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La prescrizione nel contratto di apertura di credito utilizzato con scoperto in conto corrente nella sentenza 24418

Ulteriore nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 2 dicembre 2010, n.24418
Introduzione.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, nell’esercizio della loro funzione nomofilattica, hanno definitivamente stabilito con la sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010 i seguenti principi di diritto in materia di dies a quo del decorso della prescrizione decennale nei rapporti di apercredito utilizzati con scoperto di c/c bancario:

"Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati".

e sull’applicazione dell’anatocismo annuale:

"L’interpretazione data dal Giudice di merito all’art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce solo ad interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito previsto dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali di interpretazione del contratto, ed in particolare, a quello che prescrive l’interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna."

Detta pronuncia se da un lato ha consolidato l’indirizzo, perseguito dalla totalità della Giurisprudenza di legittimità [1] e dalla massima parte di quella di merito [2], di far decorrere il dies a quo della prescrizione decennale nei rapporti di conto corrente bancario dalla chiusura del conto; dall’altro ha cancellato l’indirizzo di quella giurisprudenza di merito che soleva sostituire l’illegittima capitalizzazione trimestrale applicata da tutte le banche nei conti passivi con l’altrettanto illegittima capitalizzazione annuale. Infine ha confermato la legittimità della capitalizzazione annuale nei conti creditori per il correntista.

Ciò posto, non resta che analizzare il prevedibile impatto della prescrizione limitatamente a quella parte dei versamenti effettuati dall’utente che non hanno funzione ripristinatoria della provvista.

Sul contenuto e termine dell’eccezione di prescrizione

La prescrizione dei singoli versamenti che non hanno funzione ripristinatoria della provvista va sollevata ed evidenziata dalla banca, dal 1° marzo 2006, ovvero dall’entrata in vigore della legge n. 80 del 2005, nei termini imposti dall’art. 167 c.p.c., con allegazione e tipizzazione della fattispecie.

Per il periodo precedente, la legge n. 353 del 1990 aveva inserito le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio tra le attività che, a pena di decadenza, dovevano essere svolte dal convenuto con comparsa di costituzione e risposta da depositare almeno venti giorni prima dell’udienza o dieci in caso di abbreviazione dei termini[3].

In difetto di tempestiva proposizione la giurisprudenza ha statuito che:

L’eccezione di prescrizione sollevata dalla convenuta è inammissibile essendosi questa costituita soltanto alla prima udienza, incorrendo in tal modo nella decadenza di cui all’art. 167 cpc (ed nuovo rito). (cfr da ultimo Tribunale di Sondrio, Sez. Morbegno, Dott. Francesco SORA, Sent. n. 64 del 27 giugno 2009).

Tuttavia vanno fatte alcune precisazioni anche relative al contenuto di detta eccezione che deve essere specifica e puntuale.

La possibilità per la parte di sollevare l’eccezione implica che ad essa sia fatto onere di allegare l’elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto: in particolare, in caso di pluralità di atti esecutivi (come sono i differenti i vari versamenti extrafido effettuati dal correntista nel corso del rapporto di apercredito con scoperto in conto corrente) è necessario che l’elemento costitutivo sia specificato, dovendo il convenuto precisare il momento iniziale dell’inerzia in relazione a ciascuno di essi (Cass. 2004/4668).

È, dunque, onere della banca eccepire l’intervenuta prescrizione non in forma generica (ad esempio di tutte le operazioni effettuate a decorrere dal momento in cui vengono eseguite, come ha fatto sistematicamente fino al 2 dicembre 2010) ma specificatamente, cioè indicando che la prescrizione debba colpire le operazioni di versamento che non hanno funzione ripristinatoria della provvista, precisando il momento iniziale dell’inerzia del correntista in relazione a ciascun versamento extrafido con funzione solutoria (non tutti i versamenti extrafido possono avere funzione solutoria[4]); mentre è compito del giudice accertare quale sia il tipo e la durata della prescrizione stessa e se essa sia decorsa, ma non si potrà sostituire alla difesa della parte specificandone l’elemento costitutivo e demandando detta individuazione al consulente tecnico d’ufficio.

L’eccezione di prescrizione, in quanto eccezione in senso stretto, deve fondarsi su fatti allegati dalla banca, quand’anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice.

Se nulla la banca ha specificatamente osservato circa la natura solutoria dei versamenti effettuati dal correntista durante il rapporto, né ha individuato o allegato detti versamenti e gli effetti che hanno avuto nel saldo finale, allora la genericità dell’eccezione non rende comprensibile ed individuabile l’eccezione stessa che non può che essere dichiarata inammissibile.

Ne consegue che la banca, ove eccepisca la prescrizione del credito, ha l’onere di allegare (producendo contratto di affidamento, estratti conto con evidenziati versamenti solutori) e provare il fatto che, permettendo l’esercizio del diritto, determina l’inizio della decorrenza del termine ai sensi dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto diverso, conosciuto attraverso un documento prodotto ad altri fini (ad esempio gli estratti conto prodotti dal correntista per la ripetizione dell’indebito) da diversa parte in causa[5].

Le difese degli istituti di credito nelle memorie difensive anteriori al 2 dicembre 2010 non hanno dedotto alcuna eccezione specifica in tal senso e non ha prodotto nulla, sia nella memoria di costituzione, con le sue preclusioni di cui all’art. 167 cpc, ma neppure nella prima successiva memoria ex art. 183 cpc.

D’altra parte l’elemento costitutivo dell’eccezione di prescrizione è la manifestazione in modo non equivoco della volontà della parte di far valere l’estinzione, a causa del decorso del tempo, del credito o dei crediti nei suoi confronti azionati; conseguentemente, mentre rileva la precisazione della parte circa i crediti o le loro parti effettivamente investiti dall’eccezione, il riferimento al termine – quinquennale, decennale, ecc. – ha il valore di mera prospettazione di una tesi giuridica, che non vincola il giudice circa l’individuazione del tipo di prescrizione (Cass. 2000/9825).

La generica proposizione dell’eccezione di prescrizione da parte dell’interessato non autorizza l’individuazione da parte del giudice del tipo concretamente applicabile, atteso che, da un canto, la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, dall’altro, il suo carattere dispositivo comporta, per la parte che la propone, l’onere di tipizzarla (cfr. Cass. 1993/4130), sicché, in mancanza delle specifiche indicazioni di fatto necessarie per rendere comprensibile ed individuabile l’eccezione, l’eccezione medesima non può che essere dichiarata inammissibile (cfr. Cass. 1999/3798; v. anche Cass. 2005/6519; Cass. 1999/850).

L’eccezione di prescrizione, oltre a non essere rilevabile d’ufficio, deve essere dedotta, a pena di inammissibilità, in modo specifico e tipizzato, non potendo il giudice applicare un tipo di prescrizione diverso da quello richiesto, ciò comportando la violazione sia del principio dispositivo dell’eccezione di prescrizione, sia del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (cfr. Cass. S.U. 1989/1607).

Allo stato la Giurisprudenza del 2011 appare aver recepito detto pacifico principio emettendo sentenze che tengono presente la nullità della capitalizzazione annuale dell’interesse debitore del correntista, ma non ammettono alcun quesito sollecitato dal ceto bancario per l’espunzione degli eventuali i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto che non abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista: cfr. Ordinanza del Tribunale di Arezzo, Dott. Antonio PICARDI, 10 gennaio 2011 nella causa R.G. 293/07; Tribunale di BRESCIA, Dott. Elda GERACI, Sentenza n. 189 del 24 gennaio 2011; Ordinanza del Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni TOMMASI, nella causa R.G. 320/2005.

Sull’onere della prova nei giudizi di accertamento negativo del credito

E’ indiscusso che l’azione promossa dagli esponenti deve qualificarsi come tipico giudizio di accertamento: accertamento, nel caso, della nullità delle clausole del contratto di apertura di credito stipulato dalle parti, attinenti la determinazione degli interessi ultralegali, il criterio di calcolo dall’interesse anatocistico, l’applicazione della provvigione di massimo scoperto e delle altre somme richieste in restituzione.

Relativamente all’onere della prova nelle azioni di accertamento negativo una parte della Giurisprudenza sostiene la tesi secondo cui lo stesso grava sempre e, comunque, sul soggetto che agisce in giudizio: detto orientamento giurisprudenziale si collega a vetuste opinioni autorevolmente sostenute in sede dottrinale già nella vigenza del codice di procedura civile del 1865, sul presupposto del rilievo preminente svolto in materia di onere della prova dalla posizione processuale delle parti e della esistenza di un onere più ampio, c.d. primario, a carico dell’attore.

Si è anche sostenuto che l’attribuzione in ogni caso dell’onere della prova all’attore in accertamento negativo costituisca una sorta di necessario contrappeso alla ritenuta ammissibilità delle azioni di accertamento, la cui proposizione altrimenti potrebbe mettere in difficoltà la difesa del convenuto (o comunque vessarlo).

In senso contrario si è pronunciata un’illuminata sentenza (Cass. n. 1391/1985), sulla base della esplicita affermazione che i principi generali sull’onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore, con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa.

