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La dematerializzazione dei documenti sanitari

1. Introduzione

È recente l’entrata in vigore del D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235[1], rubricato “Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante Codice dell’amministrazione digitale, a norma dell’articolo 33 della legge 18 giugno 2009, n. 69”. Trattasi di un decreto correttivo particolarmente importante e di ampio respiro, dopo che già un primo intervento di tipo riformatore, risalente al 2006[2], aveva pesantemente impattato sul testo storico del c.d. “Codice dell’Amministrazione Digitale” o “CAD” ed è indubbio che oggi più di allora debba essere data una spinta decisiva ai processi di digitalizzazione dei rapporti tra Pubbliche Amministrazioni inter se, tra P.A. e cittadini, nonché tra P.A e imprese. Esigenze di trasparenza, efficienza, efficacia, economicità, semplificazione e snellimento dell’azione amministrativa depongono in tal senso, stante anche quanto previsto dall’artt. 1[3] e 3-bis[4] della L. 7 agosto 1990, n. 241 in materia di procedimento amministrativo e dall’art. 3[5] del CAD medesimo. Alla base v’è l’ambizioso e ormai non più celato obbiettivo, in un futuro non remoto, di abbattere i costi di gestione e di conservazione dell’immensa mole di “carta” che negli anni si è accumulata nei magazzini delle P.A. (nonché dei privati) e che rischierà di aumentare vertiginosamente nel futuro, se non si prenderà decisamente atto della necessità (ma anche se non si avrà il coraggio) di “dematerializzare” e dunque di “virtualizzare” rapporti, documenti, transazioni e ogni altra attività e/o servizio giuridicamente rilevante. In tale ottica vanno letti i vari interventi legislativi, regolamentari e di disciplina settoriale che negli anni si sono succeduti fino ad oggi, a partire dal 1997, data di entrata in vigore della c.d. “prima legge Bassanini”[6], il cui art. 15, comma 2, riconosceva per la prima volta agli atti, dati e documenti formati dalla P.A. e dai privati con strumenti informatici o telematici, ai contratti stipulati nelle medesime forme, nonché alla loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, validità e rilevanza a tutti gli effetti di legge. Se ne ricordano i più significativi:

- il d.P.R. 10 novembre 1997, n. 513, “Regolamento recante criteri e modalità per la formazione, l’archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, a norma dell’articolo 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n.59”;

- il d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, noto anche come “Testo Unico in materia di Documentazione Amministrativa” o “T.U.D.A.”, il cui art. 1, comma 1, lett. b), offriva la definizione di “documento informatico”, ancora oggi presente nel CAD, quale “rappresentazione informatica di atti, dati, fatti giuridicamente rilevanti”;

- il d.P.R. 13 febbraio 2001 n.123, “Regolamento recante disciplina sull’uso degli strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti”[7];

- il D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, recante la “Attuazione della direttiva 1999/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche”;

- il D.M.E.F. 23 gennaio 2004, “Modalità di assolvimento degli obblighi fiscali relativi ai documenti informatici ed alla loro riproduzione in diversi tipi di supporto”;

- Deliberazione CNIPA del 19 febbraio 2004, n. 11, “Regole tecniche per la riproduzione e conservazione di documenti su supporto ottico idoneo a garantire la conformità dei documenti agli originali - Art. 6, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”;

- il D.Lgs. 20 febbraio 2004, n. 52, “Attuazione della direttiva 2001/115/CE che semplifica ed armonizza le modalità di fatturazione in materia di IVA”;

- il d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 contiene il “Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3”[8];

- il CAD per l’appunto (D.Lgs. 82/2005 e succ. modif.);

- le “Linee guida per la dematerializzazione della documentazione clinica in laboratorio e in diagnostica per immagini – Normativa e prassi”, adottate dal Ministero della Salute nel marzo 2007;

- l’art. 39 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria”), conv. in L. 6 agosto 2008, n. 133, che ha previsto l’istituzione del c.d. “libro unico del lavoro” in luogo del “libro paga” e del “libro matricola”[9];

- il D.P.C.M. 30 marzo 2009, “Regole tecniche in materia di generazione, apposizione e verifica delle firme digitali e validazione temporale dei documenti informatici”;

- il D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 110, “Disposizioni in materia di atto pubblico informatico redatto dal notaio, a norma dell’articolo 65 della legge 18 giugno 2009, n. 69”;

cui si affiancano altri provvedimenti non organici, ma pur sempre significativi per la modernizzazione del Paese[10].

In tale sede interessa affrontare le problematiche relative alla conservazione digitale dei documenti sanitari quali le cartelle cliniche e i referti medici.

2. La natura di atto pubblico della “cartella clinica” e la rilevanza giuridica della documentazione sanitaria

Prima di scendere in medias res è opportuno premettere che la cartella clinica è “un atto pubblico che esplica la funzione di diario dell’intervento medico e dei relativi fatti clinici rilevanti, sicché i fatti devono essere annotati conformemente al loro verificarsi”[11] ed è “caratterizzata dalla produttività di atti costitutivi, traslativi, modificativi o estintivi rispetto a situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica, nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che redige l’atto”[12].

Inoltre l’art. 26 del nuovo Codice di deontologia medica (come approvato dal Consiglio Direttivo dell’Ordine il 23 gennaio 2007) così dispone:

“La cartella clinica delle strutture pubbliche e private deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate.

La cartella clinica deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente, o di chi ne esercita la tutela, alle proposte diagnostiche e terapeutiche; deve inoltre registrare il consenso del paziente al trattamento dei dati sensibili, con particolare riguardo ai casi di arruolamento in un protocollo sperimentale”.

La cartella clinica costituisce dunque il diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti e tali fatti debbono essere annotati contestualmente al loro verificarsi in modo intelliggibile. Le annotazioni debbono avvenire nel ragionevole tempo della contestualità ed essere consequenziali. Ciascuna singola annotazione, nel momento stesso in cui viene trascritta, esce dalla disponibilità dell’autore e acquisisce autonomo valore documentale definitivo. Se ciò è vero, “le modifiche e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti pubblici”[13] e precisamente “tutte le successive modifiche, aggiunte, alterazioni e cancellazioni integrano falsità in atto pubblico, salvo che si risolvano in mere correzioni di errori materiali”[14]. Ovviamente le falsità potranno essere tanto materiali (art. 476 c.p.), quanto ideologiche (art. 479 c.p.) e da un punto di vista strettamente civilistico l’efficacia probatoria non potrà che essere quella di cui all’art. 2700 c.c. Pertanto la cartella clinica costituisce “piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”. La cartella clinica è quindi atto pubblico certificativo e munito di fede privilegiata per quello che il sanitario, pubblico ufficiale, attesta di aver compiuto o di essere avvenuto in sua presenza[15] e “la funzione certificatoria deve essere assicurata attraverso la veridicità, la completezza, la correttezza formale e la chiarezza”[16].

Ma v’è di più. Se è vero quanto affermato sul valore probatorio, sulla rilevanza giuridica in tema di certezza del diritto, sulla completezza, correttezza formale, immodificabilità e irretrattabilità della cartella clinica, i dati in essa contenuti non possono certamente essere cancellati, ma sono, come già sopra accennato, ammesse correzioni di errori materiali tramite rettifica o integrazione. Ciò a patto che le correzioni siano chiaramente visibili. A tal proposito, prassi vuole che sia necessario circoscrivere l’errore tra due parentesi (o comunque interlinearlo, come anche è uso nei verbali di udienza o negli atti notarili), numerarlo e riportare a piè di pagina il numero con la dicitura “leggasi”, indi scrivere la correzione apportata e apporre firma, data e timbro[17].

