Incostituzionale il social housing della regione Campania ma la consulta dimentica la legge Caldoro

Prime osservazioni a margine della sentenza della corte costituzionale n. 140 del 5 luglio 2018: una sentenza “inutiliter data”?
Incostituzionale il social housing della regione Campania ma la consulta dimentica la legge Caldoro
Incostituzionale il social housing della regione Campania ma la consulta dimentica la legge Caldoro

I Parte

Per visionare la II Parte clicca qui.

 

Indice

1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 140 del 5 luglio 2018: tanto tuonò che piovve

2. L’esegesi del principio violato: “l’opera abusiva non può essere sottratta al suo normale destino, che è la demolizione

3. La mancata estensione degli effetti della sentenza di illegittimità costituzionale alla legge “Caldoro” n. 5 del 6 maggio 2013: una sentenza “inutiliter data”?

 

1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 140 del 5 luglio 2018: tanto tuonò che piovve 

Non è un mistero che la legge della regione Campania n. 19 del 22 giugno 2017, dal titolo “Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai Comuni in materia di governo del territorio”, avesse provocato, già all’indomani della sua pubblicazione, un vero e proprio pandemonio, allertando le vestali del rule of law.

In particolare, le associazioni ecologiste più rappresentative a livello nazionale avevano gridato allo scandalo, lamentando che tale legge rappresentava “un pericolosissimo passo indietro nella lotta all’abusivismo edilizio in un territorio in cui il ciclo delle edificazioni illegali rappresenta una vera e propria piaga, oltre che uno storico business legato alla criminalità organizzata”.

Anche i portavoce di Green Italia avevano colto la palla al balzo per sottolineare che, «con il d.l. sulle misure alternative alle demolizioni degli immobili abusivi approvato recentemente dal Consiglio regionale della Campania, siamo di fronte all’ennesima mostruosità legislativa di una classe politica incapace di gestire il territorio, di far rispettare la legge, di pensare al bene collettivo e non al singolo soggetto, per di più fuorilegge. L’acquisizione al patrimonio pubblico delle opere abusive, con la formalizzazione della bufala dell’abusivismo di necessità e l’indecente riassegnazione delle case abusive sotto forma di canone sociale, è un insulto allo stato di diritto e alle persone oneste».

In una sorta di crescendo rossiniano, questi ultimi avevano, poi, concluso che «il provvedimento voluto dalla giunta De Luca è il ‘tana libera tutti’ per l’ennesima ondata di abusivismo edilizio e le pendici del Vesuvio messe volontariamente e criminalmente a fuoco probabilmente anche per fare spazio a nuovi immobili abusivi sono la dimostrazione che al peggio non c’è mai fine».

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 140 del 5 luglio 2018, ha raccolto questo grido di dolore e bocciato la legge regionale n. 19 del 2017, ritenendo fondato il ricorso proposto il 21 agosto 2017 dal Presidente del Consiglio dei Ministri dietro sollecitazione proprio delle predette associazioni ecologiste.

Per l’esattezza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2, di tale legge per violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost. ma ha anche lasciato inavvertitamente qualcosa per strada che alimenta non pochi spunti problematici, come si avrà modo di dimostrare nel prosieguo del presente contributo.

Intanto va subito puntualizzato che il comma 1 dell’articolo sottoposto a scrutinio prevede che, al fine di perseguire indirizzi uniformi in ambito regionale, la Giunta regionale «adotta linee guida non vincolanti per supportare gli enti locali nella regolamentazione ed attuazione, se ne ricorrono i presupposti, di misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi ai sensi dell’articolo 31, comma 5 del D.P.R. n. 380/2001» (primo periodo).

Tali linee guida sono approvate dalla Giunta regionale entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge regionale, su proposta della struttura amministrativa regionale competente in materia di governo del territorio, «con riferimento a quanto previsto dal comma 2» (secondo periodo).