Detto orientamento, come suggerito da analisi puntuali di trattazioni dottrinali più recenti, è preferibile al precedente che non risulta conforme alle regola fondamentale sulla distribuzione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., aggrava ingiustificatamente la posizione di soggetti indotti o praticamente costretti a promuovere un’azione di accertamento negativo dalle circostanze e specificamente da iniziative stragiudiziali o giudiziali della controparte e, inoltre, non è effettivamente giustificato dalla finalità di prevenire azioni di accertamento non aventi oggettiva giustificazione.

Quanto all’art. 2697 c.c., l’affermazione secondo cui la dizione, dallo stesso utilizzata, "chi vuoi far valere un diritto in giudizio" implica che sia colui che prende l’iniziativa di introdurre il giudizio ad essere gravato dell’onere di "provare i fatti che ne costituiscono il fondamento" contrasta innanzitutto con la stessa lettera della disposizione, poiché l’attore in accertamento negativo non fa valere il diritto oggetto dell’accertamento giudiziale ma al contrario ne postula l’inesistenza, ed è invece il convenuto che virtualmente o concretamente fa valere tale diritto, essendo la parte controinteressata rispetto all’azione di accertamento negativo.

Una considerazione complessiva delle regole di distribuzione dell’onere della prova, di cui ai due commi dell’art. 2967 c.c. (che, come osservato in dottrina, può essere considerato specificazione del più generale principio secondo cui l’onere della prova deve gravare sulla parte che invoca le conseguenze per lei favorevoli previste dalla norma), inoltre, conferma che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all’interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo.

Pertanto, in materia di ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle azioni di accertamento negativo del credito i principi generali sull’onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa (conforme Cass. Civ. n. 19762/2008, Cass. Civ. n. 28516/2008, Cass. Civ. n. 23974/2010[6]).

In tale ottica, va inquadrata anche la prova del contratto di apertura di credito, il quale non necessita di alcuna forma scritta.

Infatti, solo con la promulgazione della legge sulla trasparenza bancaria e poi con l’entrata in vigore del T.U.B. è stata introdotta la regola della forma scritta per i contratti tra banca e cliente.

Tuttavia, il rigore della regola contenuta nel primo comma dell’art.117 T.U.B. è stato attenuato nel secondo comma attribuendo il potere al CICR di prevedere una forma diversa "per particolari contratti", quando sussistano "motivate ragioni tecniche" (art.117 comma 2 del T.U.B.).

Di questo potere ha fatto largo uso la Banca d’Italia nelle proprie Istruzioni applicative, ove ha espressamente escluso l’obbligo di forma scritta "per operazione e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto (ad esempio: conto corrente di corrispondenza)".

Questa prescrizione, che registra la natura di "contratto normativo" del conto corrente di corrispondenza, può riferirsi correttamente alle ipotesi di apertura di credito in conto corrente (cfr. in dottrina M. Porzio), in cui vi è una previsione del futuro contratto sufficientemente precisa.

Ora se per l’apertura di credito non vi è bisogno di un contratto scritto è estremamente difficile il solo ipotizzare che il c.d. extrafido, un evento eccezionale e ridotto sia temporalmente che per importi, possa avere una qualsiasi forma scritta.

Ne consegue che la problematica di un apertura di credito definita per facta concludentia e della prova di essa non è stata praticamente influenzata dalla nuova disciplina.

Tale considerazione è confortata anche dall’indagine conoscitiva sulle commissioni applicate dalle banche su affidamenti e scoperti di conto promossa dal Senato della Repubblica con l’audizione del 17 marzo 2010 del Capo del Servizio Normativa e Politiche di Vigilanza della Banca d’Italia Dott. Andrea Enria che ha affermato come: “Diverso è il caso in cui un cliente abbia improvvisa necessità di ottenere credito a valere su un conto corrente privo di fido: in tal caso l’utilizzo dei fondi (scoperto di conto) ha carattere eccezionale ed è soggetto alla discrezionalità della banca. Tale seconda forma di finanziamento è di norma molto più costosa rispetto alla prima, sia in termini di tasso d’interesse sia di commissioni applicate, poiché la banca eroga, in tempi molto ristretti, un servizio di finanziamento che non è accompagnato da una formale istruttoria”.

Tuttavia, la prova dello sconfinamento la fornisce la stessa banca nelle sue segnalazioni alla Centrale dei rischi: la Banca d’Italia nelle istruzioni relative alla CENTRALE DEI RISCHI relativamente alle ISTRUZIONI PER GLI INTERMEDIARI CREDITIZI Circolare n. 139 dell’ 11 febbraio 1991 e ss. Aggiornamenti – (4 marzo 2010) considera il c.d. “Sconfinamento: Differenza positiva tra l’utilizzato di una linea di credito e il relativo accordato operativo. Viene calcolata per ogni categoria di censimento e variabile di classificazione senza alcuna compensazione tra le segnalazioni di un singolo intermediario e quelle di più intermediari”. Sono obbligati a detta segnalazione TUTTI gli intermediari creditizi.

Stessa segnalazione obbligatoria è dovuta per le GARANZIE che, com’è noto, assistono solo le apercredito affidate.

La prova è anche data dalla lettura degli stessi estratti conto, i quali oltre a riportare nella quasi totalità dei casi i limiti del fido, se non altro, indicano un tasso per l’affidato ed un altro maggiore per il non affidato.

Ciò significa che, salvo prova contraria di cui è onerata la banca, tutti i versamenti effettuati dal correntista sono effettuati nell’ambito dell’affidamento e servono al solo scopo di ricostituire la provvista, non avendo alcuna valenza solutoria.

Sui versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto che non abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista e disapplicazione del creditore dei criteri di cui all’art. 1194 c.c.

La sentenza delle SSUU con il secondo principio di diritto impone una conseguenza inconfutabile: tutti i saldi (trimestrali e non) risultanti dagli estratti conto redatti dalle banche (relativi a rapporti di apercredito sorti anteriormente al 22 aprile 2000) sono errati, se non altro per contenere illegittimi interessi anatocistici[7].

Pertanto, il saldo da considerare per poi definire uno specifico versamento come solutorio o non solutorio non è quello rinvenibile dagli e/c bancari, ma è quello “ricalcolato”, ovvero il saldo depurato dalle competenze bancarie illegittimamente addebitate dalla banca, giorno per giorno, nel corso del rapporto.

Queste competenze, com’è noto, possono essere costituite da illegittimi interessi ultralegali (ad es. perché determinati secondo gli usi di piazza o in altro modo indeterminati ed indeterminabili), da illegittime valute fittizie, da illegittime commissioni sul massimo scoperto trimestrale, da illegittime spese forfettarie e certamente sulla negozialmente nulla capitalizzazione composta, trimestrale o annuale.

Ciò comporta che, a seguito della determinazione in CTU del saldo “ricalcolato” (adoperando i quesiti depurativi delle illegittime competenze bancarie normalmente utilizzati dalla Magistratura), saranno veramente eccezionali i versamenti del correntista che potranno andare a coprire lo scoperto eccedente i limiti dell’affidamento, avendo, a volte, valenza solutoria[8].

Nella quasi totalità dei casi, l’utente che ottiene un’apercredito con scoperto in conto non supera l’affidamento concesso dall’istituto di credito nel primo trimestre o in quelli immediatamente successivi, anche perché il c.d. ultrafido è una facilitazione concessa dalla banca per periodi limitatissimi e per importi assolutamente irrisori.

E’ notorio che, in sede di riclassificazione del conto corrente epurato dalle illegittime competenze bancarie, dopo i primi trimestri, i saldi debitori risultanti dagli e/c riducano, sensibilmente trimestre dopo trimestre, la debitoria fino a raggiungere saldi addirittura creditori.

La circostanza è talmente frequente che è stata rilevata da una nota sentenza della S.C.: “Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti … consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempreché la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti”. (cfr. Cassazione civile , sez. I, 01 marzo 2007, n. 4853).

Insomma, il conto “scoperto” (cioè il conto passivo extrafido) deve essere quello che supera la soglia dell’affidamento dopo che è stato depurato da anatocismo ed altre competenze illegittime derivanti da nullità originarie.

Meno immediata è la quantificazione di quale sia l’ammontare di tale rimesse destinate a rivestire funzione solutoria e la conseguente individuazione delle voci del conto corrente pagabili con tali versamenti.

Ci viene in aiuto, ad esempio, la sentenza n. 1994/10869 Cass. stabilendo che “nel contratto di apertura di credito regolata in conto corrente, le singole rimesse effettuate sul conto dell’imprenditore poi fallito, nel periodo sospetto di cui all’art.67, comma 2, L.F., quando il conto sia scoperto, sono revocabili per la parte relativa alla differenza fra lo scoperto ed il limite del fido, atteso che lo scoperto costituisce per la banca un credito esigibile e che la rimessa, non creando nuova disponibilità per il cliente, ha carattere solutorio”.

Ma le finalità della revocatoria fallimentare sono ben differenti da quelle della ripetizione dell’indebito nel contratto di conto corrente e vanno fatte delle fondamentali precisazioni.

Per essere più precisi, la Giurisprudenza, dopo un momento di incertezza, ha escluso che nel conto corrente bancario possa applicarsi il principio generale di cui all’articolo 1194 c.c. in quanto è lo stesso creditore ad applicare nel corso dell’intero rapporto altro principio.