E se ce ne fosse ancora bisogno, a ulteriore conferma della rilevanza e della fondamentale funzione probatoria che rivestono la cartella clinica e gli altri documenti sanitari, basta leggere quanto scritto dal Ministero della Salute nella circolare n. 61 del 19/12/1986: “Le cartelle cliniche, unitamente ai referti vanno conservate illimitatamente poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentale per le ricerche di carattere storico sanitario. Le radiografie e altra documentazione diagnostica vanno conservate per 20 anni”.

In ragione di ciò diventa assolutamente indispensabile ragionare di conservazione “a norma” delle cartelle cliniche elettroniche, dei referti di laboratorio o di diagnostica per immagini, ben riflettendo sulle caratteristiche di siffatti documenti e sulle best practices adottate quando redatti su supporto cartaceo, onde valutare l’impatto della “digitalizzazione” sui medesimi e adeguare strumenti e modalità informatici alle esigenze di certezza del diritto.

3. La conservazione sostitutiva della documentazione sanitaria

3.1 Cartella clinica elettronica

Si è in precedenza accennato ai concetti di digitalizzazione e soprattutto di dematerializzazione, intendendosi per essa la progressiva sostituzione della documentazione cartacea con i documenti informatici, ottenibile nei seguenti modi:

- o attraverso la promozione dell’uso del computer quale strumento privilegiato di redazione degli atti giuridicamente rilevanti, in altre parole attraverso la redazione di documenti informatici originali e originari[18];

- o attraverso la “digitalizzazione” dei documenti analogici[19] già esistenti (ossia tramite trasformazione del documento da analogico in informatico), onde eliminare problematiche di gestione e di conservazione dei supporti cartacei, con consistente abbattimento dei relativi costi.

Nel corso degli anni diversi provvedimenti di tipo legislativo o regolamentare hanno consentito la piena sostituibilità della documentazione cartacea tramite l’uso di nuovi strumenti tecnologici. A tal proposito merita menzione l’art. 25 della L. 4 gennaio 1968, n. 15, recante “Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme” (oggi abrogata e sostituita dal T.U.D.A.), che così recitava: “le pubbliche amministrazioni e i privati hanno facoltà di sostituire, a tutti gli effetti, ai documenti dei propri archivi, alle scritture contabili, alla corrispondenza ed agli altri atti di cui per legge o regolamento è prescritta la conservazione, la corrispondente riproduzione fotografica, anche se costituita da fotogramma negativo”[20].

Per quel che qui interessa, occorre anzitutto evidenziare che i processi di dematerializzazione trovano oggi i principali riferimenti normativi nel CAD e nella deliberazione CNIPA (oggi “DigitPA”[21]) n. 11/2004 cit. (che ha sostituito la precedente deliberazione del 13 dicembre 2001, n. 42, quando ancora era denominata AIPA). Poi, con riferimento specifico alla dematerializzazione della documentazione sanitaria, vanno menzionate le “Linee guida per la dematerializzazione della documentazione clinica in laboratorio e in diagnostica per immagini”, adottate dal Ministero della Salute nel marzo 2007, cui si è accennato in precedenza.

Occorre però, prima di tutto, soffermarsi sulla terminologia propria dei processi di dematerializzazione, in particolare sui concetti di “memorizzazione”, “archiviazione”, “conservazione”, “riversamento diretto” e “riversamento sostitutivo”.

Con il termine “memorizzazione” ci si riferisce al processo di trasposizione di documenti analogici o informatici su un qualsiasi supporto idoneo che ne garantisca la leggibilità. E’ dunque sinonimo di generica registrazione.

Con il termine “archiviazione” ci si riferisce al processo di memorizzazione su qualsiasi supporto idoneo di documenti informatici, anche sottoscritti, univocamente identificati mediante un codice di riferimento, antecedente e prodromico all’eventuale processo di conservazione. In poche parole archiviazione è sinonimo di organizzazione, etichettatura e classificazione documentale e non a caso è necessario un codice di riferimento, che agevoli le funzioni di ricerca, di consultazione, di leggibilità, di esibizione e di estraibilità di copia del documento archiviato[22].

Infine, con il termine “conservazione”, che si riferisce all’esigenza di mantenere integre, inalterate e immodificabili nel tempo le informazioni contenute in un determinato documento[23], si intende quel processo che presuppone la memorizzazione su supporti ottici o altri idonei supporti, dei documenti e eventualmente anche delle loro impronte, che termina con l’apposizione della firma digitale e del riferimento temporale sull’insieme dei documenti o su un’evidenza informatica contenente l’impronta[24] o le impronte dei documenti o di insieme di essi da parte del c.d. “responsabile della conservazione” (figura sulla quale si tornerà in seguito).

Chiariti questi concetti (su quelli di riversamento diretto e sostitutivo si tornerà nel prosieguo della trattazione), si possono ora analizzare più da vicino i processi di conservazione, tenendo distinta, da un lato, la conservazione dei documenti originariamente informatici e, dall’altro, la conservazione sostitutiva stricto sensu dei documenti originariamente analogici. E proprio quest’ultima presenta gli aspetti di maggiore interesse, dal momento che essa consente la totale eliminazione o distruzione della documentazione cartacea.

Per quanto riguarda la prima essa deve essere effettuata mediante memorizzazione dei documenti interessati su supporti ottici o, sebbene non ottici, comunque idonei ai sensi dell’art. 8 della deliberazione n. 11/2004[25] e terminare con l’apposizione sull’insieme dei documenti ovvero su un’evidenza informatica contenente l’impronta o le impronte dei documenti o insiemi di essi, del riferimento temporale (ossia l’informazione, contenente la data e l’ora, che viene associata ad uno o più documenti informatici) e della firma digitale da parte del responsabile della conservazione, figura centrale nei processi di conservazione e disciplinata dall’art. 5 della deliberazione n. 11/2004 cit. Egli in particolare definisce le caratteristiche e i requisiti del sistema di conservazione in funzione della tipologia dei documenti da conservare, ne organizza conseguentemente il contenuto e gestisce le procedure di sicurezza e di tracciabilità che ne garantiscono la corretta conservazione, anche per consentire l’esibizione di ciascun documento conservato. Per quel che concerne gli aspetti essenziali della sicurezza sia dei dati archiviati e da conservarsi, sia delle procedure adottate, il responsabile della conservazione, salva l’adozione delle misure di sicurezza prescritte dal D.Lgs. 30 giugno 2003 e succ. modif. (recante il “Codice in materia di protezione dei dati personali”), svolge i seguenti compiti:

- fornisce le necessarie indicazioni sulla generazione e sulla gestione delle copie di sicurezza o backup (numero, frequenza, formato, priorità, test di restore, etichettatura, incarichi e responsabilità);

- verifica la corretta funzionalità del sistema e dei programmi in gestione;

- adotta le misure necessarie per la sicurezza fisica e logica del sistema preposto al processo di conservazione sostitutiva e delle copie di sicurezza dei supporti di memorizzazione (custodia fisica; policy procedurali per coloro che sono autorizzati a prelevare e usare i backup; protezione logica tramite crittografia);

- definisce e documenta le procedure di sicurezza da rispettare per l’apposizione del riferimento temporale;

- verifica periodicamente, con cadenza non superiore a cinque anni, l’effettiva leggibilità dei documenti conservati provvedendo, se necessario, al riversamento diretto o sostitutivo del contenuto dei supporti (su tali concetti si tornerà nel prosieguo della trattazione).

