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La responsabilità penale del medico: unicità del concetto di colpa

L’attività medico-chirurgica rientra in quelle attività che l’ordinamento giuridico definisce pericolose, ma che, avendo come finalità principale la salvaguardia della salute e della vita della persona, è considerata utile e lecita. Ciò significa che l’ordinamento giuridico consente tale attività entro il limite del cosiddetto rischio consentito, superato il quale si entra nel campo della responsabilità per colpa[1]. Secondo l’art. 43 codice penale si ha delitto colposo o contro l’intenzione “quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. La colpa professionale è caratterizzata, da un lato, dall’inosservanza di quelle regole di condotta che hanno la finalità di prevenire il rischio non consentito dall’ordinamento giuridico e, dall’altro, dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo.

Le regole di condotta che hanno la finalità di prevenire il rischio di lesione del bene giuridico di volta in volta tutelato dall’ordinamento possono derivare o dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline che dettando specifiche cautele, mirano ad impedire o prevenire eventi lesivi, ovvero da imprudenza, negligenza ed imperizia.

Si parla di imprudenza quando il medico agisce con avventatezza, con eccessiva precipitazione, con ingiustificata fretta, senza adottare le cautele indicate dalla comune esperienza o da precise regole dettate dalla scienza medica. Il termine prudenza è dato dalla contrazione della parola previdente, per cui il medico prudente è colui capace di prevedere le possibili complicanze derivanti dalla somministrazione di un dato trattamento, di prevedere la possibile evoluzione della situazione morbosa del paziente ed evitare le conseguenze dannose.

E’ negligente, invece, il medico che, per disattenzione o per superficialità, non rispetti quelle norme comuni di diligenza che è legittimo attendersi da persona abilitata all’esercizio della professione medica e che sono osservate dalla generalità dei medici. La differenza tra imprudenza e negligenza sta nel fatto che, la prima consiste in una condotta attiva, contraria alle regole fondamentali che la comune esperienza consiglia per tutelare la salute del paziente, la seconda, invece, in una condotta omissiva, nel senso che non viene fatto ciò che la scienza medica consiglia di fare nel caso concreto.

Infine, si ha imperizia quando la condotta del medico è incompatibile con quel livello minimo di cognizione tecnica, di cultura, di esperienza e di capacità professionale, che costituiscono il presupposto necessario per l’esercizio della professione medica (Cassazione penale, Sez. IV, 16.02.1987).

Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento che permette di definire i confini della diligenza, prudenza e perizia richiesta dalla situazione concreta deve essere effettuato ex ante avendo come riferimento un “modello di agente” che svolga la stessa professione o attività dell’agente reale, “homo eiusdem professionis et condicionis”.

In alcuni casi, tuttavia, all’interno di una medesima categoria sociale di appartenenza, è possibile rinvenire una pluralità di tipi di “modello di agente”. E’ il caso dei medici.

E’ stato sostenuto che “la misura della perizia oggettivamente richiesta nell’espletamento dell’attività sanitaria è graduabile a seconda che il medico appartenga alla cerchia dei cattedratici, degli specialisti o dei semplici generici[2]”. La stessa Corte di Cassazione, infatti, in più di un’occasione, ha evidenziato che, se è vero che “ai fini della colpa professionale dell’esercente un’attività sanitaria non si richiede una grande perizia, ma quel minimo che si deve attendere dall’esercente la professione medica” (Cassazione penale, 17.02.1981 e in Giustizia penale, 1982, III, p. 634), di fronte all’errore del medico specialista, invece, è necessario un atteggiamento di maggiore severità, poiché, in tali ipotesi, “non si richiede al sanitario solo quel minimo di cognizioni e l’abilità sopra indicate, ma quella conoscenza e quella particolare abilità e perizia proprie di chi ha acquisito un titolo specialistico” (Cassazione Penale, 11.03.1983 e in Giustizia Penale, 1984, II, p. 227).

Ed, infatti, le cognizioni generali e fondamentali proprie di un medico specialista nel relativo campo sono e devono necessariamente essere diverse e più ampie rispetto alle cognizioni fondamentali proprie di un medico generico. In tali ipotesi, dunque, “la colpa è ravvisabile nell’essere inescusabile” e, cioè, nel difetto della necessaria preparazione ed abilità tecnica da parte del medico.