Il comma 2 stabilisce, inoltre, che, «ferma restando l’autonoma valutazione dei Consigli comunali sull’esistenza di prevalenti interessi pubblici rispetto alla procedura di demolizione dei beni acquisiti al patrimonio comunale, i Comuni, nell’ambito delle proprie competenze, possono avvalersi delle linee guida di cui al presente articolo per approvare, in conformità e nel rispetto della normativa nazionale vigente in materia, atti regolamentari e d’indirizzo riguardanti: a) i parametri e criteri generali di valutazione del prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione; b) i criteri per la valutazione del non contrasto dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico; c) la regolamentazione della locazione e alienazione degli immobili acquisiti al patrimonio comunale per inottemperanza all’ordine di demolizione, anche con preferenza per gli occupanti per necessità al fine di garantire un alloggio adeguato alla composizione del relativo nucleo familiare; d) i criteri di determinazione del canone di locazione e del prezzo di alienazione ad onerosità differenziata fra le superfici adeguate alla composizione del nucleo familiare e quelle in eventuale eccedenza; e) i criteri di determinazione del possesso del requisito soggettivo di occupante per necessità, anche per quanto riferito alla data di occupazione dell’alloggio; f) i criteri di determinazione del limite di adeguatezza dell’alloggio alla composizione del nucleo familiare; g) le modalità di accertamento degli elementi di cui alle lettere e), f) e del possesso dei requisiti morali di cui all’articolo 71, comma 1, lettere a), b), e), f) del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi del mercato interno); h) le modalità di comunicazione delle delibere consiliari approvate ai sensi dell’articolo 31, comma 5, del D.P.R. n. 380/2001 all’autorità giudiziaria che abbia ordinato, per gli stessi immobili, la demolizione ai sensi dell’articolo 31, comma 9, del D.P.R. n. 380/2001».

La Corte, a fronte di tali inequivoche previsioni, ha ritenuto violate le competenze legislative statali e tanto sebbene la Regione avesse sostenuto in giudizio che, con la normativa censurata, si era soltanto limitata ad approvare semplici  «linee guida prive di precettività e vincolatività ... per atti comunali meramente facoltativi, e quindi ipotetici ed eventuali, di cui non è dato ipotizzare […] alcuna lesione delle competenze legislative statali».

La Corte ha invece rigettato l’eccezione, osservando che, «diversamente da quanto affermato (...), nel ricorso è lamentata la violazione dell’art. 117 Cost. non da parte degli atti regolamentari o di indirizzo che i Comuni campani potranno eventualmente approvare in attuazione dell’articolo 2, comma 2, legge reg. Campania n. 19 del 2017, ma da parte di questa stessa disposizione (...).

Né è possibile dubitare dell’interesse dello Stato all’impugnazione di essa. La previsione dell’adozione, da parte della Giunta regionale della Campania, di linee guida per le misure alternative alle demolizioni di immobili abusivi, con riferimento, in particolare, a quanto previsto dall’impugnato comma 2, aventi la funzione di fornire criteri che possano orientare i Comuni nell’esercizio della discrezionalità amministrativa loro riconosciuta dall’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001, appare potenzialmente idonea a recare un vulnus alle invocate competenze statali in materia».

La Corte ha, in altri termini, ribadito quanto già previsto dal Testo Unico dell’edilizia all’articolo 31, comma 5, per il quale l’opera abusiva, una volta entrata nel patrimonio del comune, deve essere demolita e solo in via eccezionale, attraverso una valutazione da effettuarsi caso per caso, può essere conservata.

Secondo la Corte, infatti, l’unica misura prevista dal legislatore statale quale reazione dell’ordinamento agli abusi urbanistico-edilizi, “in considerazione della gravità del pregiudizio recato all’interesse pubblico”, è quella del ripristino dell’ordinato assetto del territorio “in modo uniforme in tutte le Regioni”.

Costituzionalmente illegittima è stata ritenuta dal giudice delle leggi anche la possibilità, espressamente prevista dall’articolo 2, comma 2, della legge regionale, di locare o alienare gli immobili acquisiti al patrimonio comunale una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione, qualunque sia il soggetto destinatario (occupante per necessità oppure no), per avere la suddetta disposizione trasformato quella “astratta possibilità” in un “esito normale”.