Resta salva, per il responsabile della conservazione, la possibilità di delegare i propri compiti a una o più persone che, per competenza ed esperienza, garantiscano la corretta esecuzione delle operazioni ad esse delegate (sulla c.d. “delega di funzioni”, v. di seguito), nonché la possibilità di affidare il procedimento di conservazione sostitutiva, in tutto o in parte, in outsourcing, ossia a soggetti esterni, pubblici o privati.

Se dunque un cartella clinica nasce originariamente come documento informatico e le informazioni che contiene sono elaborate elettronicamente, così come le successive annotazioni, al termine del ciclo della cartella stessa, laddove sia necessario cristallizzare i dati in essa contenuti nel tempo, sarà per es. il primario o il direttore di unità operativa complessa il responsabile della conservazione, in quanto responsabile della regolare compilazione della cartella clinica e dei registri nosologici, nonché della loro conservazione fino alla consegna all’archivio centrale[26]. Egli quindi firmerà digitalmente il documento, con annesso riferimento temporale. Ma potrà farlo anche un suo delegato, per es. l’aiuto-medico o l’assistente[27]. In tal modo la cartella clinica viene “chiusa”, “sigillata” e acquista quelle caratteristiche di certezza nella provenienza (imputabilità o paternità della cartella e non ripudi abilità), nonché di integrità, immodificabilità e inalterabilità del contenuto nel tempo. Tuttavia alcune considerazioni si impongono.

Per quel che riguarda i supporti ovvero i formati sui quali vengono archiviate e successivamente e conservate le informazioni, essi devono garantire le caratteristiche di “staticità” e “immodificabilità”: a tal fine il documento informatico non deve contenere macroistruzioni[28] o codici eseguibili[29], tali da attivare funzionalità che possano modificare gli atti, i fatti o i dati nello stesso rappresentati. Quanto ai supporti di tipo ottico risultano molto utili i dispositivi cc.dd. “W.O.R.M.”, acronimo per “Write Once, Read Many” (o, alternativamente, “Write One, Read Multiple”), con riferimento a storage (archivi di massa, come CD o DVD), non riscrivibili, ma che consentono molteplici letture. Quanto invece ai formati, suggeriti sono quelli aventi seguenti estensioni:

- .rtf, .odt, .pdf[30], per documenti;

- .tiff, .jpg, .gif, per immagini;

- .txt, .xml[31], per solo testi.

In secondo luogo, considerando che la firma digitale rende assolutamente “certo” il documento con essa sottoscritto, sia sotto il profilo della connessione univoca del medesimo al suo autore (“entity authentication”), sia sotto il profilo della immodificabilità e inalterabilità dei dati in essa raccolti ed elaborati (“data authentication”), sorge un problema di correzione degli errori materiali e di aggiornamento della cartella clinica stessa, una volta “cristallizzata” e “sigillata” nel contenuto e nel tempo. Apposite soluzioni tecnologiche dovrebbero consentire al medico pubblico ufficiale estensore o ai suoi ausiliari e/o delegati di integrare o correggere materialmente la cartella clinica elettronica, ormai immodificabile, lasciando comunque evidenza delle integrazioni e delle correzioni, tramite un sistema di annotazione digitale realizzabile con link o collegamenti ipertestuali. In tal modo ogni modificazione, a sua volta firmata digitalmente e munita di riferimento temporale, verrebbe associata univocamente, tramite richiamo per mezzo di un codice o numero di protocollo, al documento originale e originario. L’annotazione così conterrebbe gli aggiornamenti e le rettifiche necessarie, con i dovuti riferimenti, e non andrebbe a intaccare il contenuto della cartella clinica precedentemente formata (e comunque cristallizzata e immutabile).

Infine, vero è che la cartella quale particolare forma di “atto pubblico”, una volta firmata digitalmente e munita del relativo riferimento temporale, dovrebbe essere opponibile comunque a terzi: insomma avrebbe naturalmente, per come strutturata e cristallizzata al termine del processo di conservazione sostitutiva, la c.d. “data certa”. Tuttavia, considerando che i certificati digitali qualificati rilasciati per l’utilizzo di dispositivi di firma digitale hanno una durata predefinita e limitata nel tempo[32], quantunque le regole tecniche della deliberazione n. 11/2004 cit. non lo specifichino, sarebbe quanto mai opportuno che il riferimento in questione fosse effettivamente opponibile ai terzi. All’uopo l’associazione al documento informatico di una “marca temporale” risulterebbe certamente il metodo più semplice e tecnicamente più adatto. Per marca temporale si intende, ai sensi dell’art. 1 del D.M.E.F. 23 gennaio 2004 cit., una “evidenza informatica che consente di rendere opponibile a terzi un riferimento temporale”. Fa eco a siffatta definizione l’art. 1 lett. i) del D.P.C.M. 30 marzo 2009 cit.: “il riferimento temporale che consente la validazione temporale”, ove “validazione temporale” significa per l’appunto “risultato della procedura informatica con cui si attribuiscono, ad uno o più documenti informatici, una data ed un orario opponibili ai terzi” (art. 1, lett. aa), del CAD)[33]. Pertanto una evidenza informatica è sottoposta a validazione temporale mediante generazione e applicazione di una marca temporale alla relativa impronta (art. 43 del D.P.C.M. 30 marzo 2009 cit.). L’apposizione di una marca temporale (che tecnicamente altro non è che una firma digitale che si aggiunge a quella già apposta dal responsabile della conservazione) consentirebbe in poche parole di estendere la validità di un documento informatico, i cui effetti si protraggano nel tempo oltre il limite della validità della chiave di sottoscrizione (e la cartella clinica ha proprio tali caratteristiche, visto che deve essere conservata senza limiti di tempo). Si potrebbe pensare all’apposizione di una marca temporale alla conclusione del processo di redazione della cartella clinica ovvero al momento del decesso del paziente interessato.

Discorso a parte va fatto per la conservazione sostitutiva dei documenti originariamente analogici, tant’è che occorre preliminarmente differenziare a seconda che essa coinvolga documenti analogici originali unici o documenti analogici originali non unici[34].

Esclusivamente per i primi la chiusura del processo di conservazione necessita della presenza di un pubblico ufficiale (notaio o altro pubblico ufficiale rogante), chiamato ad apporre la sua firma digitale e il suo riferimento temporale (o marca per le ragioni sopra indicate).

Per i secondi, invece, è sufficiente l’intervento del responsabile della conservazione che, dopo aver proceduto alla memorizzazione dell’immagine dei documenti direttamente sui supporti idonei, eventualmente, anche della relativa impronta, appone, sull’insieme dei documenti o su una evidenza informatica contenente una o più impronte dei documenti o di insiemi di essi, il riferimento temporale (o la marca; ut supra) e la propria firma digitale a garanzia della corretta esecuzione del processo.

