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La canonica di S. Maria di Reno. Una congregazione di canonici regolari alle porte di bologna nei secoli centrali del medioevo

Centrale idroelettrica della Canonica di Santa Maria di Reno (Casalecchio)
Centrale idroelettrica della Canonica di Santa Maria di Reno (Casalecchio)

La canonica di S. Maria di Reno

Una congregazione di canonici regolari alle porte di bologna nei secoli centrali del medioevo

 

La Canonica di S. Maria di Reno, ubicata a sud-ovest di Bologna, nell’attuale territorio comunale di Casalecchio di Reno, nel corso del XII secolo divenne titolare di un cospicuo patrimonio, immobiliare e fondiario, concentrato prevalentemente nel settore occidentale della diocesi bolognese. Alle proprietà immobiliari si aggiungevano prerogative di natura pubblica e diritti di giuspatronato su numerose chiese. Principale fonte per un’indagine sulla Canonica renana è il settecentesco Necrologio dell’abate Trombelli, già studiato da Francesca Bocchi negli anni Settanta del secolo scorso[1].

Beni e diritti di questa Canonica regolare bolognese vennero ripetutamente confermati dai papi, a partire dai privilegi di Innocenzo II del 1136 e 1143, rinnovati già da Lucio II nel 1144 . Il 13 maggio 1150 papa Eugenio III confermò le proprietà della Canonica. Seguì poi il privilegio di papa Alessandro III del 1169. Da questi documenti pontifici si evince anche la proprietà della chiesa di S. Salvatore di Bologna e della chiesa romana di S. Prassede. I privilegi giurisdizionali e fiscali dei Renani vennero inoltre confermati anche dai vescovi bolognesi. Sul piano economico e politico risultava di fondamentale importanza per i canonici il controllo del vicino ponte sul fiume Reno, al centro dei collegamenti fra Bologna, Modena e la Toscana.

La nascita delle canoniche regolari ed il loro sviluppo nel pieno medioevo così come il loro ruolo nella vita della Chiesa ed i loro rapporti con il mondo laico risultano temi assai vasti, estremamente complessi nonché a lungo trascurati nel panorama storiografico. Lo studio delle canoniche regolari comporta pertanto notevoli difficoltà, proprio per la complessità di tale fenomeno, che ha avuto nel corso del medioevo una vasta gamma di sfaccettature e di differenti sviluppi. Inoltre la scarsità di fonti documentarie unitamente alla scomparsa pressoché totale delle congregazioni Canonicali ha  contribuito alla scarsa fortuna storiografica dell’ordo canonicus, a lungo assai meno studiato, ad esempio, dell’ordo monasticus.

Lo stesso termine canonicus, richiamando la conformità ad una regola, prescritta dai canonici ecclesiastici, che garantisse un ordinato svolgimento della vita communis del clero, presenta una notevole complessità semantica, dovuta alle evoluzioni concettuali che conobbe tra la tarda antichità e i secoli centrali del medioevo. L’ideale della vita comune a imitazione degli Apostoli era già ampiamente diffuso presso il clero altomedievale, tuttavia esso veniva realizzato nelle forme più diverse, presso i capitoli cattedrali, le canoniche cittadine o le pievi nel mondo rurale; questa pluralità e varietà di forme fece sì che, almeno fino al secolo XI, non fosse possibile una netta distinzione tra canonico regolare e canonico secolare. Fu solo a partire dall’età franca che le comunità di chierici assunsero norme liturgiche ed una condotta di vita che iniziarono a delineare più chiaramente il loro status all’interno della Chiesa. Con la Institutio Canonicorum Aquisgranensis dell’816, promossa dall’imperatore Ludovico il Pio, vennero individuate specifiche funzioni connesse all’ufficio Canonicale, cercando così di distinguere lo stato di vita canonico da quello monastico, per il quale bisognava vivere secondo la Regula Benedicti, nella cui osservanza i sovrani franchi cercarono di uniformare il monachesimo occidentale. L’Institutio però, pur concependo la povertà personale come base della vita comunitaria, non la impose come condizione obbligatoria per tutto il clero regolare, ragion per cui i canonici, ad quotidianum officium divinumque mysterium delegati, continuarono spesso a possedere i beni personali. La disponibilità di beni mobili e immobili concessa ai canonici delle cattedrali e delle chiese collegiate e il loro vivere quasi laicorum more, unitamente ad altri fattori, condussero nell’arco di due secoli ad un’evoluzione del fenomeno Canonicale e alla definizione di un nuovo significato del concetto di canonicus, quello di canonicus regularis, cui era associata una nuova idea della vita communis, vicina alle istanze ed ai principi della riforma della Chiesa del secolo XI. I testi prodotti in ambiente Canonicale iniziarono a menzionare espressamente la vita regularis, la disciplina regolare, il ritorno alla vita apostolica, la ripresa della ecclesiae primitivae forma, esperienze “regolari” direttamente collegate al cosiddetto Reichskirchensystem e alla riforma gregoriana.

Si andò così delineando tra XI e XII secolo la tradizionale distinzione tra canonico secolare, colui che viveva nel mondo, e canonico regolare, la cui vita si svolgeva in comunità secondo l’osservanza di una regola. Tale distinzione emerge di fatto anche dal Libellus de diversis ordinibus et professionibus qui sunt in aecclesia, composto probabilmente da Reimbaldo di Liegi nella prima metà del XII secolo: vi erano canonici che vivevano nel secolo, nel mondo, possedendo beni personali, definiti espressamente seculares dall’autore, ma vi erano anche altri due ordini di canonici: quelli che si allontanavano il più possibile dal mondo, sia da un punto di vista fisico che spirituale, come i canonici di Prémontré, e quelli che vivevano alle porte delle città a contatto con i laici, da cui però si distinguevano per la vita condotta in comune secondo l’osservanza di una regola: è questo il caso della Canonica parigina di S. Vittore, ma anche della Canonica di S. Maria di Reno, presso Bologna. Questi due ordini di canonici erano quelli riconosciuti come regulares: essi sceglievano di vivere in comune osservando una regola Canonica sancita dai Padri della Chiesa ad imitazione dell’ideale della vita apostolica, rinunciando completamente alla proprietà personale.

