione ai sensi dell’articolo 360, numero 5) c.p.c., ma integra un errore di fatto, deducibile esclusivamente attraverso l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’articolo 395, n. 4, c.p.c.[17], essendo la sentenza l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa.

Tale decisione trova sostegno dottrinale e giurisprudenziale in riferimento alla sentenza 15672/2005 della Cassazione, di cui ultra.

Volendo in primo luogo sottolineare l’aderenza della motivazione ad un consolidato orientamento dottrinario, quale breve cenno all’istituto si vuole qui ricordare che la revocazione è un mezzo di impugnazione limitato, o a critica vincolata, poiché la legge stabilisce a priori i motivi per cui questa può proporsi.[18] Come tutti i mezzi di impugnazione della specie, presenta in modo spiccato la distinzione tra una fase rescindente ed una rescissoria: la prima mira a eliminare la sentenza impugnata ed ha quindi per oggetto l’accertamento dell’esistenza di qualcuno dei motivi previsti dalla legge, la seconda tende a sostituire quella revocata con un’altra decisione.

Nel dettaglio, il rimedio della revocazione è dato in presenza di situazioni eccezionali, le quali si ritiene abbiano impedito la retta formazione del giudizio[19]. Con l’istanza di revocazione si chiede allo stesso giudice, che pronunciò la sentenza impugnata, di annullarla e di sostituirla in quanto si assume che la sentenza sia inficiata da vizi sfuggiti alla cognizione dello stesso giudice. Interessante è qui ricordare come la migliore dottrina[20], costituendo valido supporto per la decisione della Corte, ricordi come i motivi di revocazione, a differenza di quelli di Cassazione, attengano alla cognizione del merito della causa. Tutti i motivi elencati nei primi 5 numeri dell’articolo 395[21] rappresentano infatti diverse anomalie del processo, un ostacolo alla cognizione del fatto da parte del giudice, mentre l’ultimo caso previsto dalla norma ipotizza il dolo del giudice stesso. Per questo motivo, i vizi che danno motivo alla revocazione, che non possono mai essere dedotti come motivo per Cassazione, possono invece essere denunciati in sede d’appello, poiché “nell’ampio riesame della controversia che ha luogo nel giudizio d’appello rientra anche l’indagine su quei vizi particolari”.

Deducibile per cassazione è invece, come sopra ricordato nella menzionata sentenza, il vizio di motivazione ex articolo 360, n. 5 c.p.c.[22]. Tale vizio, nella stessa interpretazione della Corte, postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico.

Entrando nel merito della vicenda de qua, nessun dubbio emerge in relazione all’ipotesi di sussistenza di un errore di fatto, avendo erroneamente la Commissione Tributaria Regionale considerato chiuso il fallimento in una data in cui, secondo il ricorrente che ha portato a sostegno idonea documentazione, la procedura era ancora in corso.

Tale errore andava dedotto per revocazione, ai sensi del quarto punto del menzionato articolo 395 c.p.c.

Costituisce questo, insieme al successivo punto cinque dello stesso articolo, uno dei casi definiti di revocazione ordinaria, così volendo riprendere la distinzione della revocazione, individuata nell’articolo 396 c.p.c. in riferimento al 326 c.p.c., in due categorie. Con la prima categoria, definita appunto ordinaria, vengono rappresentati vizi che possono essere desunti dalla lettura della sentenza ed eventualmente di altri documenti, che la parte è in grado di conoscere nel momento in cui le viene notificata la sentenza. In questi casi il termine per proporre la revocazione (di trenta giorni avverso le sentenze di primo grado, di sessanta avverso le sentenze della Cassazione) decorre dalla notifica della sentenza così come avviene per le altre impugnazioni ordinarie.

Nei casi indicati invece nei punti 1), 2), 3) e 6) dell’articolo 395, il presupposto della revocazione è costituito dalla scoperta o dall’accertamento di un vizio che era ignorato al momento in cui la sentenza è stata notificata. Il termine per proporre l’impugnazione decorre in queste ipotesi dalla scoperta del vizio, la quale può avvenire dopo che la sentenza, per la preclusione delle impugnazioni ordinarie, sia passata in giudicato. L’imprevedibile eventualità che vengano scoperti questi vizi non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza, che altrimenti non si potrebbe mai verificare: “ma d’altra parte il vizio non perde rilevanza giuridica col passaggio in giudicato della sentenza, data la sua eccezionale gravità”[23].