Pertanto, nel caso in cui la cartella clinica nasca originariamente su supporto cartaceo, essa, in qualità di documento analogico unico, dovrà essere trasformata in documento elettronico, su supporti e in formati che garantiscano immutabilità e staticità, firmata digitalmente (con annesso riferimento temporale) dal primario o dal responsabile della struttura complessa ovvero da un delegato, per poi essere definitivamente firmata digitalmente da un notaio o altro pubblico ufficiale rogante. In caso di aziende ospedaliere o aziende sanitarie locali tale pubblico ufficiale potrebbe essere rappresentato dal direttore sanitario, il quale ex art. 5, comma 1, del d.P.R. 128/1969 cit. “vigila sull’archivio delle cartelle cliniche”. Il condizionale è però d’obbligo, in quanto va rimembrata la disposizione di cui all’art. 5, comma 4, della deliberazione n. 11/2004 cit.: “Nelle amministrazioni pubbliche il ruolo di pubblico ufficiale è svolto dal dirigente dell’ufficio responsabile della conservazione dei documenti o da altri dallo stesso formalmente designati, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 3, comma 2, e dall’art. 4, commi 2 e 4, casi nei quali si richiede l’intervento di soggetto diverso della stessa amministrazione”. Ergo tra le eccezioni previste, per le quali è richiesto l’intervento di un soggetto esterno alla medesima amministrazione, c’è proprio quella relativa alla conservazione sostitutiva di un documento analogico originale unico (ex art. 4, comma 2, della deliberazione n. 11/2004 cit.), quale è la cartella clinica.

Per quel che riguarda la possibilità di distruzione dell’originale analogico, prevista dall’art. 4, comma 3, della deliberazione n. 11/2004 cit. (“La distruzione di documenti analogici, di cui è obbligatoria la conservazione, è consentita soltanto dopo il completamento della procedura di conservazione sostitutiva”), si nutrono parecchi dubbi per quel che concerne siffatta possibilità per la cartella clinica. Infatti la disposizione de qua va coordinata con quanto previsto dall’art. 22, commi 5 e 6, del CAD, il cui testo di seguito si riporta integralmente:

“5. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari tipologie di documenti analogici originali per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico.

6. Fino alla data di emanazione del decreto di cui al comma 5 per tutti i documenti analogici originali unici permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico”.

In attesa dell’entrata in vigore nel decreto di cui al comma 5, si potrebbe però trovare un espediente giuridico proprio nel comma 6, salva poi l’approvazione in via definitiva del disegno di legge (attualmente al Senato) n. 2243 della XVI Legislatura (già atto della Camera n. 3209), recante “Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica Amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codificazione in materia di pubblica amministrazione” (a firma dei Ministri Brunetta, Calderoli, Scajola, Sacconi, Tremonti), il cui art. 7 recita come segue:

“Art. 7 - Conservazione delle cartelle cliniche

1. La conservazione delle cartelle cliniche, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, è effettuata esclusivamente in forma digitale. Le copie delle cartelle cliniche sono rilasciate agli interessati, su richiesta, anche in forma cartacea, previo pagamento di un corrispettivo stabilito dall’amministrazione che le detiene.

2. Le disposizioni del comma 1 si applicano anche alle strutture sanitarie private accreditate.

3. Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, dal Ministro della salute, di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione, dell’economia e delle finanze, della difesa e per la semplificazione normativa, sentiti la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e il Garante per la protezione dei dati personali, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 41 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, sono stabilite le modalità uniformi di attuazione del comma 1 del presente articolo nonché la decorrenza degli adempimenti di cui al medesimo comma 1”.

Per concludere, vanno menzionate altre due nozioni di estrema importanza e precisamente quelle di “riversamento diretto” e di “riversamento sostitutivo”.

Con il primo termine si intende il trasferimento di uno o più documenti portati in conservazione da un supporto di memorizzazione a un altro, senza che venga alterata la loro rappresentazione informatica (classico è l’esempio dei “backup” o copie di sicurezza). Con il secondo, invece, il trasferimento comporta siffatta alterazione (in gergo informatico si usa anche il termine di “migrazione”), per es. per la necessità di un aggiornamento tecnologico dell’archivio informatico, laddove non sia possibile o conveniente mantenere il formato di rappresentazione dei documenti originariamente conservati. La differenza non è da poco giacché, mentre per il riversamento diretto la normativa non prevede particolari formalità, per il riversamento sostitutivo essa prevede l’intervento pur sempre del responsabile della conservazione che deve assicurare il corretto svolgimento del processo. Se il riversamento sostitutivo coinvolge poi documenti informatici sottoscritti, allora sarà addirittura necessario l’intervento di un notaio o altro pubblico ufficiale che, apponendo la propria firma digitale, attesterà la conformità di quanto riversato al documento d’origine.

L’art. 4, comma 4, della deliberazione n. 11/2004 cit. prevede poi specifiche formalità per il riversamento sostitutivo di documenti analogici: “Il processo di riversamento sostitutivo di documenti analogici conservati avviene mediante memorizzazione su altro supporto ottico. Il responsabile della conservazione, al termine del riversamento, ne attesta il corretto svolgimento con l’apposizione del riferimento temporale e della firma digitale sull’insieme dei documenti o su una evidenza informatica contenente una o più impronte dei documenti o di insiemi di essi. Qualora il processo riguardi documenti originali unici di cui al comma 2, è richiesta l’ulteriore apposizione del riferimento temporale e della firma digitale da parte di un pubblico ufficiale per attestare la conformità di quanto riversato al documento d’origine”.

In tema di riversamento sostitutivo, per quel che concerne tutte le problematiche inerenti all’apposizione della marca temporale e alla corretta individuazione del pubblico ufficiale, si rinvia a quanto sopra scritto.

Sull’affidamento in outsourcing di compiti e di responsabilità inerenti alle procedure di archiviazione elettronica e conservazione sostitutiva, si tornerà nel prosieguo della trattazione.

3.2 La dematerializzazione della documentazione clinica in laboratorio e in diagnostica per immagini

Altro aspetto interessante della dematerializzazione della documentazione sanitaria è rappresentato dai processi di creazione in formato digitale ab origine ovvero di conservazione sostitutiva dei referti e delle immagini radiologiche. Le Linee-guida del Ministero della Salute del Marzo 2007 cit. hanno come specifico oggetto proprio tali problematiche e di seguito si cercherà di mettere in evidenza i punti salienti del documento de quo.