Quindi l’ammontare del pagamento (avente natura solutoria) non potrà mai eccedere la differenza tra il saldo del conto corrente e l’affidamento concesso. L’individuazione delle rimesse (aventi natura solutoria) può avvenire unicamente in itinere di ricalcolo e non ex ante, per via dell’andamento mutevole del saldo di conto corrente.

La ragione di tale disposizione risiede nel fatto che qualora il pagamento fosse imputato prima al capitale e poi agli interessi, il creditore subirebbe un danno: “Diminuendo infatti l’entità del capitale dovuto, diminuirebbe autonomamente la capacità di quest’ultimo a produrre interessi, in quanto rapidamente decrescerebbe uno dei coefficienti mediante cui viene qualificato l’oggetto dell’obbligazione di interessi” (O.T. SCOZZAFAVA, Gli interessi dei capitali, p. 160).

Nel conto corrente bancario, come è a tutti noto, è solo ed esclusivamente l’istituto di credito che provvede alle registrazioni contabili del rapporto, cioè è la banca (il creditore) che decide, in piena autonomia, l’imputazione al momento del versamento effettuato dal correntista.

La banca al momento del versamento imputa le somme al capitale e non agli interessi e spese.

Infatti la banca, alla fine di ogni trimestre, si limita a riunire gli interessi ed altri oneri in una voce che qualifica come capitale trascrivendola in un’appostazione contabile del trimestre successivo: nulla di più.

Come insegna la Suprema Corte sulle disposizioni del Codice Civile in materia di imputazione dei pagamento, per il loro carattere suppletivo, prevale la volontà delle parti, desumibile anche da presunzioni, che, tuttavia, va verificata con riferimento all’epoca del singolo pagamento.

Abitualmente la banca liquida le competenze con l’indicazione nel riassunto scalare dei diversi numeri creditori e debitori e sulla cui base calcola gli interessi, senza attuare poi alcuna distinzione al momento dell’imputazione.

Anzi, la banca ha applicato anche per tali interessi la lucrosa capitalizzazione periodica, manifestando, in modo inequivoco, la volontà di rinunziare all’applicazione del criterio legale di imputazione: ne consegue che gli effetti di tale rinunzia sono irreversibili una volta avvenuto il pagamento.

In poche parole, è la stessa banca che disapplica autonomamente l’art. 1194 c.c. e non può certo il giudice (terzo e giusto) soccorrere con le sentenze le decisioni contrattuali del contraente forte nel rapporto di apercredito con scoperto in c/c, che dispotizza sull’utente contraente debole, da anni fagocitato dalle decisioni vessatorie, autonome ed arbitrarie del sistema bancario.

La tenuta del conto corrente è effettuata dalla banca che imputa (autonomamente) tutti i pagamenti a capitale, ovvero è la banca che manifesta la volontà di imputare le rimesse al capitale, in quanto è essa stessa a redigere l’estratto conto: chi non si pronuncia è solo il cliente (contraente debole), che subisce il rapporto bancario come sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare.

Anche nel caso di un conto corrente allo "scoperto", per applicare l’art. 1194 c.c., occorrerebbe che la banca avesse invocato l’imputazione dell’importo relativo ai versamenti prima agli interessi e poi al capitale: sarebbe altresì necessario che la banca, in corrispondenza di un accredito su di un conto che abbia sconfinato, incameri la somma versata imputandola espressamente prima agli interessi e poi al capitale.

Al contrario, la banca, registra gli accrediti senza attuare distinzione alcuna, limitandosi a riunire gli interessi e oneri vari in un’unica voce che qualifica come capitale, trascrivendola in un’appostazione contabile del trimestre successivo con l’applicazione per tali interessi e competenze, della lucrosa capitalizzazione periodica, manifestano inoltre la volontà di rinunziare all’applicazione del criterio legale di imputazione (anche di quelli di cui all’ art. 1194 c.c.): gli effetti di tale rinunzia sono irreversibili, come già si è detto, una volta avvenuto il pagamento.

Pertanto, i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto che non abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista non vanno imputati prima agli interessi ed alle spese e poi al capitale (come disposto dall’art. 1194 c.c. in difetto di una volontà del creditore), ma si deve continuare ad agire come la banca ha agito durante l’intero rapporto: la banca al momento del versamento imputa le somme al capitale e non agli interessi e spese.

Sui nuovi quesiti adottabili

Al termine del presente lavoro, riteniamo che ai consueti quesiti che i vari giudici hanno deciso di adottare al filone del contenzioso della ripetizione delle indebite competenze bancarie, andrà aggiunto il seguente:

Accerti il CTU sulla base dei risultati raggiunti nei quesiti precedenti (quindi, tenendo conto dei saldi ricalcolati depurati dalle illegittime competenze bancarie e non degli erronei saldi evidenziati nei vari conti correnti bancari) se nel corso del rapporto si siano verificati dei versamenti che abbiano superato il limite dell’affidamento (contrattuale o comunque desumibile a mezzo dell’analisi dei tassi e/o numeri debitori entro e/o fuori fido annotati negli e/c bancari o negli scalari, o rilevabile dall’analisi delle categorie comunicate alla Centrale dei rischi, o dai contratti di fideiussione, ecc.). Nell’ipotesi in cui si sia verificato detto superamento il CTU consideri “pagate” con i successivi versamenti del correntista le competenze legittime in esubero dell’affidamento e, quindi, prescritte dopo il decorso decennale dalla data in cui è stata effettuata l’operazione.

Assolutamente distorti sarebbero i risultati a cui si perverrebbe considerando come validi i saldi passivi evidenziati negli e/c bancari: solo il saldo ricalcolato mediante l’epurazione delle illegittime competenze bancarie evidenzia un saldo reale (l’effettivo dare-avere) rispetto al quale va rapportato un successivo versamento per poterlo considerare alla stregua di un pagamento, tale da poter formare oggetto di ripetizione (ove risulti indebito), in quanto abbia avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca.

Questo accadrà qualora si tratti di versamenti solutori (e ripetiamo che non tutti i versamenti sono solutori) eseguiti su un conto "scoperto" ricalcolato i cui versamenti sono destinati a coprire il passivo eccedente i limiti dell’affidamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo ricalcolato superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.

[Sullo stesso argomento: Effetti sulle "nuove" consulenze tecniche



[1] Cassazione Civile, Sez. I, n° 10692 del 10 maggio 2007; Cassazione Civile, Sez. I, 14 maggio 2005 n. 10127; Cassazione civile, sez. I, 23 marzo 2004, n. 5720; Cassazione, Sez. I, 03 maggio 1999, n. 4389; Cassazione civile, sez. I, 14 aprile 1998, n. 3783; Cassazione civile, sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262

[2] Solo nel 2010, il sito www.studiotanza.it ha registrato le seguenti pronunzie: Tribunale di Torino, Dott. Paola FERRERO - Sent. n. 73/10 dell’8 gennaio 2010; Tribunale di BRESCIA, Dott. Lucia Cannella, Sent. n. 124 del 18 gennaio 2010; Tribunale di Torino, Dott. Maurizia Giusta - Sent. n. 450 del 21gennaio 2010; Tribunale di Lanciano, Dott. De Nisco Paola, Sent. n. 64 del 3 febbraio 2010; Tribunale di Catania, Azzia, Ordinanza ex art. 186 quater cpc; Tribunale di Lecce, Dott. Virginia Zuppetta, Sent. 334 del 03 febbraio 2010; Tribunale di Livorno, Dott. Roberto URGESE, Sent. 254 del 2 marzo 2010; Tribunale di Roma, Dott. Laura AVVISATI, Sent. 3931 del 20 febbraio 2010; Tribunale di Palmi, Dott. A. Pastore, Sent. 134 del 12 marzo 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Maria Carmela Tinelli, Sent. 761 del 31 marzo 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Lucia DE MATTEIS, Sentenza n. 80 del 23 aprile 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Giovanni TEDESCO, Sent. 5221 del 6 maggio 2010; CORTE D’APPELLO DI TORINO, Cons. Dott. Angelo CONVERSO, Sent. 5221 del 4 maggio 2010; Tribunale di Tivoli, Dott. Scarafoni, Sent. Parz. 724 del 4 maggio 2010; Tribunale di NOVARA, Dott. Angela Maria NUTINI, Sent. Parz. del 27 aprile 2010; Tribunale di Novara, Dott. Simona GAMBACORTA, Sent. Parz. del 18 maggio 2010; Tribunale di Verbania, Dott. Massimo TERZI, Sent. n. 378/2010 del 23 maggio 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Livia TRAPANI, Sent. 5282 del 10 maggio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni Tommasi, Sentenza n. 1290 del 03 giugno 2010; Tribunale di Roma, Sentenza n. 9871 del 04 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Gabriella NOCERA, Sentenza n. 120 del 10 giugno 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Grazia ERREDE, Sentenza n. 1116 del 17 maggio 2010; Tribunale di Cassino, Dott. Gabriele SORDI, Sentenza n. 437 del 14 giugno 2010; Tribunale di Teramo, Dott. Carmine DI FULVIO, Sentenza n. 557 del 12 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Maglie, Dott. Angelo RIZZO, Sent. 246 del 12 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Luca MINNITI, Sent. n. 2336 del 13 luglio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Casarano, dott. carlo ERRICO, Sent. n. 168 del 23 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Fiorenzo ZAZZERI, Sent. n. 2573 del 30 luglio 2010; Tribunale di Este, dott. Giuliana GIROTTO, Sent. n. 240 del 2 agosto 2010; Tribunale di Tricase, dott. Alida ACCOGLI, Sent. n. 111 del 7 agosto 2010; Corte d’Appello di Lecce, Cons. Dott. Marcello DELL’ANNA, Sent. n. 414 del 10 luglio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Michela DE LECCE, Sentenza n. 1166 del 16 agosto 2010; Trib. di Lucca, Dott. Antonio MONDINI, Sent. n. 1104 del 21 settembre 2010; Trib. di Casarano, dott. Cosimo CALVI, Sent. n. 123 del 9 giugno 2010;Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Bagheria, Dott. Elisabetta LA FRANCA, Sent. n. 124 del 20 settembre 2010; Tribunale di Paola, Sez. distaccata di Scalea, Dott. Nicoletta CAMPANARO, Sent. n. 245 del 2 agosto 2010; Tribunale di Torino, Dott. Tamagnone, Sent. n. 6113 del 18 ottobre 2010; Tribunale di Foggia, Dott. Maria TUCCILLO, Sent. n. 1565 del 20 ottobre 2010; Tribunale di Napoli, Sez. dist. di Capri, Dott. Antonio QUARANTA, Sent. n. 106 del 5 novembre 2010;

