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Il silenzio di Domenico

San Domenico
San Domenico

Indice

1. Un ritratto senza voce

2. I tre silenzi

3. La saggezza di chi sa porsi da parte

 

1. Un ritratto senza voce

La società contemporanea ha una tale passione per le testimonianze dirette da vedere come mutila qualunque descrizione che non si basi su di esse. Senza voler entrare di più nella questione, possiamo dire che quando applichiamo un simile principio ad un personaggio storico i suoi scritti diventano elementi insostituibili per ricostruirne un ritratto per noi accettabile.

Chiunque abbia familiarità con i testi di illustri uomini del passato si renderà perfettamente conto di quanti elementi fondamentali della loro personalità ci sarebbero completamenti ignoti se le loro preziose pagine non ci fossero giunte.

Date queste premesse, l’assordante silenzio di san Domenico da Caleruega, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, pone questo pioniere della vita religiosa in una posizione del tutto particolare. Egli infatti, a differenza di altri santi iniziatori di movimenti religiosi, non ha lasciato nessun testo degno di nota; tutte le notizie che abbiamo di lui, ivi compresi i tratti caratteriali, provengono da racconti posteriori e diversamente basati su di una conoscenza diretta[1]. Sono da escludere naturalmente alcune lettere autografe del castigliano, però troppo gravate dall’ufficialità e dalla brevità per servire allo scopo di cui sopra.

 

I tre silenzi

Ciò che vorremmo approfondire qui è il motivo di questo silenzio, soprattutto perché proprio di un uomo che ha fatto della comunicazione il cuore della sua esistenza.

A nostro modesto parere le spiegazioni, semplificando, possono essere tre:

Domenico scrisse, ma i suoi testi andarono perduti;

Domenico non scrisse perché troppo impegnato nelle altre sue attività;

Domenico non scrisse di proposito.

Proviamo ora ad analizzarle brevemente per giungere non alla verità ma ad una conclusione plausibile.

Partiamo dalla seconda: possiamo escluderla immediatamente per il semplice fatto che la scrittura non era considerata estranea alla predicazione.

Giordano riporta nel suo Libellus un episodio miracoloso di Domenico che avvenne durante una disputa e che ebbe come protagonista uno scritto composto dal santo allo scopo di confutare le tesi dei catari[2]; al di là del prodigio questo racconto testimonia la pratica di combattere gli eretici più colti con opere composte ad hoc e rende quindi indifendibile la tesi di un Domenico troppo occupato a predicare per scrivere.

D’altra parte tali testi potrebbero non essersi conservati.

Ciò è possibile, poiché i manoscritti sopravvivevano nel secolo XIII solo se copiati, e naturalmente venivano copiati solo se aventi un qualche peso per qualcuno. Come lo stesso Giordano testimonia[3] la devozione dei primi domenicani per il fondatore fu molto tiepida, tuttavia le cose cambiarono appena dieci anni dopo la morte del santo, all’ombra del processo di canonizzazione voluto dallo stesso pontefice[4] Gregorio IX: al castigliano venne data l’importanza che meritava e quindi sarebbe stato sensato, a quel punto, interessarsi di suoi eventuali scritti precedentemente ignorati e difficilmente già perduti.

               

La saggezza di chi sa porsi da parte

Una risposta certa non la possiamo dare, ma vorremmo provare a considerare vera, per un attimo, la terza opzione.

Se san Domenico non avesse di proposito realizzato testi complessi e numerosi, o conservato quelli fatti, pur avendone potenzialmente le capacità?[5]

Ad uno sguardo attento è facile notare l’attenzione che il santo poneva nel non assumere un’eccessiva centralità nella conduzione dell’Ordine. Egli non rifuggì la responsabilità, tanto che fu il primo Maestro dei Frati Predicatori, ma fu attento a costruire un sistema che si reggesse più sulla collegialità che sul carisma personale[6]. Si preoccupò di far sì che i frati non fondassero la propria vita e missione di religiosi sulla sua sequela, ma sui principi da lui indicati e collegialmente confermati.

Questa libertà dal “giogo” del fondatore riuscì al punto da generare una sorta di oblio sulle qualità dello stesso, come visto sopra. L’assenza di scritti quindi può, a mio parere, essere letta come un’assicurazione che Domenico si prese contro la condanna dell’imitazione personale. Tale era la stima che aveva della libertà del predicatore da non volerla intaccare con un modello individuale troppo definito che, inevitabilmente, avrebbe costituito un ostacolo ad ogni adattamento.

Questo silenzio può quindi essere letto come un profondo invito all’umiltà, non vista come irragionevole diminuzione di sé, ma come coscienza di non essere il regista dell’opera bensì solo il primo attore, importante ma destinato a scomparire. L’immagine venutasi a creare è quella di un Domenico preoccupato di porsi sempre, anche dopo la morte, non come maestro da seguire, ma come discepolo pronto a sostenere i compagni in un cammino da percorrere assieme.

Ecco che allora il silenzio di Domenico non diventa un invito a non parlare, ma a parlare solo con Dio o di Dio, senza mai porre se stessi davanti alla Luce.

 

[1]Le tre fonti principali sono il Libellus de Initio Ordinis Fratrum Praedicatorum del beato Giordano di Sassonia, gli Atti del processo di Bologna e gli Atti del processo di Tolosa, oltre naturalmente alle Costituzioni primitive dell’Ordine, non scritte direttamente da Domenico ma comunque intrise del suo pensiero. Tutti questi testi sono editi in lingua italiana in Lippini P., San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.

[2]Giordano di Sassonia, Libellus de Initio Ordinis Fratrum Praedicatorum, nn. 22-25.

[3]Ibidem, n 98.

[4] Lippini P., San Domenico, p 424.

[5] Giordano, Libellus, nn. 6-8.

[6] Ibidem, nn. 40-43.

Lettura consigliata

Pietro Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.