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La controriforma forense dell’emergenza economica

Affermare che riformare le professioni è necessario, “è rock”. Sostenere che gli Ordini, tutti gli Ordini, sono caste, “è lento”. Affermare che l’avvocatura deve modernizzarsi, “è rock”. Dire che l’Ordine è un “pedaggio” da pagare mentre le Associazioni professionali sono la liberalizzazione, “è lento”.

Fuor di metafora, si sta assistendo alla “controriforma forense dell’emergenza economica”, prassi comune della nostra storia, caratterizzata da legislazione d’emergenza per la quotidianità. E’ un dato: si pensi, nell’ultimo decennio, alla necessità di misure eccezionali nel 2002 per entrare nell’Euro, e a quelle di oggi per non uscire dall’Euro, tanto per fare un esempio.

La situazione odierna porta a compiere parallelismi storici. In luogo di approvare la riforma forense, con la scusante dell’emergenza economica, si vuole in realtà “controriformare” la professione, mediante svolte filosofiche molto simili a quelle medievali: l’intolleranza nei confronti di quelle che vengono sdegnosamente (quanto impropriamente) definite "caste" (nel Medioevo erano appunto le "corporazioni"), e il controllo rigido dei comportamenti individuali e collettivi di quelle componenti della società ritenute una minaccia per la concorrenza.

Sempre per giocare con parallelismi e metafore, nel Medioevo l’ostilità trovava sfogo nella distruzione di libri (ricordiamo “Il nome della Rosa”), perché ritenuti profani, o nell’eliminazione fisica dei soggetti scomodi, delle donne seducenti (streghe), in quanto ritenuti “oggetti” irraggiungibili dalla pluralità, a disposizioni di ristrettissime categorie di persone, mentre ora ci ritroviamo a fare i conti con la stessa ostilità che vorrebbe trovare sfogo nella distruzione degli Ordini, ritenuti custodi di una casta chiusa ed ottusa.

Il filo conduttore è quindi la "distruzione". Meglio cancellare. Il lavoro del "riformatore" è più faticoso. E’ quello di partire dalla storia per correggerne gli errori e guardare al futuro. La "riforma" serve a mettere a fuoco elementi di trasformazione resi necessari dall’evoluzione sociale. Più facile quello del "controriformatore", che rifiuta radicalmente qualsiasi modifica in senso modernizzatore, sino a giungere alla distruzione dell’oggetto o soggetto considerato.

Non la "riforma" che da 60 anni si chiede, ma la "controriforma", che congeda definitivamente ciò che non si vuole approfondire. E infatti la "riforma forense", il cui iter legislativo si è formalmente concluso, necessiterebbe del solo voto assembleare della Camera.

"controriforma" che traspare dalla previsione di scadenze inderogabili pena l’eliminazione degli Ordini, peraltro esistenti in tutti i Paesi dell’Unione Europea.

E dunque, più che miglioramento della qualità e della concorrenza, si otterrebbe l’opposta svalorizzazione della funzione economica e sociale della professione. Infatti, chi vigilerebbe sui requisiti soggettivi/oggettivi/morali per lo svolgimento della professione? Rammento che per l’iscrizione all’Albo è necessario presentare certificazione di "condotta specchiatissima ed illibata".... Comprendo che oggi sono valori vintage!

Sorprendono le motivazioni addotte a sostegno dell’avversione per gli Ordini, così come vederne i teorici, per lo più editorialisti che si ergono a censori o, addirittura, detrattori, definendo "parassiti e privilegiati" i gruppi di professionisti i cui “privilegi” frenerebbero lo sviluppo, bloccherebbero la crescita, l’innovazione e la ricerca. Non l’eccessivo indebitamento, non la ridotta capacità di crescita del PIL, non la rigidità politica dell’Europa o la rissosità di quella interna. No, l’Italia con i suoi Ordini è una anomalia, poiché "in parte liberale e in parte strutturata per gilde di tipo feudale" con i privilegi che seguono chi ne è parte...e ciò costituisce una "palla al piede".

