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La cura delle norme

Legge e giustizia
Legge e giustizia

Per gentile concessione dell’editore Vita e Pensiero pubblichiamo un breve ma significativo estratto dal capitolo La violenza e l’inganno nel diritto dell’opera La cura delle norme, grassetto e suddivisione dei paragrafi sono scelte della redazione.

 

L’esperienza di chi frequenti professionalmente le ‘stanze’ della giustizia penale costituisce un punto di osservazione particolarmente illuminante per misurare e valutare forme e modi di una nozione che il pensiero criminologico e sociologico ha identificato con il termine di ‘penalità’ e, più in generale, origini e conseguenze di quel sostrato tanto profondo quanto persistente nelle mentalità e nei sentimenti che potremmo chiamare la ‘punitività’.

Termine ricco di parentele semantiche – vendetta, rivalsa, retribuzione ecc. –, con il quale possiamo qui intendere un complessivo atteggiamento, tanto sociale e istituzionale, quanto individuale, che induce, rispetto ai più vari problemi e crisi in cui ci si imbatta, a reagire istintivamente con una risposta ‘accusatoria’ verso qualcuno, contro cui indirizzare il «dito indice», «assetato di biasimo»: un dito – come ebbe a dire magistralmente Iosif Brodskij –, che spesso «oscilla» tanto più «selvaggiamente» quanto è – o anzi è stata «in partenza » – minore «la determinazione a cambiare qualcosa».

Quel «dito indice» svolge, certo, una funzione indispensabile per ogni gruppo sociale ove sfoderato nella misura e al momento giusti, come ben ricordava la filosofa Hannah Arendt: di fronte a una diffusa tendenza a svuotare la colpa, constatava che «per fortuna … esiste ancora nella nostra società un’istituzione dove è impossibile sfuggire alle proprie responsabilità, dove ogni giustificazione di carattere astratto e generico – dallo Zeitgeist al complesso d’Edipo – crolla, ove non vengono giudicati sistemi, tendenze o peccati originali, ma persone in carne e ossa, come voi e me, che hanno commesso atti perfettamente umani, ma hanno violato quelle leggi che noi tutti riteniamo essenziali per l’integrità della nostra comune umanità, essendo convocati per questo in tribunale».

Che il giudizio e la sanzione penale concentrino la quintessenza della ‘punitività’ è in fondo la stessa Costituzione italiana a mostrarcelo, con norme da cui si trae non solo il ‘dover essere’ della materia penale (ossia i principi fondamentali di garanzia cui ispirarne l’assetto), ma il suo stesso ‘essere’. In particolare dove si afferma che «la responsabilità penale è personale» (art. 27, comma primo) e che la «pena… deve tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27 comma terzo).

È il rimprovero personale, il giudizio di colpevolezza dunque, il connotato unico e distintivo di quel ramo del diritto che faccia uso della pena per i suoi obiettivi di tutela. E la finalità (tendenzialmente) rieducativa che un tale ‘uso’ dovrebbe sempre contemplare, vale a renderci edotti anche sull’effetto derivante da questo tipo di sanzione già nel momento in cui è comminata e irrogata, prima ancora che in quello nel quale è espiata: colui al quale la pena viene (o potrebbe essere) inflitta è già indicato, segnato, come (almeno potenzialmente) bisognoso di rieducazione (propriamente ‘risocializzazione’).

Il termine, più criminologico che penalistico, di ‘criminalizzazione’, con tutto il corredo di riflessione critica che mobilita da lungo tempo, presenta l’attitudine a esprimere in modo quanto mai incisivo e conclusivo il processo di attribuzione di responsabilità personali caratteristico della sanzione penale e a far intravedere quella componente di violenza, materiale non meno che morale, che vi si annette.

Queste considerazioni, tipiche della materia penale, si iscrivono peraltro all’interno della più ampia e ormai tradizionale riflessione sui limiti di legittimazione della violenza istituzionale

[…]

Proprio il contatto assiduo con le caratteristiche essenziali e, dunque, con gli effetti del giudizio e della condanna propriamente penali – specie se accompagnato dalla capacità, cui sollecitava Piero Calamandrei, di «vedere il carcere» – nutre da tempo, tra gli ‘addetti ai lavori’, una riflessione culturale, prima ancora che tecnica, ben riassunta da un’espressione divenuta proverbiale tra i penalisti di professione: perdita della «buona coscienza».

Ai nostri giorni, anche più che quando venne formulata, la radice di una tale formula può rinvenirsi nella maturata consapevolezza della componente non solo di violenza, ma altresì di inganno del diritto penale.

Quest’ultima tanto più smodata e fuori controllo, quanto più l’uso della pena, della punizione ‘criminale’, venga dispiegato millantandone, in forme più o meno mascherate, le potenzialità taumaturgiche di rimuovere quelle negatività presenti negli individui e nelle società, la cui ‘ombra’ è spesso così difficile da guardare e accettare, come il «legno storto dell’umanità» così arduo da raddrizzare.