Va premesso che il referto, per avere dignità giuridica e per ottenere valore legale e probatorio, deve essere sottoscritto dal medico refertante. Per le immagini radiologiche (definibili anche come “rappresentazioni iconografiche”), le modalità di gestione sono normate dal D. M. 14 febbraio 1997, che tratta delle specifiche fasi di acquisizione, archiviazione e disponibilità delle stesse. In particolare l’art. 4, comma 1, afferma che “ove la documentazione iconografica di cui al precedente articolo non venga consegnata al paziente, questa deve essere custodita con le modalità di cui ai successivi commi”. Perciò in tal caso la struttura erogante dovrà attenersi a specifiche modalità di gestione in grado di garantirne la disponibilità. Sulle immagini diagnostiche va poi aggiunto che:

- la circ. n. 61/1986 cit. asserisce che le radiografi

1. Introduzione

È recente l’entrata in vigore del D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235[1], rubricato “Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante Codice dell’amministrazione digitale, a norma dell’articolo 33 della legge 18 giugno 2009, n. 69”. Trattasi di un decreto correttivo particolarmente importante e di ampio respiro, dopo che già un primo intervento di tipo riformatore, risalente al 2006[2], aveva pesantemente impattato sul testo storico del c.d. “Codice dell’Amministrazione Digitale” o “CAD” ed è indubbio che oggi più di allora debba essere data una spinta decisiva ai processi di digitalizzazione dei rapporti tra Pubbliche Amministrazioni inter se, tra P.A. e cittadini, nonché tra P.A e imprese. Esigenze di trasparenza, efficienza, efficacia, economicità, semplificazione e snellimento dell’azione amministrativa depongono in tal senso, stante anche quanto previsto dall’artt. 1[3] e 3-bis[4] della L. 7 agosto 1990, n. 241 in materia di procedimento amministrativo e dall’art. 3[5] del CAD medesimo. Alla base v’è l’ambizioso e ormai non più celato obbiettivo, in un futuro non remoto, di abbattere i costi di gestione e di conservazione dell’immensa mole di “carta” che negli anni si è accumulata nei magazzini delle P.A. (nonché dei privati) e che rischierà di aumentare vertiginosamente nel futuro, se non si prenderà decisamente atto della necessità (ma anche se non si avrà il coraggio) di “dematerializzare” e dunque di “virtualizzare” rapporti, documenti, transazioni e ogni altra attività e/o servizio giuridicamente rilevante. In tale ottica vanno letti i vari interventi legislativi, regolamentari e di disciplina settoriale che negli anni si sono succeduti fino ad oggi, a partire dal 1997, data di entrata in vigore della c.d. “prima legge Bassanini”[6], il cui art. 15, comma 2, riconosceva per la prima volta agli atti, dati e documenti formati dalla P.A. e dai privati con strumenti informatici o telematici, ai contratti stipulati nelle medesime forme, nonché alla loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, validità e rilevanza a tutti gli effetti di legge. Se ne ricordano i più significativi:

- il d.P.R. 10 novembre 1997, n. 513, “Regolamento recante criteri e modalità per la formazione, l’archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, a norma dell’articolo 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n.59”;

- il d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, noto anche come “Testo Unico in materia di Documentazione Amministrativa” o “T.U.D.A.”, il cui art. 1, comma 1, lett. b), offriva la definizione di “documento informatico”, ancora oggi presente nel CAD, quale “rappresentazione informatica di atti, dati, fatti giuridicamente rilevanti”;

- il d.P.R. 13 febbraio 2001 n.123, “Regolamento recante disciplina sull’uso degli strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti”[7];

- il D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, recante la “Attuazione della direttiva 1999/93/CE relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche”;

- il D.M.E.F. 23 gennaio 2004, “Modalità di assolvimento degli obblighi fiscali relativi ai documenti informatici ed alla loro riproduzione in diversi tipi di supporto”;

- Deliberazione CNIPA del 19 febbraio 2004, n. 11, “Regole tecniche per la riproduzione e conservazione di documenti su supporto ottico idoneo a garantire la conformità dei documenti agli originali - Art. 6, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”;

- il D.Lgs. 20 febbraio 2004, n. 52, “Attuazione della direttiva 2001/115/CE che semplifica ed armonizza le modalità di fatturazione in materia di IVA”;

- il d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 contiene il “Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3”[8];

- il CAD per l’appunto (D.Lgs. 82/2005 e succ. modif.);

- le “Linee guida per la dematerializzazione della documentazione clinica in laboratorio e in diagnostica per immagini – Normativa e prassi”, adottate dal Ministero della Salute nel marzo 2007;

- l’art. 39 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria”), conv. in L. 6 agosto 2008, n. 133, che ha previsto l’istituzione del c.d. “libro unico del lavoro” in luogo del “libro paga” e del “libro matricola”[9];

- il D.P.C.M. 30 marzo 2009, “Regole tecniche in materia di generazione, apposizione e verifica delle firme digitali e validazione temporale dei documenti informatici”;

- il D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 110, “Disposizioni in materia di atto pubblico informatico redatto dal notaio, a norma dell’articolo 65 della legge 18 giugno 2009, n. 69”;

cui si affiancano altri provvedimenti non organici, ma pur sempre significativi per la modernizzazione del Paese[10].

In tale sede interessa affrontare le problematiche relative alla conservazione digitale dei documenti sanitari quali le cartelle cliniche e i referti medici.

2. La natura di atto pubblico della “cartella clinica” e la rilevanza giuridica della documentazione sanitaria

Prima di scendere in medias res è opportuno premettere che la cartella clinica è “un atto pubblico che esplica la funzione di diario dell’intervento medico e dei relativi fatti clinici rilevanti, sicché i fatti devono essere annotati conformemente al loro verificarsi”[11] ed è “caratterizzata dalla produttività di atti costitutivi, traslativi, modificativi o estintivi rispetto a situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica, nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che redige l’atto”[12].

Inoltre l’art. 26 del nuovo Codice di deontologia medica (come approvato dal Consiglio Direttivo dell’Ordine il 23 gennaio 2007) così dispone:

“La cartella clinica delle strutture pubbliche e private deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pratica clinica e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate.

La cartella clinica deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente, o di chi ne esercita la tutela, alle proposte diagnostiche e terapeutiche; deve inoltre registrare il consenso del paziente al trattamento dei dati sensibili, con particolare riguardo ai casi di arruolamento in un protocollo sperimentale”.

La cartella clinica costituisce dunque il diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti e tali fatti debbono essere annotati contestualmente al loro verificarsi in modo intelliggibile. Le annotazioni debbono avvenire nel ragionevole tempo della contestualità ed essere consequenziali. Ciascuna singola annotazione, nel momento stesso in cui viene trascritta, esce dalla disponibilità dell’autore e acquisisce autonomo valore documentale definitivo. Se ciò è vero, “le modifiche e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti pubblici”[13] e precisamente “tutte le successive modifiche, aggiunte, alterazioni e cancellazioni integrano falsità in atto pubblico, salvo che si risolvano in mere correzioni di errori materiali”[14]. Ovviamente le falsità potranno essere tanto materiali (art. 476 c.p.), quanto ideologiche (art. 479 c.p.) e da un punto di vista strettamente civilistico l’efficacia probatoria non potrà che essere quella di cui all’art. 2700 c.c. Pertanto la cartella clinica costituisce “piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”. La cartella clinica è quindi atto pubblico certificativo e munito di fede privilegiata per quello che il sanitario, pubblico ufficiale, attesta di aver compiuto o di essere avvenuto in sua presenza[15] e “la funzione certificatoria deve essere assicurata attraverso la veridicità, la completezza, la correttezza formale e la chiarezza”[16].

Ma v’è di più. Se è vero quanto affermato sul valore probatorio, sulla rilevanza giuridica in tema di certezza del diritto, sulla completezza, correttezza formale, immodificabilità e irretrattabilità della cartella clinica, i dati in essa contenuti non possono certamente essere cancellati, ma sono, come già sopra accennato, ammesse correzioni di errori materiali tramite rettifica o integrazione. Ciò a patto che le correzioni siano chiaramente visibili. A tal proposito, prassi vuole che sia necessario circoscrivere l’errore tra due parentesi (o comunque interlinearlo, come anche è uso nei verbali di udienza o negli atti notarili), numerarlo e riportare a piè di pagina il numero con la dicitura “leggasi”, indi scrivere la correzione apportata e apporre firma, data e timbro[17].