Quali privilegi non si sa, anzi, l’on. Nino Lo Presti, esperto indiscusso di professioni, ha avuto modo di recente di precisare che “l’avvocatura non è categoria di privilegiati, i redditi sono in calo e il futuro sempre più incerto” per i numerosi iscritti under 50, che non riescono a raggiungere livelli minimi di dignità, dato che l’ordine forense non è contingentato, e dunque non può essere ritenuto una casta.

V’è poi da dire che in tutti i paesi dell’Europa esiste l’Ordini degli avvocati (Germania, Francia, Finlandia con il suo Finnish Bar Association, Belgio, ove addirittura due sono gli Ordini, quello fiammingo e quello francese, Grecia, Portogallo, Spagna, Svezia, Olanda, Inghilterra, Olanda, Svizzera e, persino, il Consiglio degli Ordini Forensi della Comunità Europea), compreso il Regno Unito, cui si vorrebbe far riferimento per la costituzione di società di capitali tra professionisti e non professionisti. Anzi, la peculiarità dell’Inghilterra e dei paesi anglosassoni, a ben vedere ci somiglia. Infatti, tali società possono esistere solo per la tipologia dei numerosi "solicitors", ovvero coloro che non possono difendere in udienza (se non nei tribunali minori, come avviene per i Giudici di Pace, in cui la parte può stare personalmente), bensì esercitare come agenti immobiliari o notai. E’ invece preclusa ai pochi "barristers", gli avvocati veri e propri, gli unici a poter svolgere attività di difesa nelle varie Corti. IE qui pure esiste l’Ordine nazionale dei Barristers.

Ciò in cui deteniamo un primato europeo è che siamo gli unici ad avere una legge professionale ferma al 1933!!!

240.000 avvocati sono troppi, è vero, ma non diminuirebbero abolendo gli Ordini o gli esami d’accesso. Bisogna invece guardare alle vere sacche di privilegio entro le professioni, partendo a monte del problema, in due direzioni.

La prima, incentrata sui giovani: dall’Università, che si è ridotta a raccoglitore raccogliticcio di tutti coloro che non superano i tests delle facoltà a numero chiuso; al tirocinio, da rendere senz’altro più breve, ma più serio e più formativo, pagandolo, non abolendolo, motivando i giovani colleghi, non illudendoli.

Quale futuro potrebbero avere giovani avvocati che speravano di superare i tests di medicina o di architettura, e sono invece catapultati nella professione in quantità industriali? Quale autonomia o indipendenza potrebbe mai avere un giovane avvocato assunto in una società di capitali, ove il socio di maggioranza (o anche minoranza) è un non avvocato? Quale deontologia, decoro e probità trasmetterebbe loro? E il segreto professionale che vincolo in uno stretto rapporto fiduciario cliente e avvocato? E dalla concorrenza con masse di avvocati, quali sbocchi economici il nostro giovane potrebbe mai raggiungere? E quale motivazione, in tali scenari, potrebbe mai trarre? Economica? Passione?

La seconda direzioni dovrebbe riguardare l’eliminazione degli extra moenia: l’avvocato deve svolgere la sua professione a tempo pieno, da libero professionista o da dipendente.

L’impressione è che, come spesso accade, piuttosto che riformare, si tenda a fare piccoli aggiustamenti e grandi proclami sul cambiare tutto perché non cambi niente!

Fatte queste premesse, occorre allargare la visuale e sgombrare il campo dagli inutili pregiudizi. Nell’enorme esercito degli avvocati italiani, vi è un drappello di opliti, gli avvocati dipendenti di enti pubblici, che costituisce un blocco “male equipaggiato”…sul piano normativo, ma coraggioso e scelto, che quotidianamente lavora con passione perché la legalità dell’agire amministrativo prevalga, nell’interesse non solo del proprio cliente (ente pubblico), ma in quello superiore che è l’interesse pubblico.