La Canonica di S. Maria di Reno sorgeva poco a nord della chiusa di Casalecchio, sulla sponda destra del fiume, presso l’odierna località Croce. Non conosciamo la data precisa di istituzione della Canonica renana, anche se pare probabile una sua fondazione nei primi vent’anni del XII secolo, quando nacquero anche le altre canoniche del Bolognese, sviluppatesi da chiese preesistenti: S. Vittore e S. Giovanni in Monte, sui colli a sud della città, S. Barbaziano e la pieve di Monteveglio. Negli stessi anni vennero istituite le più note congregazioni regolari e reti Canonicali dell’Italia centro-settentrionale, S. Frediano di Lucca, S. Maria in Porto di Ravenna e S. Croce di Mortara, in parallelo alla nascita delle grandi congregazioni Canonicali di S. Vittore di Parigi, di S. Rufo e di Arrouaise, di dimensione europea. Queste canoniche nacquero e si svilupparono tra la fine del secolo XI e la prima metà del secolo XII, nel clima della riforma gregoriana e della lotta per le investiture. Nella seconda metà del secolo undecimo si era andata affermando sempre più, come è noto, la necessità di una complessiva e radicale riorganizzazione delle istituzioni della Chiesa, chiamate a rendere più efficace il compito della cura animarum nel quadro delle mutate condizioni politiche, economiche e sociali. Anche il mondo laico e gli ambienti popolari manifestavano d’altronde il desiderio di un rinnovamento della Chiesa e di una sua presenza più attiva nella vita reale, nella quotidianità; al tempo stesso da tali ambienti esterni al mondo ecclesiastico perveniva l’istanza di un diretto coinvolgimento dei laici nella dimensione ecclesiale, come testimoniano ad esempio le forme delle oblazioni e delle “donazioni” di se stessi alle canoniche o ai monasteri, chiari segnali dell’esigenza, anche da parte del laicato, di un ritorno al cristianesimo delle origini. Nel contesto dei cambiamenti politici ed ecclesiologici della seconda metà del secolo undecimo la vita comune del clero e l’istituzione delle canoniche regolari rappresentarono aspetti assai significativi della riforma della Chiesa condotta prima dai pontefici della Reichskirche e poi soprattutto da papa Gregorio VII. Le canoniche nel corso del XII secolo continuarono a svolgere un ruolo attivo, sul piano ecclesiologico così come su quello politico e sociale, che non si limitava ai rapporti con i grandi poteri universali; esse infatti a livello locale interagirono attivamente con i complessi sistemi delle strutture territoriali di base e con le istituzioni diocesane, presentandosi per lunghi decenni come organismi stabili dal punto di vista dell’organizzazione istituzionale, dotati di strutture in grado di garantire un ordinato svolgimento della vita comune del clero. È proprio questo il caso di S. Maria di Reno, le cui vicende cercheremo di analizzare alla luce di eventi che trasformarono profondamente non solo le istituzioni della Chiesa, ma la società europea nel suo complesso.

È dunque nel suddetto contesto politico e culturale, tanto vivace quanto complesso, che nacque e si sviluppò la Canonica di S. Maria di Reno. La sua prima attestazione documentaria risale al febbraio del 1136, quando l’arcivescovo di Ravenna Gualtiero, presule della chiesa metropolitica da cui dipendeva la diocesi di Bologna, emanò un privilegio a favore di Guido, priore della Canonica di S. Maria di Reno, e dei canonici  renani, con il quale concedette loro l’esenzione dal pagamento delle decime e il possesso di quelle versate alla Canonica medesima; in tal modo, quanto veniva versato alla Canonica a titolo di decima rimaneva per intero alla comunità, e poteva essere quindi investito in attività economiche che rappresentavano un considerevole cespite per i Renani. Da questo documento rilasciato dall’arcivescovo di Ravenna si può inoltre evincere la natura della congregazione di S. Maria di Reno, organizzata secondo la regola di S. Agostino. Ora, proprio l’arcivescovo Gualtiero, di origine bavarese, il cui nome è associato non a caso alla Canonica Portuense, si segnalò, durante il suo lungo episcopato (1118-1144), come insigne riformatore della Chiesa ravennate in un’epoca attraversata da istanze di rinnovamento religioso-ecclesiale e da tensioni riformatrici cui tanto avevano contribuito nel corso del secolo precedente Romualdo prima e Pier Damiani poi con un’efficace azione di carattere ideologico e culturale. È proprio questo il contesto spirituale, politico e culturale in cui papa Pasquale II, nella più ampia prospettiva del rinnovamento religioso-ecclesiale sancito dalla riforma gregoriana e caratterizzato da un più diretto controllo del Papato sulle chiese locali, nel 1116 approvò la regula portuensis, formalizzando così l’istituzione della  Canonica di Santa Maria in Porto, dalla quale uscì, come già sottolineato, l’arcivescovo riformatore Gualtiero. Infatti l’istituzione di centri nei quali coloro che avevano ricevuto gli ordini sacri potevano svolgere vita comune dopo aver espresso formale rinunzia ai beni di famiglia, diversamente dai canonici  dei capitoli delle cattedrali, i quali, anche dopo la professione, continuavano a godere delle rendite derivanti dai beni personali, incarnava in pieno, come già ampiamente rilevato, lo spirito della riforma gregoriana. Con ogni evidenza è proprio in questo clima che si colloca l’istituzione della Canonica di S. Maria di Reno da parte della Chiesa di Bologna.

Un secondo intervento dei presuli ravennati a favore della Canonica renana si registrò dieci anni più tardi, in data 8 ottobre 1146, quando l’arcivescovo Mosè emanò un nuovo privilegio in cui erano ribaditi i privilegi e le esenzioni fiscali già precedentemente concessi al monastero di S. Maria di Reno. Per secoli gli arcivescovi di Ravenna erano stati i principali rappresentanti del potere imperiale nella pianura padana meridionale, ruolo emerso con forza nel corso della lotta per le investiture, quando il titolare della cattedra di S. Apollinare, Guiberto da Parma, era stato eletto pontefice dal clero tedesco con il nome di Clemente III. Con la scomparsa di Guiberto ed il successivo concilio di Guastalla, durante il quale papa Pasquale II sottrasse temporaneamente le diocesi di Bologna e Piacenza alla metropoli ravennate, il potere politico di questa Chiesa diminuì progressivamente; tuttavia con questi interventi a favore dei canonici renani vediamo  come, ancora in pieno XII secolo, gli arcivescovi ravennati esercitassero una certa influenza sulle diocesi suffraganee, tra cui, appunto, Bologna.