Ad avviso della Corte, il legislatore regionale, così facendo, ha operato in modo da violare sia il principio fondamentale della demolizione sia quello della conservazione in via eccezionale, ammissibile - quest’ultima - “soltanto se, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, sussista uno specifico interesse pubblico prevalente rispetto al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, e sempre che la conservazione non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico”.

La decisione in commento avverte, altresì, che il “disallineamento” della disciplina regionale rispetto al principio fondamentale della legislazione statale, che individua - come si è visto - nella demolizione “l’esito normale” dell’edificazione di immobili acquisiti al patrimonio comunale, “finisce con intaccare e al tempo stesso sminuire l’efficacia anche deterrente del regime sanzionatorio dettato dallo Stato all’articolo 31 del Dpr n. 380/2001” incentrato sulla demolizione dell’abuso, “la cui funzione essenzialmente ripristinatoria non ne esclude l’incidenza negativa nella sfera del responsabile”.

L’effettività delle sanzioni - ha, poi, concluso la Corte - risulta “ancora più sminuita nel caso di specie, in cui l’interesse pubblico alla conservazione dell’immobile abusivo potrebbe consistere nella locazione o nell’alienazione dello stesso all’occupante per necessità responsabile dell’abuso”.

In tale ipotesi, predeterminata per legge, l’illecito urbanistico-edilizio, nel suo divenire “procedimentale” in rapporto al regime sanzionatorio applicabile, potrebbe addirittura tradursi in un vantaggio per il trasgressore.

 

2. L’esegesi del principio violato: “l’opera abusiva non può essere sottratta al suo normale destino, che è la demolizione

Il principio affermato dalla Corte Costituzionale - a ben vedere - non è nuovo sia perché rappresenta il principio cardine del sistema sanzionatorio nel Testo Unico dell’edilizia sia perché ripetutamente affermato dalla giurisprudenza penale e amministrativa formatasi in materia.

Già da tempo, infatti, la Corte di Cassazione penale, nel ribadire l’assoluta  “normalità” della sanzione ripristinatoria quale conseguenza “naturale” della acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale, sia pure nella delicata materia della esecuzione penale dell’ordine giudiziale di demolizione, ha avuto modo di precisare, sul punto, quanto segue.

Per quanto attiene, specificamente, alla eventuale incompatibilità dell’esecuzione dell’ordinanza di demolizione con la delibera consiliare dichiarativa dell’esistenza di prevalenti interessi pubblici rispetto al ripristino dell’assetto urbanistico violato, si è osservato (Sezione III, n. 41339, 6 novembre 2008, non massimata) che essa presuppone che tale evenienza sia attuale e non meramente eventuale, non essendo consentito interrompere l’esecuzione penale per un tempo non definito e non prevedibile. Nella stessa occasione, si è precisato che la delibera in questione può ritenersi legittimamente emanata qualora ricorrano le seguenti condizioni: «1) assenza di contrasto con rilevanti interessi urbanistici e, nell’ipotesi di costruzione in zona vincolata, assenza di contrasto con interessi ambientali: in quest’ultimo caso l’assenza di contrasto deve essere accertata dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo; 2) adozione di una formale deliberazione del consiglio con cui si dichiari formalmente la sussistenza di entrambi i presupposti; 3) la dichiarazione di contrasto della demolizione con prevalenti interessi pubblici, quali ad esempio la destinazione del manufatto abusivo ad edificio pubblico, ecc.». Successivamente, richiamando i contenuti della decisione appena menzionata, si è ulteriormente stabilito che, a fronte di una deliberazione in tal senso da parte dell’amministrazione comunale, il giudice dell’esecuzione ha il potere di sindacare la delibera di acquisizione gratuita dell’opera abusiva al patrimonio comunale e ciò in considerazione della natura eccezionale di una simile situazione rispetto alla demolizione, la quale ordinariamente consegue all’accertamento dell’abuso edilizio, il che impone anche un’interpretazione particolarmente restrittiva circa la sussistenza dei presupposti che legittimano la deliberazione medesima (Sezione III, n. 11419, 11 marzo 2013).