[3] Il giudizio, promosso con atto di citazione notificato in data 19.12.2005, è soggetto al regime processuale di cui alla legge n.353/1990 e succ. mod. e, quindi, ad esso si applica l’art.167 c.p.c. nella formulazione precedente la riforma di cui alla legge n.80/2005, entrata in vigore il 1.3.2006, che ha inserito le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio tra le attività che, a pena di decadenza, devono essere svolte dal convenuto con comparsa di costituzione e risposta da depositare almeno venti giorni prima dell’udienza o dieci in caso di abbreviazione dei termini. Nel regime processuale antecedente la riforma del 2005, il termine per le eccezioni processuali e di merito è quello assegnato dal giudice ai sensi del II comma dell’art.180 c.p.c. - non inferiore a venti giorni prima dell’udienza di trattazione ex art.183 c.p.c.. Poiché nel caso in esame l’eccezione di prescrizione è stata proposta al momento della costituzione della convenuta all’udienza ex art.180 I comma c.p.c. è evidente che nessuna decadenza è maturata al riguardo. In tema di azione per la ripetizione di somme indebitamente trattenute dalla banca si applica il termine decennale di cui all’art. 2946 c.c. e sul tema della decorrenza del termine è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la recente sentenza n.24418/20101, che ha statuito che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicchè è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro. Non è decorso il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione afferente il conto 4371; detto rapporto, sul quale, come da c.t.u., si sono riversati gli interessi passivi del rapporto collaterale n.617047 (per utilizzo effetti salvo buon fine), è cessato al 24.11.1998 di talchè, alla data di proposizione della domanda, non si è compiuto il termine decennale. Tribunale di BRESCIA, Dott. Elda GERACI, Sentenza n. 189 del 24 gennaio 2011;

[4] Non tutti i versamenti fuori fido possono essere considerati solutori: ad esempio un girofondi da conto collegato è non solutorio in quanto il fido è accordato sull’altro conto.

[5] Cfr. Cass. 2009/16326; Cass.2004/3578.

[6] Giova preliminarmente segnalare, in materia di ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle azioni di accertamento negativo del credito, qual è quella in oggetto, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. Sez. IV, n. 28516/2008), ai cui principi il Collegio ritiene di aderire, la quale – per quel che qui interessa – ha chiarito che nelle azioni di accertamento negativo i principi generali sull’onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa (conforme Cass. Civ. n. 1391/1985). Statuisce, inoltre, che le regole di distribuzione dell’onere della prova confermano che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all’interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo. (Appello L’Aquila, Cons. E. Buzzelli, n. 615 del 09 settembre 2010).

[7] Ordinanza del 10 gennaio 2011 nella causa R.G. 293/07. Il Giudice, premesso che all’udienza del 12.7.2010, fissata per la precisazione delle conclusioni, tratteneva in decisione il procedimento emarginato in epigrafe, assegnando alle parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per lo scambio delle comparse conclusionali e delle repliche; rilevato che, a seguito della recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, del 23 novembre - 2 dicembre 2010 n. 24438, dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi in una apertura di credito in conto corrente, per il contrasto il divieto di anatocismo sancito dall’art. 1283 c.c., gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna, perché il medesimo articolo 1283 osta anche ad una eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale e perché nemmeno potrebbe .essere ipotizzato come esistente un uso, anche non normativo, di capitalizzazione con quella cadenza; che, nella specie, l’espletata c.t.u. ha utilizzato, per determinare gli interessi a debito correntista, esclusivamente il metodo della capitalizzazione annuale; che, inoltre, con riferimento alla pattuizione degli interessi con rinvio "agli usi piazza", necessario, per il periodo antecedente all’entrata in vigore della legge n. 154/1992, opera il conteggio di detti interessi al tasso legale, mentre, per il periodo successivo alla l. 154/195 secondo il criterio di cui all’art. 5 l. 154/1992; che, pertanto, si impone la remissione della causa in istruttoria, al fine di procedere alla rinnovazione delle indagini peritali nei termini sopra esposti. P.Q.M. rimette la causa in istruttoria, disponendo la rinnovazione della c.t.u. per i motivi di cui premessa; conferma la nomina del Dr. A. A. quale C.T.U.; rinvia per il conferimento dell’incarico all’udienza del 14.2.2011 ore 12,00. Si comunichi anche al C.T.U. Il Giudice Dr. Antonio Picardi TRIBUNALE DI AREZZO - SEZ. DISTACCATA Dl SANSEPOLCRO.

[8] Il Dott. Commercialista Fabio Massimo BLASI, consulente econometrico ADUSBEF, ha analizzato un centinaio di casi giungendo alle seguenti conclusioni: “ad esempio l’andamento tipico di un conto corrente affidato per 100, consideriamo un saldo iniziale 0 al tempo t0 mentre in t2 avremo il primo versamento fuori affidamento. Ne consegue che in corrispondenza di t1 (compreso tra t0 e t2) è individuato il saldo immediatamente precedente al versamento fuori affidamento. Per cui, nell’intervallo tra t0 e t1, il conto rimane costantemente entro i limiti del fido e, per effetto del ricalcolo, nell’arco di tempo compreso tra t0 e t1, tutte le competenze illegittime sono state eliminate. Poniamo il caso che t1 corrisponda ad un saldo fuori fido per 101: richiamando il principio sopra enunciato dalla Cassazione secondo cui l’ammontare della rimessa (avente natura solutoria) non potrà mai eccedere la differenza tra il saldo del conto corrente e l’affidamento concesso, quantifichiamo con 1 il limite massimo avente tale natura solutoria. Infatti, considerando al tempo t2 un versamento di 5, il quale costituisce il primo pagamento effettuato fuori dai limiti del fido (ricordiamo che per il periodo precedente a t1 il correntista è rimasto costantemente sotto il fido), avremo che in t2 quell’ 1 rappresenta il limite massimo del pagamento solutorio, mentre i restanti 4 andranno a ripristinare la disponibilità del conto. Resta in ultima analisi da chiarire la problematica di quali voci si andranno a pagare con le rimesse individuate come sopra descritto. L’ammontare pari a 1 coprirà il pagamento delle competenze che sono maturate (esclusivamente extrafido) nell’intervallo di tempo compreso tra t1 e t2. Continuando ad applicare la regola del limite sopra richiamata e considerando il periodo successivo compreso tra t2 e t4 (in cui in t4 si ha il successivo versamento extrafido ed in t3 il saldo immediatamente precedente al versamento fuori affidamento), avremo che in t4 saranno pagate le ulteriori competenze maturate oltre il limite dell’affidamento. Così operando, mediante versamenti individuati come solutori, si pagano di fatto le competenze maturate oltre gli affidamenti concessi, sino ad arrivare alla chiusura del rapporto. Solo a questo punto sarà quindi possibile aggiungere al saldo così ricalcolato, già comprensivo delle competenze extrafido pagate con versamenti solutori, anche le competenze (entro fido) ricalcolate in corso di rapporto.

Andamento di un rapporto di conto corrente ricalcolato senza tener conto dei pagamenti solutori:

Andamento dello stesso conto corrente considerando solutori i pagamenti exrafido:

Risulta evidente che il risultato finale tra l’andamento di un normale rapporto di conto corrente ricalcolato senza tener conto dei pagamenti solutori e quello dello stesso conto corrente considerando solutori i pagamenti extrafido è pressoché uguale: infatti i grafici sono quasi simili. (l’articolo è pubblicato sul sito della Vicepresidenza Adusbef www.studiotanza.it)

Introduzione.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, nell’esercizio della loro funzione nomofilattica, hanno definitivamente stabilito con la sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010 i seguenti principi di diritto in materia di dies a quo del decorso della prescrizione decennale nei rapporti di apercredito utilizzati con scoperto di c/c bancario:

"Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati".

e sull’applicazione dell’anatocismo annuale:

"L’interpretazione data dal Giudice di merito all’art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce solo ad interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito previsto dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali di interpretazione del contratto, ed in particolare, a quello che prescrive l’interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna."