La esenzioni fiscali concesse al monastero dall’arcivescovo ravennate Gualtiero nel febbraio del 1136, lo stesso anno vennero ribadite anche dal vescovo di Bologna Enrico. Il 27 agosto del medesimo anno fu poi papa Innocenzo II a confermare tali esenzioni mediante l’emanazione di un apposito privilegio solenne, cui ne seguì un secondo sette anni dopo, il 13 febbraio 1143. Queste  testimonianze documentarie attestano come già nel 1136 la comunità renana risultasse organizzata in base all’ordo canonicus, riconosciuto secondo la Regula beati Augustini. Si trattava di un riconoscimento dell’ordine Canonicale abbastanza precoce, se si pensa ad esempio per che una congregazione Canonicale importante come quella di S. Croce di Mortara la clausola di regolarità con l’ordine canonico riconosciuto secondo la regola di Agostino è documentato solo a partire dal 1168.

Nel dicembre del 1144 fu poi il papa bolognese Lucio II, già canonico in S. Maria di Reno, a rinnovare i privilegi della sua antica comunità. Questa sorta di competizione tra le Chiese di Ravenna, Bologna e Roma nella concessione di privilegi ai Renani testimonia con evidenza, oltre che l’importanza assunta da questa comunità, la volontà papale di sottrarre la Canonica  all’influenza della Chiesa metropolitica di Ravenna, legandone i destini alla Sede Apostolica e rafforzando al tempo stesso la Chiesa di Bologna  proprio in funzione antiravennate; a conferma di ciò, nel maggio del 1144 lo stesso papa Lucio II aveva confermato beni e diritti della Chiesa bolognese. La Sede Apostolica  inoltre affidò ai canonici  di S. Maria di Reno le chiese romane di S. Prassede e S. Prudenziana, con due privilegi emanati dai papi Anastasio IV e Adriano IV rispettivamente nel 1154 e nel 1155, affinché i Renani vi istituissero  l’ordo canonicus.

Nel 1149 i canonici  renani avevano ottenuto anche la chiesa di S. Salvatore, posta entro le mura cittadine, a seguito di un lungo contenzioso con l’abate del monastero ferrarese di S. Bartolomeo, che ne rivendicava il possesso; dopo anni di controversie fu soltanto l’intervento del cardinale Ubaldo, parente di papa Lucio II e con ogni probabilità già canonico renano, che nel 1149 riuscì ad imporre alle parti in causa una sorta di compromesso per cui ai monaci di S. Bartolomeo restava simbolicamente il patronato della chiesa di S. Salvatore, in virtù del quale l’abate avrebbe investito il priore di S. Maria di Reno del possesso di tutti i beni di proprietà di S. Bartolomeo situati  presso la chiesa di S. Salvatore, per la durata di 60 anni con il diritto di rinnovo; i canonici, chiamati comunque a riconoscere i diritti del monastero ferrarese, erano tenuti dal canto loro a consegnare una libbra di cera ogni anno durante la festività di S. Bartolomeo. Inoltre l’abate di S. Bartolomeo aveva ceduto ai canonici, per il prezzo di 13 lire lucchesi, una vigna posta in un luogo detto Pasteno, che un contratto enfiteutico del 1090 indicava nei pressi del Reno. L’episodio di questa lite brillantemente vinta dai canonici  renani è indicativo del loro accresciuto potere economico e politico, attestato dallo straordinario favore accordato dai papi alla Canonica di S. Maria di Reno di cui il privilegio di Eugenio III del 13 maggio 1150 è solo l’ennesima testimonianza; il pontefice infatti confermò tutti i privilegi e le proprietà dei canonici  renani, tra le quali iniziò ad essere menzionata, appunto, anche la chiesa cittadina di S. Salvatore. A partire da questo privilegio iniziano ad essere menzionati nella documentazione anche i titoli delle chiese dipendenti da S. Maria di Reno: nel 1150 sono solo tre, S. Salvatore a Bologna, S. Andrea in Turricella, forse presso S. Pietro in Casale, e S. Donnino presso Bagno. Nel 1154 si aggiunsero S. Maria in Raticosa e S. Giacomo di Casadio presso S. Giorgio di Piano, ed inoltre l’importante ponte sul Reno, posto nei pressi della Canonica, cum suis possessionibus.

Nel 1169 Alessandro III riconfermò gli stessi beni e nel 1177 all’elenco delle chiese ed al ponte fu aggiunto locum ipsum in quo predicta ecclesia constructa est cum omnibus pertinentiis suis, nonché la chiesa romana di S. Prassede; non compare invece la chiesa di S. Giacomo di Casadio, che però fu di nuovo inserita nel privilegio di Alessandro III nel 1178, mentre la menzione di S. Maria in Raticosa scomparve definitivamente. Fra gli altri beni di proprietà della Canonica tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo si segnalano anche l’ospedale di Casaiola, sull’Appennino tra Lizzano e Roffeno, menzionato in un privilegio concesso ai Renani da papa Urbano III nel 1186 e la chiesa di S. Maria della Guardia, oggi il noto santuario della Madonna del Monte di S. Luca, citata in un atto di concessione emanato dal vescovo Gerardo Ariosti dopo il 1198. Contestualmente però la chiesa di S. Maria della Guardia era divenuta oggetto di una lunga e spinosa controversia fra i Renani e la conversa Angelica, che ne era stata la fondatrice; solo dopo la morte di costei la chiesa venne definitivamente inserita fra i possessi della Canonica da Onorio III nella bolla del 1217. Inoltre un documento parmense del 1172 attesta come molto probabilmente fosse sottoposta alla giurisdizione dei Renani anche la Canonica regolare di S. Felicula e S. Sepolcro di Parma, dimostrando l’importanza e l’ampiezza della rete Canonicale di S. Maria di Reno, comprendente anche comunità religiose esterne al territorio della diocesi bolognese.