Individuato nel punto 4 dell’articolo 395 c.p.c. il limine dell’(eventuale) impugnazione, la Cassazione non può non respingere anche sotto questo profilo il ricorso, concludendo con un riferimento ad una precedente sentenza della stessa Corte[24], con la quale si era esplicitato che il ricorrente per cassazione deve rappresentare i fatti, sostanziali e processuali, in modo da far intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata senza dovere ricorrere al contenuto di altri del processo. Tale requisito, pertanto, non può ritenersi soddisfatto se il ricorso rinvii per i motivi di censura alla sentenza impugnata, allo svolgimento del processo ed alle posizioni delle parti quali risultanti dalla sentenza impugnata e dalla narrativa del ricorso principale, perché le censure sollevate devono essere immediatamente percepibili senza ricorrere al contenuto di altri atti del processo.



[1] La norma, rubricata “Revisione della disciplina del contenzioso tributario, è stata abrogata e sostituita dai dd.lgs 545 e 546 del 31.12.1992.

[2] Precedentemente alla riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria e nel vigore del D.p.r. 636/1972, così Russo, (voce Processo Tributario, in “Enciclopedia del diritto”, vol. XXXVI, 1987, p. 764): “la legittimazione ad agire spetta: dal lato attivo, al soggetto destinatario di uno degli atti dell’Amministrazione Finanziaria avverso i quali può essere proposto ricorso a norma dell’articolo 16 del d.p.r. 636, e quindi della pretesa tributaria o sanzionatorio avanzata con l’atto medesimo; dal lato passivo, all’ufficio finanziario da cui promanano l’atto e la pretesa di cui sopra”.

[3] R.D. 16-03-1942, n. 267. L’articolo in questione, nella parte che in questa sede rileva, è rimasto immutato anche a seguito della riforma di cui al d.lgs. 5/2006.

[4] Art. 43 - (Rapporti processuali): Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge. L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo (in corsivo la modifica del d.lgs. 5/2006).

[5] In caso di proposizione di un giudizio da parte di un soggetto dichiarato fallito, con riferimento ad un rapporto patrimoniale astrattamente suscettibile di essere compreso nel fallimento, qualora il curatore abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto in lite, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è, perciò, opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio (nella fattispecie, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della commissione tributaria regionale che aveva dichiarato il difetto di legittimazione processuale del fallito, in presenza di autonoma impugnazione dell’avviso di accertamento da parte del curatore). Così Cass. civ., sez. V, 03-04-2003, n. 5202.

[6] Cass. civ., sez. Unite, 21-07-1998, n. 7132.

[7] Cass. civ., sez. V, 26-04-2001, n. 6085: nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’interesse dell’amministrazione fallimentare alla definizione della controversia tributaria era reso manifesto dalla proposizione da parte del curatore dei relativi ricorsi innanzi al giudice tributario e che, per l’effetto, il difetto di legittimazione processuale del fallito, che aveva promosso analogo giudizio, poteva essere rilevato anche d’ufficio.

[8] Il caso esaminato nella fattispecie non è l’unico per cui la Cassazione ha statuito in tal senso : ad es., vgs. Cass. pen., sez. IV, 17-07-2003 (16-04-2003), n. 25940: “L’intervenuto fallimento dell’imputato non comporta la perdita della sua legittimazione passiva rispetto alle pretese risarcitorie avanzate in sede penale della costituita parte civile.”

[9] Cass. Civ. sent. n. 3667 del 28.04.1997.

[10] Cfr. legge n. 681 del 1981, sulle sanzioni amministrative in genere, e d.lgs. 472/1997, rubricato “disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norma tributarie, a norma dell’art. 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662”.