Rammento che, al riguardo l’on. Nino Lo Presti, ha recentemente sostenuto che “per gli avvocati degli enti pubblici, l’impegno del Parlamento è quello di definirne una volta per tutte, nell’ambito della riforma della professione forense, il ruolo, l’autonomia e il trattamento, dovendosi salvaguardare, infatti, l’imprescindibile e preziosa funzione che gli avvocati pubblici svolgono a presidio della legalità nell’interesse sia delle pubbliche amministrazioni, sia dei cittadini che entrano in contatto con esse”. Infatti, grazie a Lo Presti, la "riforma" giacente alla Camera contiene per la prima volta una norma specifica dedicata agli "Avvocati degli enti pubblici", l’art. 22.

E proprio nell’ottica del contenimento dei costi, preme sottolineare come le avvocature pubbliche costituiscano una fonte di ampi risparmi di denaro pubblico. Il particolare, oggi non va certo sottovalutato. Anzi, andrebbe coltivato e approfondito, come ha avuto la vivacità intellettuale di fare l’on. Nino Lo Presti.

Egli, anche in un recente Convegno sulla Pubblica Avvocatura svoltosi a Palermo, ha avuto modo di approfondire un pensiero, a lui abbozzato dall’Associazione degli avvocati pubblici, che, partendo dall’analisi dell’Avvocatura dello Stato, fonda le basi nella comune funzione dell’Avvocatura pubblica, che è quella di essere istituzionalmente preposta alla tutela legale di pubbliche amministrazioni. E’ così per l’Avvocatura dello Stato, è così per l’Avvocatura degli enti diversi dallo Stato.

La necessità di dotarsi in Italia di tali strutture si inserisce nel momento storico successivo ai moti risorgimentali ed alla nascita del Regno d’Italia, e ciò sia per l’Avvocatura dello Stato, fondata nel 1876 con la denominazione di Regia Avvocatura Erariale, che per Avvocature municipali come Bologna, Roma e Napoli.

In contemporanea con la disciplina della professione forense, nel 1933, appunto, l’Avvocatura erariale ha ricevuto la propria disciplina di ruolo, funzioni e struttura, mentre le altre avvocatura erariali locali non hanno ricevuto alcuna disciplina, restando ascritte a quel particolare interspazio esistente fra l’Avvocatura e il libero Foro, chiamato “eccezione all’incompatibilità”..

Eppure l’esigenza era quella, identica, di creare figure professionali esperte e settorializzate, dedicate alla conoscenza costante delle nuove tipologie di contenzioso nascenti dall’intensificazione legislativa.

E qui il ragionamento dell’on. Nino Lo Presti, da grande conoscitore dei “risvolti” dell’Avvocatura pubblica: che senso ha avere tante avvocature erariali (parastato, regioni, enti locali, università, ex municipalizzate, società interamente pubbliche, stato). Forse, proprio prendendo le mosse dall’emergenza economica che stiamo vivendo, si potrebbe creare un mutamento sostanziale di direzione: a fianco dell’Avvocatura dello Stato potrebbe sorgere l’Avvocatura degli enti diversi dallo Stato, con la previsione anche per esse del foro erariale. La struttura, infatti, potrebbe anticipare e, in qualche modo, intersecarsi con la riforma che vuole la soppressione delle Province, creando "avvocature distrettuali" per sedi di Corte d’Appello ed "avvocatura generale" a Roma presso l’Avvocatura di Roma capitale.

La contrazione di costi sarebbe enorme: all’Avvocatura generale spetterebbe la rappresentanza e difesa delle amministrazioni pubbliche nei giudizi davanti alla Corte costituzionale, alla Corte di Cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari; mentre alle avvocature distrettuali spetterebbe la rappresentanza e difesa in giudizio delle amministrazioni nelle rispettive circoscrizioni.

Le funzioni resterebbero le stesse: contenziosa e consultiva, entrambe, negli ultimi decenni, sviluppate secondo un trend di crescita quantitativamente e quantitativamente esponenziale.