Ai Renani era stata dunque concessa la giurisdizione sul locum ipsum in quo predicta ecclesia constructa est cum omnibus pertinentiis suis, cioè di fatto su buona parte dell’odierna Casalecchio; questo era l’area nella quale i canonici renani potevano vantare il maggior numero di diritti e beni e dove, oltre a controllare l’importantissimo ponte sul Reno, detenevano diritti di giuspatronato sul monastero di S. Martino. Più in generale i canonici detenevano ingenti proprietà fondiarie e diritti giurisdizionali su larga parte di quel territorio di alta pianura posto ad ovest di Bologna, tra il fiume Reno ed il torrente Lavino. In particolare in quest’area essi controllavano la comunità di Ulmetula, l’odierna Medola, sulla cui chiesa i canonici renani mantennero diritti di giuspatronato fino al XX secolo. Le vicende di questa comunità parrocchiale risultano alquanto emblematiche circa la natura dei poteri esercitati dai Renani sulle comunità, ecclesiastiche o laiche, ad essi soggette, e ci consentono di ipotizzare l’esistenza di una vera e propria signoria fondiaria facente capo alla Canonica di S. Maria di Reno.

Presso Medola i canonici possedevano beni immobili già nel XII secolo, come attesta un documento del 4 gennaio 1180, con il quale il capitolo della cattedrale di S. Pietro concedette in enfiteusi a Pietro e ai suoi eredi due pezze di terra poste in Olmetola, nel luogo detto Stradella; tale luogo confinava con proprietà del monastero di S. Salvatore: “Finis vero cuius esse videtur…desuper possidet ecclesia Sancti Salvatoris,… ”. Una sentenza del 6 settembre 1215, rogata dal celebre maestro di ars notarie Ranieri da Perugia, risulta poi la prima attestazione documentaria della chiesa di S. Michele di Olmetola, della quale, inoltre, si possono ipotizzare legami diretti con il vicino monastero di S. Prospero di Panigale e con il monastero stefaniano. Essendo sorto un contenzioso tra Giovanni, rettore della chiesa di S. Michele de Olmedola, ed alcuni privati in merito al mancato pagamento delle decime, papa Innocenzo III aveva ordinato che la soluzione della controversia venisse affidata a Ubaldo, presbiter et prepositus comunitatis Sancti Prosperi, e a Rusticus, prepositus del monastero di S. Stefano. La sentenza ribadì come i privati chiamati in causa dal rettore fossero tenuti a versare le decime alla chiesa di Olmetola; tra questi privati compare il nome di Lorenzo di Guido de Gisleriis, appartenente appunto alla grande famiglia bolognese dei Ghisleri; va detto che tale famiglia, legata dunque alla chiesa di Olmetola, era in stretti rapporti con la Canonica renana, cui diede anche un priore qualche decennio più tardi.

I Renani dunque possedevano beni in  questo luogo, avevano legami con i proprietari della zona e, almeno a partire dal 1232, estesero la loro giurisdizione anche alle due chiese di Olmetola, S. Michele e S. Biagio, come ci conferma lo stesso abate Trombelli; egli infatti ci riporta una controversia per il giuspatronato sulla chiesa di Medola avvenuta nel 1232 fra i canonici  renani, guidati dal priore Tommaso Ubaldini, futuro vescovo di Imola, e il vescovo di Bologna Enrico; il contenzioso si chiuse con un successo dei Renani. Il Trombelli aggiunge poi che “effetto di tal giurisdizione” acquisita su Medola fu la ratifica da parte dei Canonici  renani dell’elezione del rettore di S. Biagio di Ulmedola. Parallelamente però, dopo questa controversia con il vescovo Enrico del 1232, il priore Tommaso dovette cedere i diritti di giuspatronato sul monastero di S. Martino di Casalecchio alla famiglia dei conti Alberii de Castello e di Tiberio Marocci. Si trattava con ogni probabilità di giuspatronato “in condominio” con influenti famiglie laiche, come del resto avvenne anche a Medola, almeno fino alla fine del Duecento, con la famiglia dei Gombruti; questo giuspatronato “in condominio”, peraltro abbastanza diffuso nella campagne medievali, è testimoniato da rogiti notarili di “presentazione” del rettore, la cui elezione, spettante ai Gombruti e ai parrocchiani, veniva poi ratificata dal priore di S. Maria di Reno e di S. Salvatore. Nelle elezioni dei rettori successivi i Gombruti non vengono però più menzionati, in quanto dovevano aver ceduto i loro diritti alla Canonica renana. 

Un altro cespite di cui va sottolineata l’importanza per i Renani era inoltre costituito da quei beni a cui rinunciavano, a favore della comunità, tutti coloro che si facevano canonici  e conversi; assai significativo è a questo proposito il caso di Gerardo da Sala, proveniente da una famiglia di antichi vassi matildici, il quale, divenuto converso fra 1179 e 1182, portò alla Canonica un numero così elevato di beni fondiari, situati nella pianura bolognese, che i privilegi papali arrivano a menzionarli espressamente come possessiones que fuerunt Gerardi de Sala. Su tali proprietà immobiliari, in continuità con il dominio dei da Sala, così come sulle altre numerose comunità del Bolognese soggette alla loro giurisdizione, i Renani dovevano detenere poteri signorili, connessi all esercizio di prerogative di natura pubblica. Possedere un patrimonio immobiliare così vasto e controllare un luogo così importante sul piano strategico significava anche detenere un ragguardevole peso politico, ragion per cui il Papato doveva avere tutto l’interesse a garantirsi l’appoggio di tale comunità.