[11] Sul punto, è chiaro l’intervento del Collegio: “…omissis…perché nel diritto sanzionatorio amministrativo (cfr., ad es., art. 6 della legge n. 689 del 1981) in generale, ed in quello tributario (cfr. artt. 3 comma 133 lett. b della legge n. 662 del 1996 e 2 comma 2 del d.lgs n. 472 del 1997) in particolare, va progressivamente e tendenzialmente affermandosi - in analogia al principio penalistico della natura "personale" della relativa responsabilità ( art. 27 comma 1 Cost. ) - il principio della c.d. "personalizzazione" della responsabilità e della sanzione; alla quale tendenza non può non corrispondere la predisposizione di un’adeguata tutela, anche giurisdizionale, in favore del soggetto - persona fisica, la cui responsabilità da illecito amministrativo (e tributario) risulti comunque coinvolta (cfr., ad es., artt. 16 e 18 del d.lgs. n. 472 del 1997)…omissis…”. Così Cass. 20.11.2000, n. 14987.

[12] Il giudice delegato, a norma dell’art. 42 della legge fallimentare, anche dopo la recente riforma, costituisce l’organo cui sono demandati la vigilanza e il controllo sulla procedura.

[13] “Deve perciò ribadirsi che il fallito è legittimato in via eccezionale a impugnare l’accertamento tributario dal momento in cui esso, in mancanza di notifica personale, sia pervenuto a sua conoscenza, tutte le volte che il curatore, destinatario della notificazione relativa, non abbia azionato neppure il primo grado del contenzioso (Cass. 9 agosto 1996, n. 7308) e non risulti che tale comportamento sia derivato dal diniego dell’autorizzazione del giudice delegato ad agire in giudizio, poiché in tal caso non potrebbe imputarsi al curatore alcuna inerzia, ma solo l’adesione ad una scelta di convenienza in ordine alla prevedibile mancanza di risultati utili della contestazione della pretesa tributaria”: Cassazione Civile Sent. n. 3667 del 28.04.1997. A fortiori, ne consegue, logicamente, che “non è ritenuta ammissibile una legittimazione del soggetto fallito in contrasto con la posizione assunta dal curatore in rapporto alla tematica oggetto del contendere”: così Enzo di Giacomo, Le parti e loro rappresentanza nel processo tributario, in “il fisco” n. 27 del 5 luglio 2004, pag. 1-4214 e analogamente A. Amatucci, Le parti e loro rappresentanza ed assistenza in giudizio, in “Quaderni della Giustizia Tributaria”, n. 5/2002.

[14] --TIPSOA-- Cantillo M Marziale G Velardi M (conf.) Giur imposte 2001, II, pag 1042 XTP7 XY16031942 XY031942 XY1942 XN267 XPART43 XNC16921 Min. Finanze Vitali S.r.l. RV546331Cass. civ., sez. I, 23-07-1998, n. 7200.

[15] Giurisprudenza granitica: vgs. Cass. 28 aprile 1997, n. 3667; 20 marzo 1993, n. 3321; 17 marzo 1995, n. 3094; 11 luglio 1995, n. 7561.

[16] Cassazione Civile Sent. n. 14987 del 20-11-2000.

[17] Codice di procedura civile. Articolo 395. Casi di revocazione. -

Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: [omissis]

4) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.

[18] Girolamo Monteleone, Diritto Processuale Civile, Cedam, Padova 2000

[19] Andrea Lugo, Manuale di diritto processuale civile, Giuffrè Editore, Milano 1999

[20] Andrea Lugo, Manuale di diritto processuale civile, cit.

[21] Art. 395 Casi di revocazione: Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1) se sono l`effetto del dolo di una delle parti in danno dell`altra; 2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; 3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell`avversario; 4) se la sentenza è l`effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l`inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell`uno quanto nell`altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; 5) se la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; 6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.

[22] Codice di procedura civile. Articolo 360. Sentenze impugnabili e motivo di ricorso. (1) - Le sentenze pronunziate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione: [omissis]

5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio.

[23] Andrea Lugo, cit.

[24] Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza 27.07.2005, n. 15672 – Dangels Furs Srl c. Winterthur Assic. Spa, in Guida al Diritto, 2005, 41, 72.