Le condizioni contrattuali e giuridiche rimarrebbero invariate, collocando gli avvocati in un’area di contrattazione separata ma in fasce corrispondenti a quelle rivestite. Il tutto, quindi, a costo zero e ampia resa, poiché vi sarebbero ingenti risparmi in costose consulenze assorbite secondo il meccanismo dell’in house.

Confortano anche le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini, che in occasione della cerimonia per la consegna delle toghe d’oro (a Napoli), avvenuta a fine anno, ha sottolineato “la centralità della salvaguardia dell’indipendenza dell’avvocato anche attraverso la difesa di strumenti di autonomia quali lo stesso modello ordinistico. Mi sembra auspicabile” - ha aggiunto – “che al momento di intervenire sulle condizioni di esercizio dell’avvocatura si proceda con la massima consapevolezza delle funzione sociale e costituzionale della professione forense”. Ha infine evidenziato “lo stretto legame esistente tra efficienza del ’sistema giustizia’ e sviluppo economico debba essere affrontato senza chiusure pregiudiziali da parte dei vari attori istituzionali, nell’ottica di perseguire un equilibrio ragionevole tra contenimento dei costi e celerità dei procedimenti, tenendo nella dovuta considerazioni gli apporti e le riflessione della classe forense”.

Nella stessa direzione vanno le parole dell’on. Nino Lo Presti, il quale ha in più occasione chiarito che “si impegnerà per vagliare con attenzione il ddl di riforma forense, al fine di individuare formule di rilancio dell’avvocatura senza stravolgerne l’autonomia, che è il punto cardine della professione”.

E’ qui che l’Avvocatura pubblica desidera porsi, oltre che a difesa della legalità della P.A., anche quale elemento modernizzatore di essa, nel perseguimento del “ragionevole contenimento dei costi” a qualità invariata o accresciuta, auspicato dal Presidente Fini, ma per farlo deve uscire dalla anomia in cui per troppo tempo è stata lasciata, per disattenzione del legislatore.

Affermare che riformare le professioni è necessario, “è rock”. Sostenere che gli Ordini, tutti gli Ordini, sono caste, “è lento”. Affermare che l’avvocatura deve modernizzarsi, “è rock”. Dire che l’Ordine è un “pedaggio” da pagare mentre le Associazioni professionali sono la liberalizzazione, “è lento”.

Fuor di metafora, si sta assistendo alla “controriforma forense dell’emergenza economica”, prassi comune della nostra storia, caratterizzata da legislazione d’emergenza per la quotidianità. E’ un dato: si pensi, nell’ultimo decennio, alla necessità di misure eccezionali nel 2002 per entrare nell’Euro, e a quelle di oggi per non uscire dall’Euro, tanto per fare un esempio.

La situazione odierna porta a compiere parallelismi storici. In luogo di approvare la riforma forense, con la scusante dell’emergenza economica, si vuole in realtà “controriformare” la professione, mediante svolte filosofiche molto simili a quelle medievali: l’intolleranza nei confronti di quelle che vengono sdegnosamente (quanto impropriamente) definite "caste" (nel Medioevo erano appunto le "corporazioni"), e il controllo rigido dei comportamenti individuali e collettivi di quelle componenti della società ritenute una minaccia per la concorrenza.

Sempre per giocare con parallelismi e metafore, nel Medioevo l’ostilità trovava sfogo nella distruzione di libri (ricordiamo “Il nome della Rosa”), perché ritenuti profani, o nell’eliminazione fisica dei soggetti scomodi, delle donne seducenti (streghe), in quanto ritenuti “oggetti” irraggiungibili dalla pluralità, a disposizioni di ristrettissime categorie di persone, mentre ora ci ritroviamo a fare i conti con la stessa ostilità che vorrebbe trovare sfogo nella distruzione degli Ordini, ritenuti custodi di una casta chiusa ed ottusa.