L’importanza politica della Canonica renana era ben chiara anche agli imperatori. Con diploma emanato in Würzburg nel febbraio del 1163 o nel maggio-giugno del 1165 (DF.I. 486), l’imperatore Federico I prese i canonici renani e il loro patrimonio sotto la propria protezione. L’abate Trombelli menziona inoltre una donazione di beni da parte del Barbarossa: “Obiit Federicus imperator in transmarinis partibus patronus ecclesie sancte Marie de Reno qui eidem ecclesie predium et alia bona contulit, anno Domini MCXC” . La protezione imperiale fu confermata ai canonici da Enrico VI, il quale, ottenuta dal padre ancora vivente l’amministrazione del Regnum Italie, durante il suo soggiorno bolognese dell’agosto 1187 emanò a favore di S. Maria di Reno un diploma che ratificava quanto già decretato da Federico I. Analogamente al padre, Enrico prese sotto la protezione dell’Impero la Canonica di S. Maria di Reno, i confratelli e i canonici  ivi residenti, unitamente a tutte le persone appartenenti alla Canonica, ai coloni da essa dipendenti e a tutti loro beni mobili e immobili, presenti e futuri, vietando a chiunque di molestare i canonici, di sottrarne i beni e di imporre tributi ingiusti alle persone appartenenti al monastero e ai coloni da esso dipendenti. La conferma dei privilegi di chiese locali e monasteri rivestiva un ruolo centrale nella Italienpolitik degli imperatori svevi, in quanto il sostegno politico, economico e militare dei vescovi e degli abati più potenti rivestiva grande importanza nel confronto con i Comuni cittadini.

Negli stessi anni il favore del Papato nei confronti della Canonica renana si accentuò ulteriormente, in particolare negli anni di pontificato del lucchese Ubaldo Allucingoli, divenuto papa col nome di Lucio III, impegnato da un lato in una controversia con l’Impero per l’eredità dei beni matildini e dall’altro in un’opera di ridefinizione e sistematizzazione degli strumenti giuridici e politici della lotta all’eresia suggellata dalla nota bolla Ad abolendam del novembre 1184. In tale contesto di lotta all’haeretica pravitas e di rafforzamento delle istituzioni ecclesiastiche, papa Lucio III prese sotto la propria protezione i canonici  di S. Maria di Reno, proprio negli anni in cui, tra l’altro, veniva consacrato in S. Salvatore un altare dedicato a S. Tommaso Becket, da poco canonizzato, il quale probabilmente durante il suo soggiorno bolognese ebbe contatti con il cardinale Ildebrando, già canonico in S. Maria di Reno. Papa Lucio III infatti, con un privilegio emanato da Velletri in data 3 maggio 1182, conferì al priore Gerardo e ai suoi confratelli, su loro richiesta, la protezione apostolica, estesa naturalmente anche alle proprietà del monastero, tra cui la chiesa di S. Prassede, come già decretato dai papi Anastasio IV e Alessandro III, fatti salvi naturalmente i diritti del cardinale titolare di questa chiesa romana; il pontefice confermò ai Canonici  anche gli antichi diritti, le consuetudini e le esenzioni e i privilegi fiscali già accordati loro dai vescovi di Bologna Enrico e Gerardo a bone memorie; Lucio III confermò poi ai Renani il diritto di ospitare i pellegrini, di riscuotere le decime sui terreni di loro proprietà, di eleggere il priore, di essere ordinati da qualsiasi vescovo, così come il diritto alla libera sepoltura; era fatto divieto a ciascuno di imporre tributi ingiusti alla comunità, e si vietava inoltre al canonico che avesse già fatto la sua professione di abbandonare la comunità senza autorizzazione; in questo caso era riconosciuta all’abate la facoltà di scomunicarlo una volta effettuati tre richiami.

Da un altro documento di Lucio III, emanato il giorno successivo, il 4 maggio 1182, apprendiamo inoltre che i canonici  renani detenevano il giuspatronato della pieve di Sala, trasmesso loro dal neo converso Gerardo, di cui già si è detto; con tale atto papa Lucio III affidò all’abate di S. Procolo e al priore di S. Vittore e S. Giovanni in Monte la ricomposizione della lite riguardante l’elezione dell’arciprete di Sala Bolognese, il cui patronato spettava al priore di S. Maria di Reno, dopo che costoro avevano comunicato che il detto priore, designato come arbitro dalle parti in causa, aveva vietato, a causa di manifeste irregolarità nella scelta dei due candidati, l’assunzione del titolo arcipretale da parte del cappellano dell’abate di S. Stefano di Bologna; il pontefice inoltre incaricò l’abate di S. Procolo e il priore di S. Vittore di giudicare la causa, costringendo con sanzioni ecclesiastiche il cappellano di S. Stefano a comparire in giudizio, pena l’esclusione dal ricorso.

Il 24 novembre dello stesso 1183, stavolta da Anagni, papa Lucio III ordinò al vescovo di Ferrara Tebaldo di revocare la vendita dell’ospedale di Casaglia, di cui era stato informato, effettuata dal priore di S. Maria di Reno a favore dell’arciprete di Roffeno, con esclusione dal ricorso, se l’alienazione di questo bene ecclesiastico, rigorosamente vietata dal diritto canonico, si fosse effettivamente realizzata; il vescovo doveva quindi restituire il denaro all’arciprete di Roffeno e, qualora la Canonica renana avesse subito un danno economico e patrimoniale, pervenire ad un accordo tra le parti, oppure, qualora il tentativo di intesa fosse fallito, giudicare secondo la legislazione Canonica.

Infine il 23 maggio 1185, da Verona, papa Lucio III scrisse a tutti i vescovi, confermando che i canonici  di S. Maria di Reno, in merito alla loro ordinazione, potevano scegliere liberamente il vescovo che li avrebbe consacrati, come già accordato loro dai vescovi di Bologna e dai precedenti pontefici; il papa ordinò ai vescovi che, qualora un esponente della congregazione avesse richiesto loro l’ordinazione, essi avrebbero dovuto effettuarla in ottemperanza al privilegio papale; i canonici  renani dovevano pertanto mantenere la loro libertà di scelta in merito all’ordinazione.

L’ampio favore manifestato dal Papato nei confronti della Canonica renana nasceva dunque, con ogni evidenza, dalla volontà di garantirsi un ampio sostegno da parte di una istituzione situata lungo uno dei crocevia più importanti d’Europa e dotata di considerevoli beni e ricchezze derivanti dagli importanti privilegi fiscali, dalle elemosine dei pellegrini e di quanti, varcato il fiume, soggiornavano presso l’ospizio della comunità renana e dal controllo del ponte sul Reno, infrastruttura di primaria importanza in quanto poneva in comunicazione Bologna, e quindi l’Italia padana, da un lato con la valle del Reno, e quindi con Pistoia e Firenze, dall’altro con la via Claudia o Petrosa, l’odierna Bazzanese, che conduceva verso il Modenese; con ogni probabilità a partire dagli ultimi decenni del XII secolo venne imposto un pedaggio alle persone e alle merci che transitavano sul ponte.