Detta pronuncia se da un lato ha consolidato l’indirizzo, perseguito dalla totalità della Giurisprudenza di legittimità [1] e dalla massima parte di quella di merito [2], di far decorrere il dies a quo della prescrizione decennale nei rapporti di conto corrente bancario dalla chiusura del conto; dall’altro ha cancellato l’indirizzo di quella giurisprudenza di merito che soleva sostituire l’illegittima capitalizzazione trimestrale applicata da tutte le banche nei conti passivi con l’altrettanto illegittima capitalizzazione annuale. Infine ha confermato la legittimità della capitalizzazione annuale nei conti creditori per il correntista.

Ciò posto, non resta che analizzare il prevedibile impatto della prescrizione limitatamente a quella parte dei versamenti effettuati dall’utente che non hanno funzione ripristinatoria della provvista.

Sul contenuto e termine dell’eccezione di prescrizione

La prescrizione dei singoli versamenti che non hanno funzione ripristinatoria della provvista va sollevata ed evidenziata dalla banca, dal 1° marzo 2006, ovvero dall’entrata in vigore della legge n. 80 del 2005, nei termini imposti dall’art. 167 c.p.c., con allegazione e tipizzazione della fattispecie.

Per il periodo precedente, la legge n. 353 del 1990 aveva inserito le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio tra le attività che, a pena di decadenza, dovevano essere svolte dal convenuto con comparsa di costituzione e risposta da depositare almeno venti giorni prima dell’udienza o dieci in caso di abbreviazione dei termini[3].

In difetto di tempestiva proposizione la giurisprudenza ha statuito che:

L’eccezione di prescrizione sollevata dalla convenuta è inammissibile essendosi questa costituita soltanto alla prima udienza, incorrendo in tal modo nella decadenza di cui all’art. 167 cpc (ed nuovo rito). (cfr da ultimo Tribunale di Sondrio, Sez. Morbegno, Dott. Francesco SORA, Sent. n. 64 del 27 giugno 2009).

Tuttavia vanno fatte alcune precisazioni anche relative al contenuto di detta eccezione che deve essere specifica e puntuale.

La possibilità per la parte di sollevare l’eccezione implica che ad essa sia fatto onere di allegare l’elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto: in particolare, in caso di pluralità di atti esecutivi (come sono i differenti i vari versamenti extrafido effettuati dal correntista nel corso del rapporto di apercredito con scoperto in conto corrente) è necessario che l’elemento costitutivo sia specificato, dovendo il convenuto precisare il momento iniziale dell’inerzia in relazione a ciascuno di essi (Cass. 2004/4668).

È, dunque, onere della banca eccepire l’intervenuta prescrizione non in forma generica (ad esempio di tutte le operazioni effettuate a decorrere dal momento in cui vengono eseguite, come ha fatto sistematicamente fino al 2 dicembre 2010) ma specificatamente, cioè indicando che la prescrizione debba colpire le operazioni di versamento che non hanno funzione ripristinatoria della provvista, precisando il momento iniziale dell’inerzia del correntista in relazione a ciascun versamento extrafido con funzione solutoria (non tutti i versamenti extrafido possono avere funzione solutoria[4]); mentre è compito del giudice accertare quale sia il tipo e la durata della prescrizione stessa e se essa sia decorsa, ma non si potrà sostituire alla difesa della parte specificandone l’elemento costitutivo e demandando detta individuazione al consulente tecnico d’ufficio.

L’eccezione di prescrizione, in quanto eccezione in senso stretto, deve fondarsi su fatti allegati dalla banca, quand’anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice.

Se nulla la banca ha specificatamente osservato circa la natura solutoria dei versamenti effettuati dal correntista durante il rapporto, né ha individuato o allegato detti versamenti e gli effetti che hanno avuto nel saldo finale, allora la genericità dell’eccezione non rende comprensibile ed individuabile l’eccezione stessa che non può che essere dichiarata inammissibile.

Ne consegue che la banca, ove eccepisca la prescrizione del credito, ha l’onere di allegare (producendo contratto di affidamento, estratti conto con evidenziati versamenti solutori) e provare il fatto che, permettendo l’esercizio del diritto, determina l’inizio della decorrenza del termine ai sensi dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto diverso, conosciuto attraverso un documento prodotto ad altri fini (ad esempio gli estratti conto prodotti dal correntista per la ripetizione dell’indebito) da diversa parte in causa[5].

Le difese degli istituti di credito nelle memorie difensive anteriori al 2 dicembre 2010 non hanno dedotto alcuna eccezione specifica in tal senso e non ha prodotto nulla, sia nella memoria di costituzione, con le sue preclusioni di cui all’art. 167 cpc, ma neppure nella prima successiva memoria ex art. 183 cpc.

D’altra parte l’elemento costitutivo dell’eccezione di prescrizione è la manifestazione in modo non equivoco della volontà della parte di far valere l’estinzione, a causa del decorso del tempo, del credito o dei crediti nei suoi confronti azionati; conseguentemente, mentre rileva la precisazione della parte circa i crediti o le loro parti effettivamente investiti dall’eccezione, il riferimento al termine – quinquennale, decennale, ecc. – ha il valore di mera prospettazione di una tesi giuridica, che non vincola il giudice circa l’individuazione del tipo di prescrizione (Cass. 2000/9825).

La generica proposizione dell’eccezione di prescrizione da parte dell’interessato non autorizza l’individuazione da parte del giudice del tipo concretamente applicabile, atteso che, da un canto, la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, dall’altro, il suo carattere dispositivo comporta, per la parte che la propone, l’onere di tipizzarla (cfr. Cass. 1993/4130), sicché, in mancanza delle specifiche indicazioni di fatto necessarie per rendere comprensibile ed individuabile l’eccezione, l’eccezione medesima non può che essere dichiarata inammissibile (cfr. Cass. 1999/3798; v. anche Cass. 2005/6519; Cass. 1999/850).

L’eccezione di prescrizione, oltre a non essere rilevabile d’ufficio, deve essere dedotta, a pena di inammissibilità, in modo specifico e tipizzato, non potendo il giudice applicare un tipo di prescrizione diverso da quello richiesto, ciò comportando la violazione sia del principio dispositivo dell’eccezione di prescrizione, sia del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (cfr. Cass. S.U. 1989/1607).

Allo stato la Giurisprudenza del 2011 appare aver recepito detto pacifico principio emettendo sentenze che tengono presente la nullità della capitalizzazione annuale dell’interesse debitore del correntista, ma non ammettono alcun quesito sollecitato dal ceto bancario per l’espunzione degli eventuali i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto che non abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista: cfr. Ordinanza del Tribunale di Arezzo, Dott. Antonio PICARDI, 10 gennaio 2011 nella causa R.G. 293/07; Tribunale di BRESCIA, Dott. Elda GERACI, Sentenza n. 189 del 24 gennaio 2011; Ordinanza del Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni TOMMASI, nella causa R.G. 320/2005.

Sull’onere della prova nei giudizi di accertamento negativo del credito

E’ indiscusso che l’azione promossa dagli esponenti deve qualificarsi come tipico giudizio di accertamento: accertamento, nel caso, della nullità delle clausole del contratto di apertura di credito stipulato dalle parti, attinenti la determinazione degli interessi ultralegali, il criterio di calcolo dall’interesse anatocistico, l’applicazione della provvigione di massimo scoperto e delle altre somme richieste in restituzione.

Relativamente all’onere della prova nelle azioni di accertamento negativo una parte della Giurisprudenza sostiene la tesi secondo cui lo stesso grava sempre e, comunque, sul soggetto che agisce in giudizio: detto orientamento giurisprudenziale si collega a vetuste opinioni autorevolmente sostenute in sede dottrinale già nella vigenza del codice di procedura civile del 1865, sul presupposto del rilievo preminente svolto in materia di onere della prova dalla posizione processuale delle parti e della esistenza di un onere più ampio, c.d. primario, a carico dell’attore.

Si è anche sostenuto che l’attribuzione in ogni caso dell’onere della prova all’attore in accertamento negativo costituisca una sorta di necessario contrappeso alla ritenuta ammissibilità delle azioni di accertamento, la cui proposizione altrimenti potrebbe mettere in difficoltà la difesa del convenuto (o comunque vessarlo).

In senso contrario si è pronunciata un’illuminata sentenza (Cass. n. 1391/1985), sulla base della esplicita affermazione che i principi generali sull’onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore, con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa.

Detto orientamento, come suggerito da analisi puntuali di trattazioni dottrinali più recenti, è preferibile al precedente che non risulta conforme alle regola fondamentale sulla distribuzione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., aggrava ingiustificatamente la posizione di soggetti indotti o praticamente costretti a promuovere un’azione di accertamento negativo dalle circostanze e specificamente da iniziative stragiudiziali o giudiziali della controparte e, inoltre, non è effettivamente giustificato dalla finalità di prevenire azioni di accertamento non aventi oggettiva giustificazione.