Con l’occasione si è ricordato come analogo potere sia stato riconosciuto al giudice dell’esecuzione in tema di condono e permesso in sanatoria). Va conseguentemente affermato che la situazione particolare che viene a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale, sottraendo l’opera abusiva al suo normale destino, che è la demolizione, presuppone che la valutazione effettuata dall’amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e, oltre a rispettare le condizioni indicate dalla giurisprudenza appena richiamata, deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il quale va precisamente individuato, dando atto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi escludere che possano assumere rilievo determinazioni di carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o fondate su valutazioni di carattere generale (...).

 Inoltre, l’intervenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale non è ostativa all’emissione dell’ordine giudiziale di demolizione, in quanto anche lo scopo dell’acquisizione è quello di provvedere all’eliminazione del manufatto abusivo (Sezione III, n. 4962, 31 gennaio 2008; Sezione III, n. 1904, 23 gennaio 2007; Sezione III, n. 43294, 29 novembre 2005; Sezione III, n. 37120, 13 ottobre 2005; Sezione III, n. 26149, 15 luglio 2005; Sezione III, n. 49397, 23 dicembre 2004; Sezione III, n. 37120, 30 settembre 2003). Si è inoltre chiarito che, a prescindere dall’acquisizione del bene al patrimonio comunale, il soggetto condannato resta comunque il destinatario dell’ordine di demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di dare esecuzione, nelle forme di rito, all’ordine di demolizione a proprie cure e spese (Sezione III, n. 45703, 7 dicembre 2011; Sezione III, n. 37120, 13 ottobre 2005, cit.) poiché il trasferimento dell’immobile nella disponibilità dell’ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione (Sezione III, n. 49397, 23 dicembre 2004, cit.), e che, precedentemente alla delibera del consiglio comunale che decide la conservazione delle opere abusive per prevalenti interessi pubblici, i due procedimenti sanzionatori, attivati dall’autorità comunale e dall’autorità giudiziaria, sono non soltanto non incompatibili, ma convergenti (Sezione III, n. 43294, 29 novembre 2005, cit.)” (Cassazione Penale, Sezione III, 22 maggio 2013, n. 25824; negli stessi sensi, Cassazione Penale, Sezione III, 21 gennaio 2013, n. 11419, e Cassazione Penale, Sezione III, 17 febbraio 2016, n. 9864).

Ad identiche conclusioni - d’altronde - è pervenuto anche il giudice amministrativo nella decisione appresso indicata e in numerose altre similari.

Dalla disamina delle norme (...) emerge che l’acquisizione dell’opera al patrimonio comunale è finalizzata, in via ordinaria, alla sua demolizione da parte dell’amministrazione a spese dei responsabili dell’abuso. Il naturale destino del cespite è, dunque, quello della sua rimozione a meno che il comune, con apposita delibera consiliare, non dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico (quest’ultimo inciso è stato aggiunto dall’art. 54, comma 1, lettera h], della legge 28 dicembre 2015, n. 221). Così anche Cassazione penale, Sezione III, 22 maggio 2013, n. 25824, e T.A.R. Campania Napoli, Sezione II, 14 febbraio 2011, n. 928)” (T.A.R. Campania Napoli, Sezione VI, 28 giugno 2016, n. 3257; idem T.A.R. Campania Napoli, Sezione VI, 3 maggio 2016, n. 2206, nonché T.A.R. Campania Napoli, Sezione II, 4 luglio 2017, n. 3736).

In definitiva, l’interpretazione critica del principio ritenuto violato dalla Corte Costituzionale conduce alla conclusione che il naturale approdo del procedimento sanzionatorio (id est ripristino dello status quo ante) può essere scongiurato solo in via di eccezione ed, a tali fini, occorre un’apposita delibera con la quale il comune deve effettuare una mirata valutazione (dovendo, peraltro, dare conto con congrua motivazione delle scelte discrezionali all’uopo compiute) circa l’esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento dell’immobile.

Perché ciò avvenga, devono, comunque, sussistere le condizioni oggettive (e questa volta la scelta implica un accertamento di tipo vincolato) per conservare il manufatto ossia l’assenza di confliggenti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.