Il forte sostegno dei papi allo sviluppo della Canonica renana aveva però anche altre ragioni, che vanno probabilmente poste in relazione, più in generale, con la grande novità ecclesiastica, istituzionale e culturale rappresentata dalle canoniche regolari medesime. Sostenere l’ascesa delle congregazioni Canonicali aveva infatti anche un importante significato ideologico per il Papato, soprattutto in anni di forte contrapposizione con l’Impero; significava promuovere lo sviluppo di comunità nate dalla riforma del secolo XI e dalla “rivoluzione” di Gregorio VII, cha aveva affrancato il Papato dall’Impero e aveva posto la Chiesa di Roma a capo della Chiesa universale. Significava inoltre promuovere lo sviluppo di comunità che, godendo di un’ottima fama spirituale, avevano dato e avrebbero dato numerosi cardinali e addirittura papi alla Chiesa di Roma. Pertanto il particolare interesse giuridico dimostrato dai pontefici nei confronti delle canoniche regolari nel corso del XII secolo, in decenni contraddistinti da un’importante maturazione istituzionale delle strutture della Chiesa, era stato molto probabilmente favorito dalla provenienza di numerosi titolari della Cattedra di Pietro proprio dal mondo delle congregazioni regolari. In S. Maria di Reno fu canonico il bolognese Gherardo Caccianemici, eletto papa con il nome di Lucio II, la cui presenza è attestata anche presso la Canonica di S. Frediano di Lucca; prima di lui lo era stato forse anche Onorio II, al secolo Lamberto Scannabecchi, imolese; assai meno probabile, invece, la presenza di Innocenzo II, il romano Gregorio Papareschi, il quale fu comunque canonico regolare di S. Giovanni in Laterano. L’inglese Adriano IV era stato canonico in S. Rufo di Avignone. L’attenzione di questi papi per il mondo delle canoniche regolari derivava quindi molto probabilmente anche dalla loro specifica formazione. 

Le canoniche regolari, soprattutto nel corso del XII secolo, sembrano quasi configurarsi come una tappa obbligatoria nella formazione di quanti ambivano ai più alti incarichi della Chiesa. Pertanto questo importante ruolo nella formazione dell’alto clero e questi legami diretti con gli ambienti della curia romana dovettero rappresentare una ragione fondamentale del sostegno accordato dai papi alle canoniche regolari. Tramite il sostegno a comunità direttamente legate al Papato i pontefici potevano anche, in qualche modo, riaffermare la loro autorità su territori distanti da Roma e nei quali si erano affermati regimi comunali spesso non rispettosi dei diritti della Sede Apostolica e talora schierati a favore dell’imperatore, una scelta di campo non di rado sostenuta dagli stessi vescovi cittadini e in alcuni casi persino da congregazioni Canonicali, come nel caso della Canonica bolognese di S. Vittore e S. Giovanni in Monte: quest’ultima infatti, ottenuta la protezione imperiale già nel 1159, nell’ambito dello scontro tra Alessandro III e il Barbarossa assunse un atteggiamento filo-imperiale, dettato forse anche dalla tradizionale rivalità con S. Maria di Reno, tanto legata alla Chiesa di Roma. Probabilmente il fatto che una delle due canoniche cittadine avesse assunto un orientamento favorevole all’Impero indusse il Papato, impegnato in un duro scontro ideologico, ad accrescere ulteriormente il proprio sostegno a favore dell’altra, premiandone la fedeltà con la concessione di nuovi privilegi.

Inoltre è ben noto che la Chiesa di Bologna sostenne l’azione del Papato e che il comune cittadino si configurò, a partire dallo scontro con il Barbarossa, come uno dei principali fautori della lega lombarda; tuttavia gli stessi rettori del comune non furono sempre del tutto in linea con la politica papale e la città fu in alcune fasi amministrata anche da podestà legati agli Svevi, in primis il giudice Bezo e Guido di Canossa nei primi anni di Federico I; quest’ultimo poi intrattenne notoriamente importanti relazioni con i giuristi dello Studio cittadino. Ancora, a partire dalla seconda metà del XII secolo il comune di Bologna, in forte ascesa economica e politica, così come del resto gli altri Comuni cittadini dell’Italia centro-settentrionale, fu impegnato in un’azione di sottomissione del contado che non risparmiò le aree sottoposte alla Canonica renana ed il territorio casalecchiese, dove si trovavano il già citato ponte, il canale di Reno e l’antica chiusa, il cui controllo risultava di particolare importanza per la città di Bologna. Già nel 1176 il comune cittadino si era assicurato il controllo della chiusa e del canale di Savena, a oriente della città; poco più di trent’anni dopo, il 30 o 31 maggio 1208 venne invece siglato un importante accordo con i Ramisani di Casalecchio: il consorzio riconobbe al comune i diritti di sfruttamento del canale, in modo particolare delle acque che risultassero superflue alle attività imprenditoriali dei Ramisani.  Tale accordo sancì di fatto il definitivo passaggio del canale di Reno e della grande chiusa casalecchiese sotto il controllo del comune di Bologna. L’espansione del comune di Bologna doveva quindi, in qualche modo, aver leso gli interessi patrimoniali e politici della ricca e potente Canonica renana, tanto cara al Papato.

In conclusione si potrebbe ipotizzare che, al cospetto di una siffatta realtà politica, i pontefici avessero anche intravisto nell’ampio sostegno accordato a S. Maria di Reno la possibilità di limitare l’espansione di altri soggetti politici, nel tentativo di riequilibrare i poteri affermatisi nella città di Bologna e nel suo territorio.