Il filo conduttore è quindi la "distruzione". Meglio cancellare. Il lavoro del "riformatore" è più faticoso. E’ quello di partire dalla storia per correggerne gli errori e guardare al futuro. La "riforma" serve a mettere a fuoco elementi di trasformazione resi necessari dall’evoluzione sociale. Più facile quello del "controriformatore", che rifiuta radicalmente qualsiasi modifica in senso modernizzatore, sino a giungere alla distruzione dell’oggetto o soggetto considerato.

Non la "riforma" che da 60 anni si chiede, ma la "controriforma", che congeda definitivamente ciò che non si vuole approfondire. E infatti la "riforma forense", il cui iter legislativo si è formalmente concluso, necessiterebbe del solo voto assembleare della Camera.

"controriforma" che traspare dalla previsione di scadenze inderogabili pena l’eliminazione degli Ordini, peraltro esistenti in tutti i Paesi dell’Unione Europea.

E dunque, più che miglioramento della qualità e della concorrenza, si otterrebbe l’opposta svalorizzazione della funzione economica e sociale della professione. Infatti, chi vigilerebbe sui requisiti soggettivi/oggettivi/morali per lo svolgimento della professione? Rammento che per l’iscrizione all’Albo è necessario presentare certificazione di "condotta specchiatissima ed illibata".... Comprendo che oggi sono valori vintage!

Sorprendono le motivazioni addotte a sostegno dell’avversione per gli Ordini, così come vederne i teorici, per lo più editorialisti che si ergono a censori o, addirittura, detrattori, definendo "parassiti e privilegiati" i gruppi di professionisti i cui “privilegi” frenerebbero lo sviluppo, bloccherebbero la crescita, l’innovazione e la ricerca. Non l’eccessivo indebitamento, non la ridotta capacità di crescita del PIL, non la rigidità politica dell’Europa o la rissosità di quella interna. No, l’Italia con i suoi Ordini è una anomalia, poiché "in parte liberale e in parte strutturata per gilde di tipo feudale" con i privilegi che seguono chi ne è parte...e ciò costituisce una "palla al piede".

Quali privilegi non si sa, anzi, l’on. Nino Lo Presti, esperto indiscusso di professioni, ha avuto modo di recente di precisare che “l’avvocatura non è categoria di privilegiati, i redditi sono in calo e il futuro sempre più incerto” per i numerosi iscritti under 50, che non riescono a raggiungere livelli minimi di dignità, dato che l’ordine forense non è contingentato, e dunque non può essere ritenuto una casta.

V’è poi da dire che in tutti i paesi dell’Europa esiste l’Ordini degli avvocati (Germania, Francia, Finlandia con il suo Finnish Bar Association, Belgio, ove addirittura due sono gli Ordini, quello fiammingo e quello francese, Grecia, Portogallo, Spagna, Svezia, Olanda, Inghilterra, Olanda, Svizzera e, persino, il Consiglio degli Ordini Forensi della Comunità Europea), compreso il Regno Unito, cui si vorrebbe far riferimento per la costituzione di società di capitali tra professionisti e non professionisti. Anzi, la peculiarità dell’Inghilterra e dei paesi anglosassoni, a ben vedere ci somiglia. Infatti, tali società possono esistere solo per la tipologia dei numerosi "solicitors", ovvero coloro che non possono difendere in udienza (se non nei tribunali minori, come avviene per i Giudici di Pace, in cui la parte può stare personalmente), bensì esercitare come agenti immobiliari o notai. E’ invece preclusa ai pochi "barristers", gli avvocati veri e propri, gli unici a poter svolgere attività di difesa nelle varie Corti. IE qui pure esiste l’Ordine nazionale dei Barristers.

Ciò in cui deteniamo un primato europeo è che siamo gli unici ad avere una legge professionale ferma al 1933!!!

240.000 avvocati sono troppi, è vero, ma non diminuirebbero abolendo gli Ordini o gli esami d’accesso. Bisogna invece guardare alle vere sacche di privilegio entro le professioni, partendo a monte del problema, in due direzioni.