Facendo leva sul contenuto precettivo dell’articolo 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, la Corte, dopo aver sottolineato, in sentenza, che l’acquisizione al patrimonio comunale fa sì che il bene diventi pubblico, non comportando, tuttavia, che l’opera diventi legittima sotto il profilo urbanistico-edilizio, ha, conseguentemente, ribadito che «la demolizione dell’immobile abusivo acquisito al patrimonio comunale – con le sole deroghe previste dal comma 5 dello stesso articolo – costituisce un principio fondamentale della materia del governo del territorio.

L’aver previsto, infatti, che, a fronte delle violazioni più gravi della normativa urbanistico-edilizia – quali sono la realizzazione di opere in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto a esso – si debba fare luogo, da parte dello stesso responsabile dell’abuso o, in difetto, del comune che abbia perciò acquisito il bene, alla demolizione dell’opera abusiva, esprime una scelta fondamentale del legislatore statale. Quest’ultimo, in considerazione della gravità del pregiudizio recato all’interesse pubblico dall’opera abusiva, ha inteso imporne la rimozione – e, con essa, il ripristino dell’ordinato assetto del territorio – in modo uniforme in tutte le Regioni».

Tale principio - ha, infine, aggiunto - “vincola la legislazione regionale di dettaglio in materia di misure alternative alle demolizioni”.

 

3. La mancata estensione degli effetti della sentenza di illegittimità costituzionale alla legge “Caldoro” n. 5 del 6 maggio 2013: una sentenza “inutiliter data”?

Con la sentenza n. 140 del 2018, il giudice delle leggi ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2, della legge regionale n. 19 del 2017.

La lettera c) di tale disposizione prevede che gli atti regolamentari e d’indirizzo dei comuni «regolamentino la locazione e alienazione degli immobili acquisiti al patrimonio comunale per inottemperanza all’ordine di demolizione, anche con preferenza per gli occupanti per necessità al fine di garantire un alloggio adeguato alla composizione del relativo nucleo familiare».

Le successive lettere, da d) a g), della medesima disposizione si occupano di aspetti connessi e strumentali rispetto alle opzioni negoziali della locazione e della alienazione.

Nell’interpretazione datane dalla Corte, la norma, col prevedere la regolamentazione della locazione e dell’alienazione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale «anche con preferenza per gli occupanti per necessità», sta a significare che tali opzioni potrebbero risolversi a favore sia degli occupanti per necessità, anche «con preferenza» (al fine di garantire loro un alloggio adeguato alla composizione del nucleo familiare), sia di qualsiasi altro soggetto, persona fisica o ente, non occupante per necessità.

In entrambe tali ipotesi, la lettera c) non esclude – e, quindi, consente – che la locazione e l’alienazione possano favorire, in limine, il responsabile dell’abuso.

Nella prima ipotesi si può plausibilmente affermare che l’occupante per necessità si identifichi solitamente con il responsabile dell’abuso e che a questi venga accordata una «preferenza» nella locazione o alienazione degli immobili.

Quale che sia il soggetto cui gli immobili abusivi, acquisiti al patrimonio comunale, potrebbero essere locati o alienati, è di tutta evidenza che locazione e alienazione sono contemplate come esiti “normali” verso cui destinare i suddetti immobili.

Tale specifica previsione, come già ricordato, per le strette implicazioni che essa comporta, viola, secondo la Corte, “il principio fondamentale espresso dai commi da 3 a 6 dell’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001”.

Nulla da osservare se non fosse per il fatto che in Campania, prima ancora della entrata in vigore della legge regionale n. 19 del 2017, la possibilità per la P.A. di destinare gli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale a finalità di pubblico interesse mediante locazione o dismissione con titolo preferenziale a favore di coloro che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite, è stata già prevista dalla legge regionale del 6 maggio 2013, n. 5 (approvata sotto la Presidenza dell’ex Governatore Stefano Caldoro), che, all’articolo 1, comma 65, ha, appunto, stabilito quanto segue.

E qui casca l’asino!