 

Il forte legame che univa la Canonica di S. Maria di Reno al Papato si rafforzò ulteriormente nel Duecento, con l’avvento di Federico II, quando i canonici renani contribuirono attivamente a sostenere la legazione del cardinale Ugolino d’Ostia. Il quadro politico delle autonomie comunali nell’Italia settentrionale era destinato ad essere fortemente condizionato dai progetti di restaurazione dell’autorità imperiale voluta dal sovrano svevo, il quale, in linea con la politica già propria del padre e del nonno, si impegnò a riassumere il governo diretto del Regnum. In risposta alla politica federiciana riprese l’azione temporale della Santa Sede, realizzata in particolare mediante l’invio di legazioni apostoliche con competenze territoriali a largo raggio, come appunto quella del cardinale Ugolino d’Ostia (1221-1222), che di lì a breve sarebbe stato eletto papa con il nome di Gregorio IX. La missione affidata a questo prelato aveva come obiettivi primari la ricomposizione di quelle lotte fra i Comuni dell’Italia centro-settentrionale che tanto avevano indebolito il fronte guelfo, la lotta all’eresia e l’organizzazione di una nuova crociata in Terrasanta dopo il recente fallimento di Damietta. Tra la primavera e l’estate del 1221 il cardinale Ugolino fu dapprima in Toscana, a Milano e nell’Emilia occidentale alla ricerca di un sostegno politico e militare da parte delle autorità comunali in vista della crociata; scendendo verso sud, ottenne l’impegno per l’invio di armati da parte delle amministrazioni comunali di Reggio Emilia, Modena e della stessa Bologna. Già in questa fase della legazione i canonici  di S. Maria di Reno giocarono un certo ruolo, naturalmente a supporto della azione politica del Papato; nell’estate del 1221 infatti il vescovo di Bologna Enrico e il priore di S. Maria di Reno annunciarono al legato papale Ugolino d’Ostia che, conformemente ai suoi ordini, avevano ricevuto dalle fazioni di Piacenza come pegno l’importo di 2.000 marchi d’argento; tuttavia, a loro parere, conservare una simile somma non risultava affatto sicuro a causa dell’incombente minaccia sveva sulla città di Bologna, per cui richiesero al legato di affrettare il più possibile la conclusione dell’affare. Il sostegno offerto dalla Canonica di S. Maria di Reno all’azione politica e diplomatica del cardinale d’Ostia risulta inoltre attestato dal fatto che in numerosi atti emanati dal legato apostolico il priore Raniero compaia in qualità di testimone, a dimostrazione di una probabile  appartenenza del priore all’entourage del potente cardinale.

A conferma di questi legami, quando Ugolino giunse a Bologna nell’estate del 1221, stabilì come propria residenza la stessa Canonica renana. Il priore Raniero presenziò fra i testimoni, unitamente all’arcivescovo di Ravenna e ai vescovi di Bologna e Imola, alla stesura di un documento emanato dal cardinale il 30 agosto 1221 nel palazzo vescovile di Bologna, con il quale Ugolino ordinò al patriarca di Aquileia e alle sue chiese suffraganee di Padova e Treviso di mantenere rapporti pacifici, confermando al patriarcato di Aquileia proprietà e possedimenti territoriali e tutelando Gabriele di Prata e la Chiesa di Ceneda dalle rivendicazioni dei Trevigiani, tenuti ad abrogare tutte le norme statutarie lesive dei diritti della Chiesa. In generale Ugolino riuscì ad avviare trattative per la composizione di dissidi sorti a Milano, Ferrara, Treviso e Belluno, in lotta con il patriarca di Aquileia e il vescovo di Feltre e Belluno, ottenendo inoltre ampio sostegno al suo progetto di crociata da parte delle città emiliane, in primis proprio Bologna.

Nella stessa giornata del 30 agosto 1221, il cardinale d’Ostia emanò, stavolta direttamente in S. Maria di Reno, un secondo documento, con cui ordinò al podestà di Faenza di versare all’arcivescovo di Ravenna Simeone, entro il giorno di S. Michele, 400 denari ravennati per i danni arrecati dalle milizie faentine alle proprietà arcivescovili poste nel castrum di Lugo e di sciogliere gli abitanti di quel luogo da ogni obbligo nei confronti di Faenza, rispettando quanto già ripetutamente deliberato da papa Innocenzo III, il quale aveva imposto formalmente al Comune di Faenza di rinunciare ad ogni pretesa di giurisdizione in villa Luci et S. Potiti et castro Arioli, a tutela dei beni della chiesa di Ravenna. Sempre presso la Canonica renana, nel corso della stessa giornata, ovviamente alla presenza del priore Raniero, il vescovo di Imola Mainardo rinunciò ufficialmente, su ordine del legato, ad ulteriori richieste di indennizzo nei confronti dei Faentini, dopo che costoro, autori di incursioni e rapine a danno della chiese di Ravenna e Imola, avevano già versato agli Imolesi, su ordine dello stesso cardinal d’Ostia, 1000 soldi di denari bolognesi.

Tuttavia, durante il suo soggiorno sulle rive del Reno il cardinale Ugolino non si dedicò unicamente a faccende di ordine temporale, ma si occupò anche di questioni propriamente ecclesiastiche; fu proprio durante il suo soggiorno in S. Maria di Reno, infatti, che il cardinale, ottenuto l’assenso del pontefice Onorio III, formalizzò la sua decisione di far fronte alla decadenza del monastero pavese di S. Pietro in Ciel d’Oro introducendovi i canonici regolari dell’ordo Mortariensis. Sappiamo che tale decisione era frutto anche di richieste di numerosi prelati della provincia di Lombardia, nella quale i canonici mortariensi godevano di grande stima, ma molto probabilmente derivava anche dalla conoscenza del mondo delle canoniche regolari da parte del futuro Gregorio IX e quindi dai suoi legami con le congregazioni Canonicali, presso uno delle quali, non a caso, aveva stabilito la sua  residenza, alle porte di Bologna.

Nel settembre del 1221, apud monasterio de Columberio, il monastero cistercense di Colombaro di Formigine, nel Modenese, ritroviamo ancora il priore della Canonica renana, Raniero, al seguito del cardinal d’Ostia; Ugolino aveva dunque lasciato, forse solo temporaneamente, la Canonica, ma il priore Raniero l’aveva seguito, come ormai avveniva di consueto. In tale circostanza Maceratus, syndicus et procurator del Comune di Imola, giurò, su ordine del legato, di porre fine ad ogni contesa con la città di Faenza, rinunciando ad ulteriori richieste di indennizzo per i danni subiti e ad ogni ricorso giudiziario presso il papa o l’imperatore o loro vicari, dopo che i Faentini avevano già versato al legato papale 2500 soldi di denari bolognesi.