E se ce ne fosse ancora bisogno, a ulteriore conferma della rilevanza e della fondamentale funzione probatoria che rivestono la cartella clinica e gli altri documenti sanitari, basta leggere quanto scritto dal Ministero della Salute nella circolare n. 61 del 19/12/1986: “Le cartelle cliniche, unitamente ai referti vanno conservate illimitatamente poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentale per le ricerche di carattere storico sanitario. Le radiografie e altra documentazione diagnostica vanno conservate per 20 anni”.

In ragione di ciò diventa assolutamente indispensabile ragionare di conservazione “a norma” delle cartelle cliniche elettroniche, dei referti di laboratorio o di diagnostica per immagini, ben riflettendo sulle caratteristiche di siffatti documenti e sulle best practices adottate quando redatti su supporto cartaceo, onde valutare l’impatto della “digitalizzazione” sui medesimi e adeguare strumenti e modalità informatici alle esigenze di certezza del diritto.

3. La conservazione sostitutiva della documentazione sanitaria

3.1 Cartella clinica elettronica

Si è in precedenza accennato ai concetti di digitalizzazione e soprattutto di dematerializzazione, intendendosi per essa la progressiva sostituzione della documentazione cartacea con i documenti informatici, ottenibile nei seguenti modi:

- o attraverso la promozione dell’uso del computer quale strumento privilegiato di redazione degli atti giuridicamente rilevanti, in altre parole attraverso la redazione di documenti informatici originali e originari[18];

- o attraverso la “digitalizzazione” dei documenti analogici[19] già esistenti (ossia tramite trasformazione del documento da analogico in informatico), onde eliminare problematiche di gestione e di conservazione dei supporti cartacei, con consistente abbattimento dei relativi costi.

Nel corso degli anni diversi provvedimenti di tipo legislativo o regolamentare hanno consentito la piena sostituibilità della documentazione cartacea tramite l’uso di nuovi strumenti tecnologici. A tal proposito merita menzione l’art. 25 della L. 4 gennaio 1968, n. 15, recante “Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme” (oggi abrogata e sostituita dal T.U.D.A.), che così recitava: “le pubbliche amministrazioni e i privati hanno facoltà di sostituire, a tutti gli effetti, ai documenti dei propri archivi, alle scritture contabili, alla corrispondenza ed agli altri atti di cui per legge o regolamento è prescritta la conservazione, la corrispondente riproduzione fotografica, anche se costituita da fotogramma negativo”[20].

Per quel che qui interessa, occorre anzitutto evidenziare che i processi di dematerializzazione trovano oggi i principali riferimenti normativi nel CAD e nella deliberazione CNIPA (oggi “DigitPA”[21]) n. 11/2004 cit. (che ha sostituito la precedente deliberazione del 13 dicembre 2001, n. 42, quando ancora era denominata AIPA). Poi, con riferimento specifico alla dematerializzazione della documentazione sanitaria, vanno menzionate le “Linee guida per la dematerializzazione della documentazione clinica in laboratorio e in diagnostica per immagini”, adottate dal Ministero della Salute nel marzo 2007, cui si è accennato in precedenza.

Occorre però, prima di tutto, soffermarsi sulla terminologia propria dei processi di dematerializzazione, in particolare sui concetti di “memorizzazione”, “archiviazione”, “conservazione”, “riversamento diretto” e “riversamento sostitutivo”.

Con il termine “memorizzazione” ci si riferisce al processo di trasposizione di documenti analogici o informatici su un qualsiasi supporto idoneo che ne garantisca la leggibilità. E’ dunque sinonimo di generica registrazione.

Con il termine “archiviazione” ci si riferisce al processo di memorizzazione su qualsiasi supporto idoneo di documenti informatici, anche sottoscritti, univocamente identificati mediante un codice di riferimento, antecedente e prodromico all’eventuale processo di conservazione. In poche parole archiviazione è sinonimo di organizzazione, etichettatura e classificazione documentale e non a caso è necessario un codice di riferimento, che agevoli le funzioni di ricerca, di consultazione, di leggibilità, di esibizione e di estraibilità di copia del documento archiviato[22].

Infine, con il termine “conservazione”, che si riferisce all’esigenza di mantenere integre, inalterate e immodificabili nel tempo le informazioni contenute in un determinato documento[23], si intende quel processo che presuppone la memorizzazione su supporti ottici o altri idonei supporti, dei documenti e eventualmente anche delle loro impronte, che termina con l’apposizione della firma digitale e del riferimento temporale sull’insieme dei documenti o su un’evidenza informatica contenente l’impronta[24] o le impronte dei documenti o di insieme di essi da parte del c.d. “responsabile della conservazione” (figura sulla quale si tornerà in seguito).

Chiariti questi concetti (su quelli di riversamento diretto e sostitutivo si tornerà nel prosieguo della trattazione), si possono ora analizzare più da vicino i processi di conservazione, tenendo distinta, da un lato, la conservazione dei documenti originariamente informatici e, dall’altro, la conservazione sostitutiva stricto sensu dei documenti originariamente analogici. E proprio quest’ultima presenta gli aspetti di maggiore interesse, dal momento che essa consente la totale eliminazione o distruzione della documentazione cartacea.

Per quanto riguarda la prima essa deve essere effettuata mediante memorizzazione dei documenti interessati su supporti ottici o, sebbene non ottici, comunque idonei ai sensi dell’art. 8 della deliberazione n. 11/2004[25] e terminare con l’apposizione sull’insieme dei documenti ovvero su un’evidenza informatica contenente l’impronta o le impronte dei documenti o insiemi di essi, del riferimento temporale (ossia l’informazione, contenente la data e l’ora, che viene associata ad uno o più documenti informatici) e della firma digitale da parte del responsabile della conservazione, figura centrale nei processi di conservazione e disciplinata dall’art. 5 della deliberazione n. 11/2004 cit. Egli in particolare definisce le caratteristiche e i requisiti del sistema di conservazione in funzione della tipologia dei documenti da conservare, ne organizza conseguentemente il contenuto e gestisce le procedure di sicurezza e di tracciabilità che ne garantiscono la corretta conservazione, anche per consentire l’esibizione di ciascun documento conservato. Per quel che concerne gli aspetti essenziali della sicurezza sia dei dati archiviati e da conservarsi, sia delle procedure adottate, il responsabile della conservazione, salva l’adozione delle misure di sicurezza prescritte dal D.Lgs. 30 giugno 2003 e succ. modif. (recante il “Codice in materia di protezione dei dati personali”), svolge i seguenti compiti:

- fornisce le necessarie indicazioni sulla generazione e sulla gestione delle copie di sicurezza o backup (numero, frequenza, formato, priorità, test di restore, etichettatura, incarichi e responsabilità);

- verifica la corretta funzionalità del sistema e dei programmi in gestione;

- adotta le misure necessarie per la sicurezza fisica e logica del sistema preposto al processo di conservazione sostitutiva e delle copie di sicurezza dei supporti di memorizzazione (custodia fisica; policy procedurali per coloro che sono autorizzati a prelevare e usare i backup; protezione logica tramite crittografia);

- definisce e documenta le procedure di sicurezza da rispettare per l’apposizione del riferimento temporale;

- verifica periodicamente, con cadenza non superiore a cinque anni, l’effettiva leggibilità dei documenti conservati provvedendo, se necessario, al riversamento diretto o sostitutivo del contenuto dei supporti (su tali concetti si tornerà nel prosieguo della trattazione).