Per favorire il raggiungimento degli obiettivi di cui all’articolo 7 della legge regionale 28/12/2009, n. 19 (Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa), gli immobili acquisiti al patrimonio dei comuni possono essere destinati prioritariamente ad alloggi di edilizia residenziale pubblica, di edilizia residenziale sociale, in base alla legge 22/10/1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’ edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17/08/1942, n. 1150; 18/04/1962, n. 167; 29/09/1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), nonché dei programmi di valorizzazione immobiliare anche con l’assegnazione in locazione degli immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, o a programmi di dismissione immobiliare. In tal caso il prezzo di vendita di detti immobili, stimato in euro per metro quadrato, non può essere inferiore al doppio del prezzo fissato per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica. I comuni stabiliscono, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e nel rispetto delle norme vigenti in materia di housing sociale di edilizia pubblica riguardanti i criteri di assegnazione degli alloggi, i criteri di assegnazione degli immobili in questione, riconoscendo precedenza a coloro che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite, previa verifica che gli stessi non dispongano di altra idonea soluzione abitativa, nonché procedure di un piano di dismissione degli stessi”.

Tale disposizione è, allo stato, pienamente vigente, non avendo, peraltro, mai formato oggetto di ricorso in via principale, per eventuale conflitto di attribuzione, ad opera del Presidente del Consiglio dei Ministri e nemmeno di questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale nel corso di un giudizio e davanti a un’autorità giurisdizionale.

Ciò posto, è innegabile che, per la corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non vi sia automatismo di effetti tra la sentenza n. 140 del 2018 e la disposizione (non oggetto del relativo giudizio) della legge regionale Caldoro n. 5 del 2013, che, tuttavia, prevede un principio analogo, se non identico, a quello dichiarato dalla Corte costituzionalmente illegittimo.

Quid iuris allora?

Se la Corte fosse stata messa a conoscenza dal ricorrente o anche dalla Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature (WWF Italia) ONLUS (il cui atto di intervento in giudizio è stato, comunque, dichiarato inammissibile) della esistenza, nella normativa regionale, anche di quella disposizione, di certo avrebbe potuto, in relazione ad essa, sollevare innanzi a sé questione di legittimità costituzionale sulla base delle medesime censure.

Una volta ritenuta fondata la questione, avrebbe, in sentenza, esteso anche alla legge Caldoro gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale.

Ciò non è avvenuto e non sembra azzardato ritenere che la sentenza n. 140 possa essere considerata, all’attualità, come “inutiliter data” alla luce del fatto che la legge Caldoro sopravvive eccome alla pronunzia di incostituzionalità, la quale - lo si ripete - ha attinto il solo articolo 2 della successiva legge regionale n. 19 del 2017.

Occorre rammentare, a tal proposito, che, secondo l’articolo 27 della legge n. 87 dell’11 marzo 1953, la Corte Costituzionale, «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime».

Il principio del chiesto e pronunciato, stabilito da questa disposizione e valido tanto con riferimento ai giudizi in via incidentale quanto in relazione ai giudizi in via principale, trova, peraltro, esplicita deroga nello stesso articolo 27, nella cui seconda parte si prevede che la Corte «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata».

Inserita allo scopo di evitare che una legge resti in vigore «quando un’altra, che ne costituisce il necessario presupposto e fondamento, sia dichiarata illegittima» (come si legge nella relazione illustrativa di accompagnamento alla legge n. 87 del 1953), tale disposizione è stata in seguito interpretata estensivamente dalla Corte, che ha utilizzato di fatto la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale in una ampia serie di ipotesi.

A titolo esemplificativo, è stato citato il caso in cui una disposizione non impugnata concorra, unitamente a quella impugnata, a produrre l’effetto incostituzionale, oppure l’ipotesi in cui una disposizione contenga la stessa espressione ritenuta incostituzionale o faccia esplicito riferimento alla disposizione impugnata, o ancora il caso in cui la disposizione si presenti come strumentale o comunque strettamente connessa alla regola sostanziale dichiarata illegittima, oppure quando, applicando la ratio decidendi della decisione di incostituzionalità, si perviene all’accertamento dell’illegittimità costituzionale di una disposizione diversa da quella impugnata dal giudice ma ritenuta dalla Corte analoga o simile e, dunque, affetta dallo stesso vizio di costituzionalità.