Quanto all’art. 2697 c.c., l’affermazione secondo cui la dizione, dallo stesso utilizzata, "chi vuoi far valere un diritto in giudizio" implica che sia colui che prende l’iniziativa di introdurre il giudizio ad essere gravato dell’onere di "provare i fatti che ne costituiscono il fondamento" contrasta innanzitutto con la stessa lettera della disposizione, poiché l’attore in accertamento negativo non fa valere il diritto oggetto dell’accertamento giudiziale ma al contrario ne postula l’inesistenza, ed è invece il convenuto che virtualmente o concretamente fa valere tale diritto, essendo la parte controinteressata rispetto all’azione di accertamento negativo.

Una considerazione complessiva delle regole di distribuzione dell’onere della prova, di cui ai due commi dell’art. 2967 c.c. (che, come osservato in dottrina, può essere considerato specificazione del più generale principio secondo cui l’onere della prova deve gravare sulla parte che invoca le conseguenze per lei favorevoli previste dalla norma), inoltre, conferma che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all’interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo.

Pertanto, in materia di ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle azioni di accertamento negativo del credito i principi generali sull’onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa (conforme Cass. Civ. n. 19762/2008, Cass. Civ. n. 28516/2008, Cass. Civ. n. 23974/2010[6]).

In tale ottica, va inquadrata anche la prova del contratto di apertura di credito, il quale non necessita di alcuna forma scritta.

Infatti, solo con la promulgazione della legge sulla trasparenza bancaria e poi con l’entrata in vigore del T.U.B. è stata introdotta la regola della forma scritta per i contratti tra banca e cliente.

Tuttavia, il rigore della regola contenuta nel primo comma dell’art.117 T.U.B. è stato attenuato nel secondo comma attribuendo il potere al CICR di prevedere una forma diversa "per particolari contratti", quando sussistano "motivate ragioni tecniche" (art.117 comma 2 del T.U.B.).

Di questo potere ha fatto largo uso la Banca d’Italia nelle proprie Istruzioni applicative, ove ha espressamente escluso l’obbligo di forma scritta "per operazione e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto (ad esempio: conto corrente di corrispondenza)".

Questa prescrizione, che registra la natura di "contratto normativo" del conto corrente di corrispondenza, può riferirsi correttamente alle ipotesi di apertura di credito in conto corrente (cfr. in dottrina M. Porzio), in cui vi è una previsione del futuro contratto sufficientemente precisa.

Ora se per l’apertura di credito non vi è bisogno di un contratto scritto è estremamente difficile il solo ipotizzare che il c.d. extrafido, un evento eccezionale e ridotto sia temporalmente che per importi, possa avere una qualsiasi forma scritta.

Ne consegue che la problematica di un apertura di credito definita per facta concludentia e della prova di essa non è stata praticamente influenzata dalla nuova disciplina.

Tale considerazione è confortata anche dall’indagine conoscitiva sulle commissioni applicate dalle banche su affidamenti e scoperti di conto promossa dal Senato della Repubblica con l’audizione del 17 marzo 2010 del Capo del Servizio Normativa e Politiche di Vigilanza della Banca d’Italia Dott. Andrea Enria che ha affermato come: “Diverso è il caso in cui un cliente abbia improvvisa necessità di ottenere credito a valere su un conto corrente privo di fido: in tal caso l’utilizzo dei fondi (scoperto di conto) ha carattere eccezionale ed è soggetto alla discrezionalità della banca. Tale seconda forma di finanziamento è di norma molto più costosa rispetto alla prima, sia in termini di tasso d’interesse sia di commissioni applicate, poiché la banca eroga, in tempi molto ristretti, un servizio di finanziamento che non è accompagnato da una formale istruttoria”.

Tuttavia, la prova dello sconfinamento la fornisce la stessa banca nelle sue segnalazioni alla Centrale dei rischi: la Banca d’Italia nelle istruzioni relative alla CENTRALE DEI RISCHI relativamente alle ISTRUZIONI PER GLI INTERMEDIARI CREDITIZI Circolare n. 139 dell’ 11 febbraio 1991 e ss. Aggiornamenti – (4 marzo 2010) considera il c.d. “Sconfinamento: Differenza positiva tra l’utilizzato di una linea di credito e il relativo accordato operativo. Viene calcolata per ogni categoria di censimento e variabile di classificazione senza alcuna compensazione tra le segnalazioni di un singolo intermediario e quelle di più intermediari”. Sono obbligati a detta segnalazione TUTTI gli intermediari creditizi.

Stessa segnalazione obbligatoria è dovuta per le GARANZIE che, com’è noto, assistono solo le apercredito affidate.

La prova è anche data dalla lettura degli stessi estratti conto, i quali oltre a riportare nella quasi totalità dei casi i limiti del fido, se non altro, indicano un tasso per l’affidato ed un altro maggiore per il non affidato.

Ciò significa che, salvo prova contraria di cui è onerata la banca, tutti i versamenti effettuati dal correntista sono effettuati nell’ambito dell’affidamento e servono al solo scopo di ricostituire la provvista, non avendo alcuna valenza solutoria.

Sui versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto che non abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista e disapplicazione del creditore dei criteri di cui all’art. 1194 c.c.

La sentenza delle SSUU con il secondo principio di diritto impone una conseguenza inconfutabile: tutti i saldi (trimestrali e non) risultanti dagli estratti conto redatti dalle banche (relativi a rapporti di apercredito sorti anteriormente al 22 aprile 2000) sono errati, se non altro per contenere illegittimi interessi anatocistici[7].

Pertanto, il saldo da considerare per poi definire uno specifico versamento come solutorio o non solutorio non è quello rinvenibile dagli e/c bancari, ma è quello “ricalcolato”, ovvero il saldo depurato dalle competenze bancarie illegittimamente addebitate dalla banca, giorno per giorno, nel corso del rapporto.

Queste competenze, com’è noto, possono essere costituite da illegittimi interessi ultralegali (ad es. perché determinati secondo gli usi di piazza o in altro modo indeterminati ed indeterminabili), da illegittime valute fittizie, da illegittime commissioni sul massimo scoperto trimestrale, da illegittime spese forfettarie e certamente sulla negozialmente nulla capitalizzazione composta, trimestrale o annuale.

Ciò comporta che, a seguito della determinazione in CTU del saldo “ricalcolato” (adoperando i quesiti depurativi delle illegittime competenze bancarie normalmente utilizzati dalla Magistratura), saranno veramente eccezionali i versamenti del correntista che potranno andare a coprire lo scoperto eccedente i limiti dell’affidamento, avendo, a volte, valenza solutoria[8].

Nella quasi totalità dei casi, l’utente che ottiene un’apercredito con scoperto in conto non supera l’affidamento concesso dall’istituto di credito nel primo trimestre o in quelli immediatamente successivi, anche perché il c.d. ultrafido è una facilitazione concessa dalla banca per periodi limitatissimi e per importi assolutamente irrisori.

E’ notorio che, in sede di riclassificazione del conto corrente epurato dalle illegittime competenze bancarie, dopo i primi trimestri, i saldi debitori risultanti dagli e/c riducano, sensibilmente trimestre dopo trimestre, la debitoria fino a raggiungere saldi addirittura creditori.

La circostanza è talmente frequente che è stata rilevata da una nota sentenza della S.C.: “Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti … consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempreché la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti”. (cfr. Cassazione civile , sez. I, 01 marzo 2007, n. 4853).

Insomma, il conto “scoperto” (cioè il conto passivo extrafido) deve essere quello che supera la soglia dell’affidamento dopo che è stato depurato da anatocismo ed altre competenze illegittime derivanti da nullità originarie.

Meno immediata è la quantificazione di quale sia l’ammontare di tale rimesse destinate a rivestire funzione solutoria e la conseguente individuazione delle voci del conto corrente pagabili con tali versamenti.

Ci viene in aiuto, ad esempio, la sentenza n. 1994/10869 Cass. stabilendo che “nel contratto di apertura di credito regolata in conto corrente, le singole rimesse effettuate sul conto dell’imprenditore poi fallito, nel periodo sospetto di cui all’art.67, comma 2, L.F., quando il conto sia scoperto, sono revocabili per la parte relativa alla differenza fra lo scoperto ed il limite del fido, atteso che lo scoperto costituisce per la banca un credito esigibile e che la rimessa, non creando nuova disponibilità per il cliente, ha carattere solutorio”.

Ma le finalità della revocatoria fallimentare sono ben differenti da quelle della ripetizione dell’indebito nel contratto di conto corrente e vanno fatte delle fondamentali precisazioni.

Per essere più precisi, la Giurisprudenza, dopo un momento di incertezza, ha escluso che nel conto corrente bancario possa applicarsi il principio generale di cui all’articolo 1194 c.c. in quanto è lo stesso creditore ad applicare nel corso dell’intero rapporto altro principio.

Quindi l’ammontare del pagamento (avente natura solutoria) non potrà mai eccedere la differenza tra il saldo del conto corrente e l’affidamento concesso. L’individuazione delle rimesse (aventi natura solutoria) può avvenire unicamente in itinere di ricalcolo e non ex ante, per via dell’andamento mutevole del saldo di conto corrente.