La prima, incentrata sui giovani: dall’Università, che si è ridotta a raccoglitore raccogliticcio di tutti coloro che non superano i tests delle facoltà a numero chiuso; al tirocinio, da rendere senz’altro più breve, ma più serio e più formativo, pagandolo, non abolendolo, motivando i giovani colleghi, non illudendoli.

Quale futuro potrebbero avere giovani avvocati che speravano di superare i tests di medicina o di architettura, e sono invece catapultati nella professione in quantità industriali? Quale autonomia o indipendenza potrebbe mai avere un giovane avvocato assunto in una società di capitali, ove il socio di maggioranza (o anche minoranza) è un non avvocato? Quale deontologia, decoro e probità trasmetterebbe loro? E il segreto professionale che vincolo in uno stretto rapporto fiduciario cliente e avvocato? E dalla concorrenza con masse di avvocati, quali sbocchi economici il nostro giovane potrebbe mai raggiungere? E quale motivazione, in tali scenari, potrebbe mai trarre? Economica? Passione?

La seconda direzioni dovrebbe riguardare l’eliminazione degli extra moenia: l’avvocato deve svolgere la sua professione a tempo pieno, da libero professionista o da dipendente.

L’impressione è che, come spesso accade, piuttosto che riformare, si tenda a fare piccoli aggiustamenti e grandi proclami sul cambiare tutto perché non cambi niente!

Fatte queste premesse, occorre allargare la visuale e sgombrare il campo dagli inutili pregiudizi. Nell’enorme esercito degli avvocati italiani, vi è un drappello di opliti, gli avvocati dipendenti di enti pubblici, che costituisce un blocco “male equipaggiato”…sul piano normativo, ma coraggioso e scelto, che quotidianamente lavora con passione perché la legalità dell’agire amministrativo prevalga, nell’interesse non solo del proprio cliente (ente pubblico), ma in quello superiore che è l’interesse pubblico.

Rammento che, al riguardo l’on. Nino Lo Presti, ha recentemente sostenuto che “per gli avvocati degli enti pubblici, l’impegno del Parlamento è quello di definirne una volta per tutte, nell’ambito della riforma della professione forense, il ruolo, l’autonomia e il trattamento, dovendosi salvaguardare, infatti, l’imprescindibile e preziosa funzione che gli avvocati pubblici svolgono a presidio della legalità nell’interesse sia delle pubbliche amministrazioni, sia dei cittadini che entrano in contatto con esse”. Infatti, grazie a Lo Presti, la "riforma" giacente alla Camera contiene per la prima volta una norma specifica dedicata agli "Avvocati degli enti pubblici", l’art. 22.

E proprio nell’ottica del contenimento dei costi, preme sottolineare come le avvocature pubbliche costituiscano una fonte di ampi risparmi di denaro pubblico. Il particolare, oggi non va certo sottovalutato. Anzi, andrebbe coltivato e approfondito, come ha avuto la vivacità intellettuale di fare l’on. Nino Lo Presti.

Egli, anche in un recente Convegno sulla Pubblica Avvocatura svoltosi a Palermo, ha avuto modo di approfondire un pensiero, a lui abbozzato dall’Associazione degli avvocati pubblici, che, partendo dall’analisi dell’Avvocatura dello Stato, fonda le basi nella comune funzione dell’Avvocatura pubblica, che è quella di essere istituzionalmente preposta alla tutela legale di pubbliche amministrazioni. E’ così per l’Avvocatura dello Stato, è così per l’Avvocatura degli enti diversi dallo Stato.

La necessità di dotarsi in Italia di tali strutture si inserisce nel momento storico successivo ai moti risorgimentali ed alla nascita del Regno d’Italia, e ciò sia per l’Avvocatura dello Stato, fondata nel 1876 con la denominazione di Regia Avvocatura Erariale, che per Avvocature municipali come Bologna, Roma e Napoli.