Resta salva, per il responsabile della conservazione, la possibilità di delegare i propri compiti a una o più persone che, per competenza ed esperienza, garantiscano la corretta esecuzione delle operazioni ad esse delegate (sulla c.d. “delega di funzioni”, v. di seguito), nonché la possibilità di affidare il procedimento di conservazione sostitutiva, in tutto o in parte, in outsourcing, ossia a soggetti esterni, pubblici o privati.

Se dunque un cartella clinica nasce originariamente come documento informatico e le informazioni che contiene sono elaborate elettronicamente, così come le successive annotazioni, al termine del ciclo della cartella stessa, laddove sia necessario cristallizzare i dati in essa contenuti nel tempo, sarà per es. il primario o il direttore di unità operativa complessa il responsabile della conservazione, in quanto responsabile della regolare compilazione della cartella clinica e dei registri nosologici, nonché della loro conservazione fino alla consegna all’archivio centrale[26]. Egli quindi firmerà digitalmente il documento, con annesso riferimento temporale. Ma potrà farlo anche un suo delegato, per es. l’aiuto-medico o l’assistente[27]. In tal modo la cartella clinica viene “chiusa”, “sigillata” e acquista quelle caratteristiche di certezza nella provenienza (imputabilità o paternità della cartella e non ripudi abilità), nonché di integrità, immodificabilità e inalterabilità del contenuto nel tempo. Tuttavia alcune considerazioni si impongono.

Per quel che riguarda i supporti ovvero i formati sui quali vengono archiviate e successivamente e conservate le informazioni, essi devono garantire le caratteristiche di “staticità” e “immodificabilità”: a tal fine il documento informatico non deve contenere macroistruzioni[28] o codici eseguibili[29], tali da attivare funzionalità che possano modificare gli atti, i fatti o i dati nello stesso rappresentati. Quanto ai supporti di tipo ottico risultano molto utili i dispositivi cc.dd. “W.O.R.M.”, acronimo per “Write Once, Read Many” (o, alternativamente, “Write One, Read Multiple”), con riferimento a storage (archivi di massa, come CD o DVD), non riscrivibili, ma che consentono molteplici letture. Quanto invece ai formati, suggeriti sono quelli aventi seguenti estensioni:

- .rtf, .odt, .pdf[30], per documenti;

- .tiff, .jpg, .gif, per immagini;

- .txt, .xml[31], per solo testi.

In secondo luogo, considerando che la firma digitale rende assolutamente “certo” il documento con essa sottoscritto, sia sotto il profilo della connessione univoca del medesimo al suo autore (“entity authentication”), sia sotto il profilo della immodificabilità e inalterabilità dei dati in essa raccolti ed elaborati (“data authentication”), sorge un problema di correzione degli errori materiali e di aggiornamento della cartella clinica stessa, una volta “cristallizzata” e “sigillata” nel contenuto e nel tempo. Apposite soluzioni tecnologiche dovrebbero consentire al medico pubblico ufficiale estensore o ai suoi ausiliari e/o delegati di integrare o correggere materialmente la cartella clinica elettronica, ormai immodificabile, lasciando comunque evidenza delle integrazioni e delle correzioni, tramite un sistema di annotazione digitale realizzabile con link o collegamenti ipertestuali. In tal modo ogni modificazione, a sua volta firmata digitalmente e munita di riferimento temporale, verrebbe associata univocamente, tramite richiamo per mezzo di un codice o numero di protocollo, al documento originale e originario. L’annotazione così conterrebbe gli aggiornamenti e le rettifiche necessarie, con i dovuti riferimenti, e non andrebbe a intaccare il contenuto della cartella clinica precedentemente formata (e comunque cristallizzata e immutabile).

Infine, vero è che la cartella quale particolare forma di “atto pubblico”, una volta firmata digitalmente e munita del relativo riferimento temporale, dovrebbe essere opponibile comunque a terzi: insomma avrebbe naturalmente, per come strutturata e cristallizzata al termine del processo di conservazione sostitutiva, la c.d. “data certa”. Tuttavia, considerando che i certificati digitali qualificati rilasciati per l’utilizzo di dispositivi di firma digitale hanno una durata predefinita e limitata nel tempo[32], quantunque le regole tecniche della deliberazione n. 11/2004 cit. non lo specifichino, sarebbe quanto mai opportuno che il riferimento in questione fosse effettivamente opponibile ai terzi. All’uopo l’associazione al documento informatico di una “marca temporale” risulterebbe certamente il metodo più semplice e tecnicamente più adatto. Per marca temporale si intende, ai sensi dell’art. 1 del D.M.E.F. 23 gennaio 2004 cit., una “evidenza informatica che consente di rendere opponibile a terzi un riferimento temporale”. Fa eco a siffatta definizione l’art. 1 lett. i) del D.P.C.M. 30 marzo 2009 cit.: “il riferimento temporale che consente la validazione temporale”, ove “validazione temporale” significa per l’appunto “risultato della procedura informatica con cui si attribuiscono, ad uno o più documenti informatici, una data ed un orario opponibili ai terzi” (art. 1, lett. aa), del CAD)[33]. Pertanto una evidenza informatica è sottoposta a validazione temporale mediante generazione e applicazione di una marca temporale alla relativa impronta (art. 43 del D.P.C.M. 30 marzo 2009 cit.). L’apposizione di una marca temporale (che tecnicamente altro non è che una firma digitale che si aggiunge a quella già apposta dal responsabile della conservazione) consentirebbe in poche parole di estendere la validità di un documento informatico, i cui effetti si protraggano nel tempo oltre il limite della validità della chiave di sottoscrizione (e la cartella clinica ha proprio tali caratteristiche, visto che deve essere conservata senza limiti di tempo). Si potrebbe pensare all’apposizione di una marca temporale alla conclusione del processo di redazione della cartella clinica ovvero al momento del decesso del paziente interessato.

Discorso a parte va fatto per la conservazione sostitutiva dei documenti originariamente analogici, tant’è che occorre preliminarmente differenziare a seconda che essa coinvolga documenti analogici originali unici o documenti analogici originali non unici[34].

Esclusivamente per i primi la chiusura del processo di conservazione necessita della presenza di un pubblico ufficiale (notaio o altro pubblico ufficiale rogante), chiamato ad apporre la sua firma digitale e il suo riferimento temporale (o marca per le ragioni sopra indicate).

Per i secondi, invece, è sufficiente l’intervento del responsabile della conservazione che, dopo aver proceduto alla memorizzazione dell’immagine dei documenti direttamente sui supporti idonei, eventualmente, anche della relativa impronta, appone, sull’insieme dei documenti o su una evidenza informatica contenente una o più impronte dei documenti o di insiemi di essi, il riferimento temporale (o la marca; ut supra) e la propria firma digitale a garanzia della corretta esecuzione del processo.