La ragione di tale disposizione risiede nel fatto che qualora il pagamento fosse imputato prima al capitale e poi agli interessi, il creditore subirebbe un danno: “Diminuendo infatti l’entità del capitale dovuto, diminuirebbe autonomamente la capacità di quest’ultimo a produrre interessi, in quanto rapidamente decrescerebbe uno dei coefficienti mediante cui viene qualificato l’oggetto dell’obbligazione di interessi” (O.T. SCOZZAFAVA, Gli interessi dei capitali, p. 160).

Nel conto corrente bancario, come è a tutti noto, è solo ed esclusivamente l’istituto di credito che provvede alle registrazioni contabili del rapporto, cioè è la banca (il creditore) che decide, in piena autonomia, l’imputazione al momento del versamento effettuato dal correntista.

La banca al momento del versamento imputa le somme al capitale e non agli interessi e spese.

Infatti la banca, alla fine di ogni trimestre, si limita a riunire gli interessi ed altri oneri in una voce che qualifica come capitale trascrivendola in un’appostazione contabile del trimestre successivo: nulla di più.

Come insegna la Suprema Corte sulle disposizioni del Codice Civile in materia di imputazione dei pagamento, per il loro carattere suppletivo, prevale la volontà delle parti, desumibile anche da presunzioni, che, tuttavia, va verificata con riferimento all’epoca del singolo pagamento.

Abitualmente la banca liquida le competenze con l’indicazione nel riassunto scalare dei diversi numeri creditori e debitori e sulla cui base calcola gli interessi, senza attuare poi alcuna distinzione al momento dell’imputazione.

Anzi, la banca ha applicato anche per tali interessi la lucrosa capitalizzazione periodica, manifestando, in modo inequivoco, la volontà di rinunziare all’applicazione del criterio legale di imputazione: ne consegue che gli effetti di tale rinunzia sono irreversibili una volta avvenuto il pagamento.

In poche parole, è la stessa banca che disapplica autonomamente l’art. 1194 c.c. e non può certo il giudice (terzo e giusto) soccorrere con le sentenze le decisioni contrattuali del contraente forte nel rapporto di apercredito con scoperto in c/c, che dispotizza sull’utente contraente debole, da anni fagocitato dalle decisioni vessatorie, autonome ed arbitrarie del sistema bancario.

La tenuta del conto corrente è effettuata dalla banca che imputa (autonomamente) tutti i pagamenti a capitale, ovvero è la banca che manifesta la volontà di imputare le rimesse al capitale, in quanto è essa stessa a redigere l’estratto conto: chi non si pronuncia è solo il cliente (contraente debole), che subisce il rapporto bancario come sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare.

Anche nel caso di un conto corrente allo "scoperto", per applicare l’art. 1194 c.c., occorrerebbe che la banca avesse invocato l’imputazione dell’importo relativo ai versamenti prima agli interessi e poi al capitale: sarebbe altresì necessario che la banca, in corrispondenza di un accredito su di un conto che abbia sconfinato, incameri la somma versata imputandola espressamente prima agli interessi e poi al capitale.

Al contrario, la banca, registra gli accrediti senza attuare distinzione alcuna, limitandosi a riunire gli interessi e oneri vari in un’unica voce che qualifica come capitale, trascrivendola in un’appostazione contabile del trimestre successivo con l’applicazione per tali interessi e competenze, della lucrosa capitalizzazione periodica, manifestano inoltre la volontà di rinunziare all’applicazione del criterio legale di imputazione (anche di quelli di cui all’ art. 1194 c.c.): gli effetti di tale rinunzia sono irreversibili, come già si è detto, una volta avvenuto il pagamento.

Pertanto, i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto che non abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista non vanno imputati prima agli interessi ed alle spese e poi al capitale (come disposto dall’art. 1194 c.c. in difetto di una volontà del creditore), ma si deve continuare ad agire come la banca ha agito durante l’intero rapporto: la banca al momento del versamento imputa le somme al capitale e non agli interessi e spese.

Sui nuovi quesiti adottabili

Al termine del presente lavoro, riteniamo che ai consueti quesiti che i vari giudici hanno deciso di adottare al filone del contenzioso della ripetizione delle indebite competenze bancarie, andrà aggiunto il seguente:

Accerti il CTU sulla base dei risultati raggiunti nei quesiti precedenti (quindi, tenendo conto dei saldi ricalcolati depurati dalle illegittime competenze bancarie e non degli erronei saldi evidenziati nei vari conti correnti bancari) se nel corso del rapporto si siano verificati dei versamenti che abbiano superato il limite dell’affidamento (contrattuale o comunque desumibile a mezzo dell’analisi dei tassi e/o numeri debitori entro e/o fuori fido annotati negli e/c bancari o negli scalari, o rilevabile dall’analisi delle categorie comunicate alla Centrale dei rischi, o dai contratti di fideiussione, ecc.). Nell’ipotesi in cui si sia verificato detto superamento il CTU consideri “pagate” con i successivi versamenti del correntista le competenze legittime in esubero dell’affidamento e, quindi, prescritte dopo il decorso decennale dalla data in cui è stata effettuata l’operazione.

Assolutamente distorti sarebbero i risultati a cui si perverrebbe considerando come validi i saldi passivi evidenziati negli e/c bancari: solo il saldo ricalcolato mediante l’epurazione delle illegittime competenze bancarie evidenzia un saldo reale (l’effettivo dare-avere) rispetto al quale va rapportato un successivo versamento per poterlo considerare alla stregua di un pagamento, tale da poter formare oggetto di ripetizione (ove risulti indebito), in quanto abbia avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca.

Questo accadrà qualora si tratti di versamenti solutori (e ripetiamo che non tutti i versamenti sono solutori) eseguiti su un conto "scoperto" ricalcolato i cui versamenti sono destinati a coprire il passivo eccedente i limiti dell’affidamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo ricalcolato superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.

[Sullo stesso argomento: Effetti sulle "nuove" consulenze tecniche



[1] Cassazione Civile, Sez. I, n° 10692 del 10 maggio 2007; Cassazione Civile, Sez. I, 14 maggio 2005 n. 10127; Cassazione civile, sez. I, 23 marzo 2004, n. 5720; Cassazione, Sez. I, 03 maggio 1999, n. 4389; Cassazione civile, sez. I, 14 aprile 1998, n. 3783; Cassazione civile, sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262

[2] Solo nel 2010, il sito www.studiotanza.it ha registrato le seguenti pronunzie: Tribunale di Torino, Dott. Paola FERRERO - Sent. n. 73/10 dell’8 gennaio 2010; Tribunale di BRESCIA, Dott. Lucia Cannella, Sent. n. 124 del 18 gennaio 2010; Tribunale di Torino, Dott. Maurizia Giusta - Sent. n. 450 del 21gennaio 2010; Tribunale di Lanciano, Dott. De Nisco Paola, Sent. n. 64 del 3 febbraio 2010; Tribunale di Catania, Azzia, Ordinanza ex art. 186 quater cpc; Tribunale di Lecce, Dott. Virginia Zuppetta, Sent. 334 del 03 febbraio 2010; Tribunale di Livorno, Dott. Roberto URGESE, Sent. 254 del 2 marzo 2010; Tribunale di Roma, Dott. Laura AVVISATI, Sent. 3931 del 20 febbraio 2010; Tribunale di Palmi, Dott. A. Pastore, Sent. 134 del 12 marzo 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Maria Carmela Tinelli, Sent. 761 del 31 marzo 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Lucia DE MATTEIS, Sentenza n. 80 del 23 aprile 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Giovanni TEDESCO, Sent. 5221 del 6 maggio 2010; CORTE D’APPELLO DI TORINO, Cons. Dott. Angelo CONVERSO, Sent. 5221 del 4 maggio 2010; Tribunale di Tivoli, Dott. Scarafoni, Sent. Parz. 724 del 4 maggio 2010; Tribunale di NOVARA, Dott. Angela Maria NUTINI, Sent. Parz. del 27 aprile 2010; Tribunale di Novara, Dott. Simona GAMBACORTA, Sent. Parz. del 18 maggio 2010; Tribunale di Verbania, Dott. Massimo TERZI, Sent. n. 378/2010 del 23 maggio 2010; Tribunale di Napoli, Dott. Livia TRAPANI, Sent. 5282 del 10 maggio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Giovanni Tommasi, Sentenza n. 1290 del 03 giugno 2010; Tribunale di Roma, Sentenza n. 9871 del 04 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Campi Salentina, Dott. Gabriella NOCERA, Sentenza n. 120 del 10 giugno 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Grazia ERREDE, Sentenza n. 1116 del 17 maggio 2010; Tribunale di Cassino, Dott. Gabriele SORDI, Sentenza n. 437 del 14 giugno 2010; Tribunale di Teramo, Dott. Carmine DI FULVIO, Sentenza n. 557 del 12 maggio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Maglie, Dott. Angelo RIZZO, Sent. 246 del 12 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Luca MINNITI, Sent. n. 2336 del 13 luglio 2010; Tribunale di Lecce - Sez. Casarano, dott. carlo ERRICO, Sent. n. 168 del 23 luglio 2010; Tribunale di Firenze, dott. Fiorenzo ZAZZERI, Sent. n. 2573 del 30 luglio 2010; Tribunale di Este, dott. Giuliana GIROTTO, Sent. n. 240 del 2 agosto 2010; Tribunale di Tricase, dott. Alida ACCOGLI, Sent. n. 111 del 7 agosto 2010; Corte d’Appello di Lecce, Cons. Dott. Marcello DELL’ANNA, Sent. n. 414 del 10 luglio 2010; Tribunale di Lecce, Dott. Michela DE LECCE, Sentenza n. 1166 del 16 agosto 2010; Trib. di Lucca, Dott. Antonio MONDINI, Sent. n. 1104 del 21 settembre 2010; Trib. di Casarano, dott. Cosimo CALVI, Sent. n. 123 del 9 giugno 2010;Tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Bagheria, Dott. Elisabetta LA FRANCA, Sent. n. 124 del 20 settembre 2010; Tribunale di Paola, Sez. distaccata di Scalea, Dott. Nicoletta CAMPANARO, Sent. n. 245 del 2 agosto 2010; Tribunale di Torino, Dott. Tamagnone, Sent. n. 6113 del 18 ottobre 2010; Tribunale di Foggia, Dott. Maria TUCCILLO, Sent. n. 1565 del 20 ottobre 2010; Tribunale di Napoli, Sez. dist. di Capri, Dott. Antonio QUARANTA, Sent. n. 106 del 5 novembre 2010;

