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San Domenico e gli equilibri della santità

san Domenico
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Difficili equilibri

Il 6 agosto del 1221 san Domenico, provato dalla febbre e dalla dissenteria, tornò alla Casa del Padre nell’allora giovane convento di Bologna[1]. Esattamente ottocento anni fa egli lasciava i Frati Predicatori, i suoi frati, con un modello di vita religiosa ed apostolica fondato non semplicemente sulla sua imitazione, ma anche e soprattutto sulla comprensione di quelle priorità e di quei mezzi con i quali il Signore aveva illuminato la sua vita.

Dopo tanti secoli, ed alla luce di questo Giubileo, tutti coloro che appartengono, in un qualche modo, alla Famiglia Domenicana devono sentirsi chiamati ad approfondire, senza mai stancarsi, la conoscenza di questa eredità; non tanto, o forse non solo, in relazione ad una pur giusta adeguazione ai tempi, quanto alla scoperta dell’intima coesione che ne lega le componenti.

Difatti quel modello di vita evangelica, che san Domenico non solo formalizzò ma sperimentò anche in prima persona, ricevette, nel corso dei secoli, varie e proficue formalizzazioni che consentirono ai suoi figli e figlie di comprenderne i differenti elementi. La sfida alla quale, oggi come sempre, sono chiamati i suoi eredi è di realizzare una sintesi, di comprendere l’intima unità di quegli stessi elementi alla luce della rinnovata conoscenza della loro individualità.

Per scendere un po’ più nel concreto, cerchiamo di focalizzare la nostra attenzione su due cardini del carisma domenicano e sulla loro reciproca interazione: lo studio e la preghiera. Apparentemente queste due attività non sembrano collidere in alcun modo, tanto da apparire quasi come binari paralleli sui quali si muove la crescita del frate predicatore e, mutatis mutandis, di tutti coloro che ne condividono la forma evangelica.

Tuttavia la più antica legislazione dell’Ordine, risalente ai Capitoli generali del 1221 e del 1228, presenta una situazione più complessa di quanto si potrebbe pensare. Il testo delle Prime Costituzioni, al numero 29, così reca scritto: «Agli studenti il superiore accordi dispense in misura tale che né da un ufficio né da qualche altra cosa possano venire distolti o impediti nello studio»[2].

La norma qui riportata si riferisce ai frati studenti, ossia a quei religiosi in formazione il cui primo compito è dedicarsi agli studi; tuttavia, considerando i numeri 30 e 31 del medesimo documento[3], possiamo intuire come simili necessità fossero applicabili anche a coloro che attendevano a studi superiori, magari in vista dell’ufficio di predicatore generale o di maestro all’università. La premura soggiacente era di salvaguardare lo studio dall’essere assorbito dagli impegni della vita regolare e, in particolare, dalla preghiera comune, che rischiava di lasciare al frate ben poco tempo a disposizione. La primissima legislazione dei Predicatori, quindi, intuiva la necessità di salvaguardare un equilibrio altrimenti difficile da conservare.

La difficoltà di mantenere un’equità di tempi e di energie fra queste due attività non fu la sola questione emersa. Al numero 28 infatti le Prime Costituzioni mettono in guardia gli studenti dal dedicarsi allo studio di testi pagani, filosofici e no, senza reale e comprovato motivo; la loro attenzione ed i loro sforzi, infatti, dovevano essere orientati primariamente alla teologia[4].

Al di là della norma specifica, decisamente anacronistica ai giorni nostri, è interessante notare come i primissimi Capitoli generali, e san Domenico con loro, abbiano sentito la necessità di ribadire un semplice fatto: lo studio del Predicatore deve avere in Dio il suo inizio ed in Dio il suo compimento. Ciò implica che, a prescindere dai mezzi utilizzati, questa attività non può e non deve rimanere fine a se stessa, bensì inserirsi in quella generale tensione verso il Signore che è carattere sostanziale della vita apostolica.

 

Studio orante

Da quanto abbiamo visto finora emerge che il rapporto fra preghiera e studio, per il frate predicatore, possiede da un lato un innegabile elemento di contrasto, dato dalla tendenza di queste due attività ad assumere una dimensione totalizzante a livello di tempo e di energie spese; dall’altro un legame indissolubile poiché, proprio come le gambe di un uomo, pur essendo due elementi distinti operano ed agiscono in sinergia per raggiungere la medesima meta.

Per chiarire meglio come questi due pilastri possano trovare e mantenere una buona e reciproca complementarietà, può essere utile analizzare come i figli di san Domenico vivano la natura contemplativa del loro studio. La preminenza legislativa data alla materia teologica non ha solo una valenza pratica, dettata dalle necessità della predicazione, ma riflette una vera e propria passione per Dio che il Santo castigliano visse in prima persona.