Dopo circa due mesi, in data 27 ottobre 1221, Ugolino era di nuovo a Bologna; qui, in capella domini episcopi, il podestà di Ferrara Adelardinus de Capite Pontis promise solennemente al legato Ugolino, nomine domini archiepiscopi et ecclesie Ravenatis et tanquam legato apostolice sedis negotia Ravenatis ecclesie procuranti, che la città da lui amministrata sarebbe scesa in giudizio davanti ai delegati della Sede Apostolica nelle controversia con l’arcivescovo di Ravenna. Grazie al sostegno politico ricevuto, il cardinale Ugolino cedette formalmente alla città di Ferrara, che aveva giurato fedeltà alla Chiesa, la giurisdizione sulla  Massa Fiscalia per un censo annuo di 30 marchi d’argento; parallelamente però, gli abitanti della Massa fecero atto di sottomissione alla Chiesa, la quale rimase di fatto la vera padrona di questo centro situato nei territori vallivi del Basso Ferrarese.

Con il Duecento tuttavia la comunità renana entrò progressivamente in una crisi irreversibile, che investì tanto gli aspetti temporali legati alle questioni politiche e alla gestione del cospicuo patrimonio, quanto la sfera spirituale; tale crisi, morale e materiale, portò ad una drastica riduzione del numero dei canonici, annullando quasi del tutto quella fama di fervore religioso che aveva contraddistinto la comunità fin dagli esordi. La causa principale di questa situazione risiedeva probabilmente nel fatto che i Renani erano ormai impegnati quasi esclusivamente in affari temporali e nella gestione del vasto patrimonio immobiliare, per tutelare il quale dovettero investire tempo, denaro e risorse in lunghe e difficili contese giudiziarie, a cominciare proprio da quella con la conversa Angelica, cui si accennava in precedenza; proprio da tale contenzioso, svoltosi negli anni di Innocenzo III ed avente per oggetto il controllo di quella chiesa destinata a divenire il noto Santuario della Madonna di S. Luca, si evince poi come di fatto, ormai, i conversi che entravano a far parte della comunità rimanessero proprietari, almeno in parte, di quei beni familiari cui precedentemente si era tenuti a rinunciare a favore della Canonica.

Sempre ai primi del Duecento un tale di nome Domenico, che aveva costruito tra Borgo Panigale e Lavino l’ospedale dello Spirito Santo, si fece canonico di S. Maria di Reno, trasferendo alla Canonica le sue proprietà, tra cui l’ospedale, con le terre annesse; i canonici renani controllavano così, a questo punto, sia l’ospitale di Reno che quello di Lavino. Il possesso dell’ospedale dello Spirito Santo da parte dei Renani venne duramente contestato sia da papa Innocenzo III che dal vescovo di Bologna Gerardo IV, i quali sostennero che i canonici  avessero estorto la professione di Domenico per incamerarne i beni immobili e l’ambito ospedale di Lavino. Il celebre canonista Uguccione da Pisa prima e il cardinale di S. Vitale poi, incaricati di dirimere la questione, decisero che l’ospedale doveva tornare in possesso di Domenico.

Il coinvolgimento in questioni politiche, patrimoniali e giudiziarie aveva indebolito drasticamente l’antico spirito religioso che animava la Canonica renana, ma ad aggravarne ulteriormente le condizioni morali e materiali intervennero anche altri fatti. Anche la Canonica di S. Maria di Reno venne infatti travolta da quelle sanguinose lotte di fazione che laceravano la società bolognese nella seconda metà del Duecento; nel 1272, alla morte del priore Guezo, le clientele armate dei Galluzzi occuparono il monastero cittadino di S. Salvatore, dove in quel momento risiedevano i canonici; otto di loro si rifugiarono presso il vescovo cittadino, mentre gli altri sei, con i conversi, restarono in S. Salvatore, provocando così una scissione che per svariati anni vide i Renani divisi tra due comunità diverse, rette da due priori diversi. Le conseguenze dello scisma interno alla comunità furono ovviamente disastrose e causarono una grande dispersione dei beni della Canonica.

Anche una volta ricomposto lo scisma a inizio Trecento, lo splendore del passato rimase soltanto un ricordo. Nei decenni del Papato avignonese si avvicendarono ancora alla guida della comunità priori dotati di notevoli qualità sul piano morale, culturale ed amministrativo, come il giurista Alberto dei Noti, e i due Ghisleri, Raniero prima e Francesco poi; quest’ultimo tra l’altro riuscì ad ottenere la convalida della propria elezione solo dopo una lunga controversia con la Santa Sede, che aveva proposto la candidatura del canonico francese Michele Sarlando. La caotica situazione politica e militare venutasi a creare con il trasferimento in Francia della curia papale, con i conseguenti tentativi di restaurazione imperiale condotti da Enrico VII e da Ludovico il Bavaro e l’ascesa delle grandi signorie ghibelline del mondo padano, i Visconti in primis, ebbe naturalmente forti ripercussioni anche su Bologna; nella nostra città, il vuoto politico causato dalla crisi degli ordinamenti comunali e dalla debolezza del potere papale, portò all’ascesa della signoria di Bertrando del Poggetto prima, dei banchieri Pepoli poi, ed infine dei Visconti, che ressero la città con l’arcivescovo Giovanni e, alla sua morte, con Giovanni da Oleggio; proprio nell’ambito delle lotte tra l’Oleggio, Bernabò Visconti, e il cardinale Albornoz, disceso in Italia per restaurare l’autorità pontificia, l’antica Canonica di Reno, divenuta ormai insicura e costante preda di soldataglie e razziatori, venne trasformata in una bastia, un luogo fortificato, mentre i Renani si trasferirono definitivamente in S. Salvatore, all’interno delle mura cittadine.

 

[1] F. Bocchi, Il necrologio della Canonica di S. Maria di Reno e di S. Salvatore di Bologna: note su un testo quasi dimenticato, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna», s. 6, XXIV (1973), pp. 53-131.