L’articolo 1, comma 65, della legge regionale n. 5 del 2013 contiene, con tutta evidenza, una espressione molto simile a quella dichiarata incostituzionale laddove prevede, a chiusura dell’intero procedimento sanzionatorio, la possibilità di riconoscere “precedenza a coloro che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite, previa verifica che gli stessi non dispongano di altra idonea soluzione abitativa”.

L’analogia va ravvisata, in particolare, nella parte in cui l’articolo 2, comma 2, della legge regionale n. 19 del 2017 prevede, alla lettera c),“la regolamentazione della locazione e alienazione degli immobili acquisiti al patrimonio comunale per inottemperanza all’ordine di demolizione, anche con preferenza per gli occupanti per necessità al fine di garantire un alloggio adeguato alla composizione del relativo nucleo familiare”.

L’unica differenza, come è agevole rilevare, è nel fine di garantire agli occupanti un alloggio adeguato alla composizione del relativo nucleo familiare, intenzionalmente perseguito ed anzi dato per scontato nella disposizione dichiarata incostituzionale, nel mentre tale evenienza, nella disposizione della legge Caldoro, viene espressamente condizionata all’obbligo di verifica che gli occupanti non dispongano di altra soluzione abitativa.

Non vi è dubbio, inoltre, che l’articolo 1, comma 65, nella sua complessiva articolazione, si ponga, per un verso, anche in contrasto con la ratio decidendi della pronunzia di incostituzionalità e, per un altro verso, come norma “strumentale o comunque strettamente connessa alla regola sostanziale dichiarata illegittima”.

Va aggiunto che tra i casi più recenti di utilizzo della dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale è stata menzionata anche la nota sentenza n. 333 del 2009, in cui la Corte, oltre a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale, ha dichiarato, «in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale».

Si è ancora ricordato che alla dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale la Corte ricorre anche nel quadro del giudizio in via principale (per quanto solo allo scopo di dichiarare l’incostituzionalità di altra legge della stessa regione e non di leggi, di analogo o identico contenuto, di altre regioni), nonché nell’ambito del controllo sugli Statuti regionali (si veda, sul punto, la sentenza n. 12 del 2006).

Quel che è certo, però, è che la illegittimità costituzionale consequenziale deve essere espressamente dichiarata.

In mancanza, la norma pretermessa è da ritenere vigente, anche se trattasi, come si verifica, appunto, per la legge Caldoro, di “disposizione intrinsecamente collegata a quella dichiarata incostituzionale”.

Tale affermazione trova indiretta conferma nella recentissima sentenza n. 38749 del 9 luglio 2018 (pronunziata quattro giorni dopo la sentenza n. 140 della Corte Costituzionale), con la quale la Corte di Cassazione, Sezione III Penale,  in relazione ad una delibera consiliare adottata in materia di social housing proprio da un comune campano,  non ha fatto mistero della perdurante vigenza della menzionata legge regionale Caldoro, pur affermando, nel contempo, il seguente principio di diritto.

Sottraendo l’opera abusiva al suo normale destino di demolizione previsto per legge, la delibera comunale che dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato non può fondarsi su valutazioni di carattere generale o riguardanti genericamente più edifici, ma deve dare conto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta di conservazione del singolo manufatto, precisamente individuato, dovendosi ulteriormente precisare come non possano sopperire all’esigenza di una specifica determinazione meri richiami a disposizioni normative, ad altri provvedimenti o a valutazioni di ordine economico, inerenti al costo delle spese di demolizione, in quanto la natura eccezionale della deliberazione richiede che il mantenimento dell’opera abusiva sia giustificato dalla sussistenza di esigenze specifiche, individuate sulla base di dati obiettivi riferiti al singolo caso all’esito di adeguata istruttoria”.

 

Il collegamento alla seconda parte dell'articolo è qui.