Il beato Giordano di Sassonia, suo primo agiografo, parlando del periodo degli studi giovanili di san Domenico a Palencia, scrive che: «[…] quando gli sembrò di averne abbastanza, abbandonò siffatti studi (le arti liberali, ossia gli studi filosofici, ndr), quasi timoroso di spendere in essi il suo tempo con meno frutto e volò allo studio della teologia e cominciò a bere avidamente alle divine parole, che il suo palato trovava più dolci del miele»[5]. Da queste belle parole comprendiamo come per san Domenico lo studio direttamente rivolto ad una maggiore e più intima conoscenza di Dio non fosse semplicemente più utile o sicuro, ma costituisse anche una preziosa fonte di elevazione spirituale, capace di donare all’uomo di fede un ineffabile piacere.

Dicendo ciò non s’intende affermare che ogni ambito di ricerca differente dalla teologia abbia un valore puramente strumentale, bensì che l’attività stessa dello studio debba essere inserita nella generale ricerca di Dio di cui la vita del credente è pregna. San Domenico c’insegna come il lavoro intellettuale, a tutti i livelli, debba essere non un fine in se stesso, bensì un modo per conoscere e servire Dio all’interno di quel cammino verso il Regno che coinvolge ogni cristiano.

Alla luce di ciò appare evidente come la sinergia fra studio e preghiera si comprenda considerando quest’ultima come la via sulla quale la ricerca intellettuale si muove; l’orazione quindi, per il Predicatore, è inizio e fine di ogni minuto di studio. Troviamo conferma di questa verità anche in un autore del VI secolo d.C., Dionigi lo Pseudo-Areopagita: costui, nell’opera I nomi divini, afferma chiaramente che «[…] prima di ogni cosa e in particolare prima dello studio su Dio bisogna cominciare con la preghiera, […] per metterci nelle Sue mani e unirci a Lei (cioè la Potenza Divina ndr) facendo memoria di Dio ed invocandolo»[6].

 

La via della preghiera

Questo bel testo scioglie, secondo me, il nodo della questione: se la preghiera possiede la capacità di unirci al Signore, di porre la nostra vita ed i nostri sforzi nelle sue mani, allora solo se circonfuso da essa lo studio sarà davvero guidato e sorretto dalla grazia. Solo in tal modo cioè la mera attività del nostro intelletto, invece di rimanere un arido ed inutile sforzo, sarà in grado di avvicinarci al Signore, di rendercelo più familiare, di aiutarci ad amarlo.

Una simile compenetrazione fra preghiera e studio finisce per rendere quest’ultimo parte integrante dell’orazione del frate e la preghiera, lungi dall’esserne assorbita, diviene a sua volta premessa e coronamento di un moto intellettuale e d’amore verso l’Amato. Ecco che quindi la comprensione dell’imprescindibilità l’uno dall’altro di questi due elementi diviene anche sostegno a quell’equilibrio così difficile da mantenere. Colui infatti che avesse colto la verità di questa intima complementarietà vedrebbe in ogni squilibrio un elemento capace di deturpare i frutti di queste attività. La sinergia fra preghiera e studio è quindi, se compresa, capace di alzare a tal punto l’aspettativa spirituale dei risultati da rendere inaccettabile ogni compromesso.

Anche se il discorso appena fatto pare avere un rilievo solo per i religiosi e le religiose della Famiglia Domenicana, ritengo in verità che, se ampliato, possa essere prezioso per ogni credente.

Per prima cosa infatti lo studio, inteso come giusto approfondimento di Dio e delle fede, è una responsabilità che, a differenti livelli, riguarda ogni cristiano; non tanto per ragioni di precetto, quanto per rispondere a quella naturale tendenza degli innamorati a voler conoscere ogni guizzo della bellezza dell’amato. Se essere discepolo di Gesù significa amare Lui ed il Padre, allora non vi può essere discepolato senza il desiderio di scorgere meglio il volto del Signore anche solo di poco. Secondariamente, la natura fondativa della preghiera, il suo essere cammino sul quale il credente muove i suoi passi, rende il discorso appena concluso valido per ogni attività umana. Anche il lavoro, per esempio, viene dalla preghiera posto nella nostra vita di Grazia, orientato verso Dio, al punto da diventare preghiera esso stesso.

Per concludere, questo ottocentesimo anniversario della nascita al Cielo di san Domenico c’insegna non solo l’importanza dello studio e della preghiera, ma anche il metodo con cui la tensione verso Dio, di cui l’orazione è sublime segno, può essere vista e colta come elemento fondante di una vita organicamente inserita e donata a Signore.

 

[1] Cf. Giordano di Sassonia, Libellus de initio Ordinis Fratrum Preadicatorum, in P. Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998, n. 94, p. 159.

[2] Prime costituzioni dell’Ordine dei Frati Predicatori, in P. Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, n. 29, p. 283.

[3] Cf. ivi, pp. 284-285.

[4] Cf. ivi, n. 28, p. 282.

[5] Giordano di Sassonia, Libellus, n. 6, p. 75.

[6] Dionigi, I nomi divini, testo critico e traduzione italiana a cura di Moreno Morani, Giulia Rogoliosi e Giuseppe Barzaghi, ESD, Bologna 2010, p. 171.

Testi consigliati

  • Dionigi, I nomi divini, testo critico e traduzione italiana a cura di Moreno Morani, Giulia Rogoliosi e Giuseppe Barzaghi, ESD, Bologna 2010.
  • Pietro Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.