In contemporanea con la disciplina della professione forense, nel 1933, appunto, l’Avvocatura erariale ha ricevuto la propria disciplina di ruolo, funzioni e struttura, mentre le altre avvocatura erariali locali non hanno ricevuto alcuna disciplina, restando ascritte a quel particolare interspazio esistente fra l’Avvocatura e il libero Foro, chiamato “eccezione all’incompatibilità”..

Eppure l’esigenza era quella, identica, di creare figure professionali esperte e settorializzate, dedicate alla conoscenza costante delle nuove tipologie di contenzioso nascenti dall’intensificazione legislativa.

E qui il ragionamento dell’on. Nino Lo Presti, da grande conoscitore dei “risvolti” dell’Avvocatura pubblica: che senso ha avere tante avvocature erariali (parastato, regioni, enti locali, università, ex municipalizzate, società interamente pubbliche, stato). Forse, proprio prendendo le mosse dall’emergenza economica che stiamo vivendo, si potrebbe creare un mutamento sostanziale di direzione: a fianco dell’Avvocatura dello Stato potrebbe sorgere l’Avvocatura degli enti diversi dallo Stato, con la previsione anche per esse del foro erariale. La struttura, infatti, potrebbe anticipare e, in qualche modo, intersecarsi con la riforma che vuole la soppressione delle Province, creando "avvocature distrettuali" per sedi di Corte d’Appello ed "avvocatura generale" a Roma presso l’Avvocatura di Roma capitale.

La contrazione di costi sarebbe enorme: all’Avvocatura generale spetterebbe la rappresentanza e difesa delle amministrazioni pubbliche nei giudizi davanti alla Corte costituzionale, alla Corte di Cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari; mentre alle avvocature distrettuali spetterebbe la rappresentanza e difesa in giudizio delle amministrazioni nelle rispettive circoscrizioni.

Le funzioni resterebbero le stesse: contenziosa e consultiva, entrambe, negli ultimi decenni, sviluppate secondo un trend di crescita quantitativamente e quantitativamente esponenziale.

Le condizioni contrattuali e giuridiche rimarrebbero invariate, collocando gli avvocati in un’area di contrattazione separata ma in fasce corrispondenti a quelle rivestite. Il tutto, quindi, a costo zero e ampia resa, poiché vi sarebbero ingenti risparmi in costose consulenze assorbite secondo il meccanismo dell’in house.

Confortano anche le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini, che in occasione della cerimonia per la consegna delle toghe d’oro (a Napoli), avvenuta a fine anno, ha sottolineato “la centralità della salvaguardia dell’indipendenza dell’avvocato anche attraverso la difesa di strumenti di autonomia quali lo stesso modello ordinistico. Mi sembra auspicabile” - ha aggiunto – “che al momento di intervenire sulle condizioni di esercizio dell’avvocatura si proceda con la massima consapevolezza delle funzione sociale e costituzionale della professione forense”. Ha infine evidenziato “lo stretto legame esistente tra efficienza del ’sistema giustizia’ e sviluppo economico debba essere affrontato senza chiusure pregiudiziali da parte dei vari attori istituzionali, nell’ottica di perseguire un equilibrio ragionevole tra contenimento dei costi e celerità dei procedimenti, tenendo nella dovuta considerazioni gli apporti e le riflessione della classe forense”.

Nella stessa direzione vanno le parole dell’on. Nino Lo Presti, il quale ha in più occasione chiarito che “si impegnerà per vagliare con attenzione il ddl di riforma forense, al fine di individuare formule di rilancio dell’avvocatura senza stravolgerne l’autonomia, che è il punto cardine della professione”.

E’ qui che l’Avvocatura pubblica desidera porsi, oltre che a difesa della legalità della P.A., anche quale elemento modernizzatore di essa, nel perseguimento del “ragionevole contenimento dei costi” a qualità invariata o accresciuta, auspicato dal Presidente Fini, ma per farlo deve uscire dalla anomia in cui per troppo tempo è stata lasciata, per disattenzione del legislatore.