Pertanto, nel caso in cui la cartella clinica nasca originariamente su supporto cartaceo, essa, in qualità di documento analogico unico, dovrà essere trasformata in documento elettronico, su supporti e in formati che garantiscano immutabilità e staticità, firmata digitalmente (con annesso riferimento temporale) dal primario o dal responsabile della struttura complessa ovvero da un delegato, per poi essere definitivamente firmata digitalmente da un notaio o altro pubblico ufficiale rogante. In caso di aziende ospedaliere o aziende sanitarie locali tale pubblico ufficiale potrebbe essere rappresentato dal direttore sanitario, il quale ex art. 5, comma 1, del d.P.R. 128/1969 cit. “vigila sull’archivio delle cartelle cliniche”. Il condizionale è però d’obbligo, in quanto va rimembrata la disposizione di cui all’art. 5, comma 4, della deliberazione n. 11/2004 cit.: “Nelle amministrazioni pubbliche il ruolo di pubblico ufficiale è svolto dal dirigente dell’ufficio responsabile della conservazione dei documenti o da altri dallo stesso formalmente designati, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 3, comma 2, e dall’art. 4, commi 2 e 4, casi nei quali si richiede l’intervento di soggetto diverso della stessa amministrazione”. Ergo tra le eccezioni previste, per le quali è richiesto l’intervento di un soggetto esterno alla medesima amministrazione, c’è proprio quella relativa alla conservazione sostitutiva di un documento analogico originale unico (ex art. 4, comma 2, della deliberazione n. 11/2004 cit.), quale è la cartella clinica.

Per quel che riguarda la possibilità di distruzione dell’originale analogico, prevista dall’art. 4, comma 3, della deliberazione n. 11/2004 cit. (“La distruzione di documenti analogici, di cui è obbligatoria la conservazione, è consentita soltanto dopo il completamento della procedura di conservazione sostitutiva”), si nutrono parecchi dubbi per quel che concerne siffatta possibilità per la cartella clinica. Infatti la disposizione de qua va coordinata con quanto previsto dall’art. 22, commi 5 e 6, del CAD, il cui testo di seguito si riporta integralmente:

“5. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari tipologie di documenti analogici originali per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico.

6. Fino alla data di emanazione del decreto di cui al comma 5 per tutti i documenti analogici originali unici permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico”.

In attesa dell’entrata in vigore nel decreto di cui al comma 5, si potrebbe però trovare un espediente giuridico proprio nel comma 6, salva poi l’approvazione in via definitiva del disegno di legge (attualmente al Senato) n. 2243 della XVI Legislatura (già atto della Camera n. 3209), recante “Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica Amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codificazione in materia di pubblica amministrazione” (a firma dei Ministri Brunetta, Calderoli, Scajola, Sacconi, Tremonti), il cui art. 7 recita come segue:

“Art. 7 - Conservazione delle cartelle cliniche

1. La conservazione delle cartelle cliniche, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, è effettuata esclusivamente in forma digitale. Le copie delle cartelle cliniche sono rilasciate agli interessati, su richiesta, anche in forma cartacea, previo pagamento di un corrispettivo stabilito dall’amministrazione che le detiene.

2. Le disposizioni del comma 1 si applicano anche alle strutture sanitarie private accreditate.

3. Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, dal Ministro della salute, di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione, dell’economia e delle finanze, della difesa e per la semplificazione normativa, sentiti la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e il Garante per la protezione dei dati personali, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 41 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, sono stabilite le modalità uniformi di attuazione del comma 1 del presente articolo nonché la decorrenza degli adempimenti di cui al medesimo comma 1”.

Per concludere, vanno menzionate altre due nozioni di estrema importanza e precisamente quelle di “riversamento diretto” e di “riversamento sostitutivo”.

Con il primo termine si intende il trasferimento di uno o più documenti portati in conservazione da un supporto di memorizzazione a un altro, senza che venga alterata la loro rappresentazione informatica (classico è l’esempio dei “backup” o copie di sicurezza). Con il secondo, invece, il trasferimento comporta siffatta alterazione (in gergo informatico si usa anche il termine di “migrazione”), per es. per la necessità di un aggiornamento tecnologico dell’archivio informatico, laddove non sia possibile o conveniente mantenere il formato di rappresentazione dei documenti originariamente conservati. La differenza non è da poco giacché, mentre per il riversamento diretto la normativa non prevede particolari formalità, per il riversamento sostitutivo essa prevede l’intervento pur sempre del responsabile della conservazione che deve assicurare il corretto svolgimento del processo. Se il riversamento sostitutivo coinvolge poi documenti informatici sottoscritti, allora sarà addirittura necessario l’intervento di un notaio o altro pubblico ufficiale che, apponendo la propria firma digitale, attesterà la conformità di quanto riversato al documento d’origine.

L’art. 4, comma 4, della deliberazione n. 11/2004 cit. prevede poi specifiche formalità per il riversamento sostitutivo di documenti analogici: “Il processo di riversamento sostitutivo di documenti analogici conservati avviene mediante memorizzazione su altro supporto ottico. Il responsabile della conservazione, al termine del riversamento, ne attesta il corretto svolgimento con l’apposizione del riferimento temporale e della firma digitale sull’insieme dei documenti o su una evidenza informatica contenente una o più impronte dei documenti o di insiemi di essi. Qualora il processo riguardi documenti originali unici di cui al comma 2, è richiesta l’ulteriore apposizione del riferimento temporale e della firma digitale da parte di un pubblico ufficiale per attestare la conformità di quanto riversato al documento d’origine”.

In tema di riversamento sostitutivo, per quel che concerne tutte le problematiche inerenti all’apposizione della marca temporale e alla corretta individuazione del pubblico ufficiale, si rinvia a quanto sopra scritto.

Sull’affidamento in outsourcing di compiti e di responsabilità inerenti alle procedure di archiviazione elettronica e conservazione sostitutiva, si tornerà nel prosieguo della trattazione.

3.2 La dematerializzazione della documentazione clinica in laboratorio e in diagnostica per immagini

Altro aspetto interessante della dematerializzazione della documentazione sanitaria è rappresentato dai processi di creazione in formato digitale ab origine ovvero di conservazione sostitutiva dei referti e delle immagini radiologiche. Le Linee-guida del Ministero della Salute del Marzo 2007 cit. hanno come specifico oggetto proprio tali problematiche e di seguito si cercherà di mettere in evidenza i punti salienti del documento de quo.

Va premesso che il referto, per avere dignità giuridica e per ottenere valore legale e probatorio, deve essere sottoscritto dal medico refertante. Per le immagini radiologiche (definibili anche come “rappresentazioni iconografiche”), le modalità di gestione sono normate dal D. M. 14 febbraio 1997, che tratta delle specifiche fasi di acquisizione, archiviazione e disponibilità delle stesse. In particolare l’art. 4, comma 1, afferma che “ove la documentazione iconografica di cui al precedente articolo non venga consegnata al paziente, questa deve essere custodita con le modalità di cui ai successivi commi”. Perciò in tal caso la struttura erogante dovrà attenersi a specifiche modalità di gestione in grado di garantirne la disponibilità. Sulle immagini diagnostiche va poi aggiunto che:

- la circ. n. 61/1986 cit. asserisce che le radiografi