[3] Il giudizio, promosso con atto di citazione notificato in data 19.12.2005, è soggetto al regime processuale di cui alla legge n.353/1990 e succ. mod. e, quindi, ad esso si applica l’art.167 c.p.c. nella formulazione precedente la riforma di cui alla legge n.80/2005, entrata in vigore il 1.3.2006, che ha inserito le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio tra le attività che, a pena di decadenza, devono essere svolte dal convenuto con comparsa di costituzione e risposta da depositare almeno venti giorni prima dell’udienza o dieci in caso di abbreviazione dei termini. Nel regime processuale antecedente la riforma del 2005, il termine per le eccezioni processuali e di merito è quello assegnato dal giudice ai sensi del II comma dell’art.180 c.p.c. - non inferiore a venti giorni prima dell’udienza di trattazione ex art.183 c.p.c.. Poiché nel caso in esame l’eccezione di prescrizione è stata proposta al momento della costituzione della convenuta all’udienza ex art.180 I comma c.p.c. è evidente che nessuna decadenza è maturata al riguardo. In tema di azione per la ripetizione di somme indebitamente trattenute dalla banca si applica il termine decennale di cui all’art. 2946 c.c. e sul tema della decorrenza del termine è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la recente sentenza n.24418/20101, che ha statuito che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicchè è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro. Non è decorso il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione afferente il conto 4371; detto rapporto, sul quale, come da c.t.u., si sono riversati gli interessi passivi del rapporto collaterale n.617047 (per utilizzo effetti salvo buon fine), è cessato al 24.11.1998 di talchè, alla data di proposizione della domanda, non si è compiuto il termine decennale. Tribunale di BRESCIA, Dott. Elda GERACI, Sentenza n. 189 del 24 gennaio 2011;

[4] Non tutti i versamenti fuori fido possono essere considerati solutori: ad esempio un girofondi da conto collegato è non solutorio in quanto il fido è accordato sull’altro conto.

[5] Cfr. Cass. 2009/16326; Cass.2004/3578.

[6] Giova preliminarmente segnalare, in materia di ripartizione dell’onere della prova nell’ambito delle azioni di accertamento negativo del credito, qual è quella in oggetto, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. Sez. IV, n. 28516/2008), ai cui principi il Collegio ritiene di aderire, la quale – per quel che qui interessa – ha chiarito che nelle azioni di accertamento negativo i principi generali sull’onere della prova trovano applicazione indipendentemente dalla circostanza che la causa sia stata instaurata dal debitore con azione di accertamento negativo, con la conseguenza che anche in tale situazione sono a carico del creditore le conseguenze della mancata dimostrazione degli elementi costitutivi della pretesa (conforme Cass. Civ. n. 1391/1985). Statuisce, inoltre, che le regole di distribuzione dell’onere della prova confermano che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all’interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo. (Appello L’Aquila, Cons. E. Buzzelli, n. 615 del 09 settembre 2010).

[7] Ordinanza del 10 gennaio 2011 nella causa R.G. 293/07. Il Giudice, premesso che all’udienza del 12.7.2010, fissata per la precisazione delle conclusioni, tratteneva in decisione il procedimento emarginato in epigrafe, assegnando alle parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per lo scambio delle comparse conclusionali e delle repliche; rilevato che, a seguito della recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, del 23 novembre - 2 dicembre 2010 n. 24438, dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi in una apertura di credito in conto corrente, per il contrasto il divieto di anatocismo sancito dall’art. 1283 c.c., gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna, perché il medesimo articolo 1283 osta anche ad una eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale e perché nemmeno potrebbe .essere ipotizzato come esistente un uso, anche non normativo, di capitalizzazione con quella cadenza; che, nella specie, l’espletata c.t.u. ha utilizzato, per determinare gli interessi a debito correntista, esclusivamente il metodo della capitalizzazione annuale; che, inoltre, con riferimento alla pattuizione degli interessi con rinvio "agli usi piazza", necessario, per il periodo antecedente all’entrata in vigore della legge n. 154/1992, opera il conteggio di detti interessi al tasso legale, mentre, per il periodo successivo alla l. 154/195 secondo il criterio di cui all’art. 5 l. 154/1992; che, pertanto, si impone la remissione della causa in istruttoria, al fine di procedere alla rinnovazione delle indagini peritali nei termini sopra esposti. P.Q.M. rimette la causa in istruttoria, disponendo la rinnovazione della c.t.u. per i motivi di cui premessa; conferma la nomina del Dr. A. A. quale C.T.U.; rinvia per il conferimento dell’incarico all’udienza del 14.2.2011 ore 12,00. Si comunichi anche al C.T.U. Il Giudice Dr. Antonio Picardi TRIBUNALE DI AREZZO - SEZ. DISTACCATA Dl SANSEPOLCRO.

[8] Il Dott. Commercialista Fabio Massimo BLASI, consulente econometrico ADUSBEF, ha analizzato un centinaio di casi giungendo alle seguenti conclusioni: “ad esempio l’andamento tipico di un conto corrente affidato per 100, consideriamo un saldo iniziale 0 al tempo t0 mentre in t2 avremo il primo versamento fuori affidamento. Ne consegue che in corrispondenza di t1 (compreso tra t0 e t2) è individuato il saldo immediatamente precedente al versamento fuori affidamento. Per cui, nell’intervallo tra t0 e t1, il conto rimane costantemente entro i limiti del fido e, per effetto del ricalcolo, nell’arco di tempo compreso tra t0 e t1, tutte le competenze illegittime sono state eliminate. Poniamo il caso che t1 corrisponda ad un saldo fuori fido per 101: richiamando il principio sopra enunciato dalla Cassazione secondo cui l’ammontare della rimessa (avente natura solutoria) non potrà mai eccedere la differenza tra il saldo del conto corrente e l’affidamento concesso, quantifichiamo con 1 il limite massimo avente tale natura solutoria. Infatti, considerando al tempo t2 un versamento di 5, il quale costituisce il primo pagamento effettuato fuori dai limiti del fido (ricordiamo che per il periodo precedente a t1 il correntista è rimasto costantemente sotto il fido), avremo che in t2 quell’ 1 rappresenta il limite massimo del pagamento solutorio, mentre i restanti 4 andranno a ripristinare la disponibilità del conto. Resta in ultima analisi da chiarire la problematica di quali voci si andranno a pagare con le rimesse individuate come sopra descritto. L’ammontare pari a 1 coprirà il pagamento delle competenze che sono maturate (esclusivamente extrafido) nell’intervallo di tempo compreso tra t1 e t2. Continuando ad applicare la regola del limite sopra richiamata e considerando il periodo successivo compreso tra t2 e t4 (in cui in t4 si ha il successivo versamento extrafido ed in t3 il saldo immediatamente precedente al versamento fuori affidamento), avremo che in t4 saranno pagate le ulteriori competenze maturate oltre il limite dell’affidamento. Così operando, mediante versamenti individuati come solutori, si pagano di fatto le competenze maturate oltre gli affidamenti concessi, sino ad arrivare alla chiusura del rapporto. Solo a questo punto sarà quindi possibile aggiungere al saldo così ricalcolato, già comprensivo delle competenze extrafido pagate con versamenti solutori, anche le competenze (entro fido) ricalcolate in corso di rapporto.

Andamento di un rapporto di conto corrente ricalcolato senza tener conto dei pagamenti solutori:

Andamento dello stesso conto corrente considerando solutori i pagamenti exrafido:

Risulta evidente che il risultato finale tra l’andamento di un normale rapporto di conto corrente ricalcolato senza tener conto dei pagamenti solutori e quello dello stesso conto corrente considerando solutori i pagamenti extrafido è pressoché uguale: infatti i grafici sono quasi simili. (l’articolo è pubblicato sul sito della Vicepresidenza Adusbef www.studiotanza.it)