Ma il “rigore” del criterio della prevedibilità non è sfuggito alla giurisprudenza, che mentre in alcuni casi, e sono la maggioranza, si richiama ad una valutazione larga della condotta del medico, in altri non esita a mitigarlo ricorrendo senz’altro al criterio del c. d. rischio consentito. La teoria del rischio consentito presuppone che sia intervenuto un bilanciamento di interessi contrastanti. Da un lato v’è l’esigenza di fornire adeguata tutela a beni giuridici di particolare natura, (salute, integrità fisica ecc.), dall’altro quella di consentire lo svolgimento di attività socialmente utili.

A tal proposito, è stato ben sottolineato in dottrina che la teoria del rischio consentito e dell’attività socialmente adeguata sembrerebbe essere diretta a mitigare il rigore di un’applicazione integrale dei criteri di cui all’art. 43 codice penale e, pertanto, non è esente da critiche, in quanto comporterebbe una deroga, a vantaggio dell’attività medica, alla disciplina generale dell’imputazione del fatto per colpa.

“Il vantaggio della teoria del rischio è palese, in quanto porta ad escludere che anche chi guidi a velocità moderata e con la massima prudenza un’automobile, non abbia la possibilità di prevedere l’investimento di un passante che gli si cacci sotto le ruote.

Ora, se alla colpa bastassero la rappresentabilità e l’evitabilità del risultato, poiché, nell’esempio prospettato, entrambe sarebbero presenti, non si potrebbe negare la responsabilità colposa per l’incidente che, nei termini sopra descritti, avesse a verificarsi.

Per l’attività che comportano pericoli più evidenti, si parla nella dottrina tedesca di “rischio consentito”, e si integra il criterio della responsabilità con l’asserto che può dar luogo a colpa soltanto quella condotta la realizzazione della quale vada oltre i limiti della adeguatezza sociale. Il tentativo di integrare così la teoria della rappresentabilità, considerata come criterio generale della colpa, lascia dei dubbi non risultando assolutamente precisati i limiti del rischio consentito. Allo stesso modo si è anche osservato che la fattispecie di attività pericolose permesse non rappresenta un’eccezione con la quale verrebbe sottratta alla regola della prevedibilità la disciplina di attività consone al progresso sociale: la potenzialità di un danno è, infatti, insita nelle più svariate condotte.

Rilievo indubbiamente esatto, il quale però lungi da costringere all’abbandono del criterio della rappresentabilità, apre una strada alla soluzione del problema. Si pensi, infatti, che mentre ordinariamente le attività lecite possono portare ad un evento vietato solo col concorso di particolari circostanze, certe attività sono espressamente autorizzate e disciplinate dal diritto, nonostante sia facilmente prevedibile che, in ogni caso, la loro realizzazione comporta un certo margine di rischi. Dobbiamo sottolineare: in ogni caso. Ciò significa che indipendentemente da una particolare modalità che in concreto la caratterizzi, l’azione di quest’ultimo tipo è, in sé e per sé, pericolosa[3]”. In buona sostanza non si può ricorrere e invocare la teoria del rischio consentito in merito all’attività medica per mitigare l’art. 43 codice penale, in quanto essa costituisce sì un’attività pericolosa, ma di certo prevedibile.

La pericolosità di un’attività socialmente utile non esclude la prevedibilità dell’evento. I criteri di prevedibilità ed evitabilità in presenza dei quali ci si trova a dover parlare di colpa restano fermi e devono essere indagati a norma dell’art. 43 c. p. così come avviene per la responsabilità per colpa di qualsiasi altra attività professionale.

Inoltre, in precedenza, nel campo della colpa medica, parte della dottrina distingueva le ipotesi in cui la condotta del sanitario si concretizzava in comportamenti negligenti o imprudenti da quelle nelle quali si concretizzava secondo un comportamento imperito. E, quindi, mentre nei casi di condotte negligenti o imprudenti la sussistenza della colpa medica sarebbe stata accertata secondo le regole generali dettate dall’art. 43 codice penale, con la conseguente rilevanza penale anche della colpa lieve, nelle ipotesi di imperizia la condotta del medico avrebbe avuto rilevanza penale solo se riconducibile nell’ambito della colpa grave.

Tale orientamento, avallato anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n.166/1973, trova riscontro, secondo i suoi sostenitori, nella previsione contenuta nell’art. 2236 codice civile il quale dispone che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non per dolo o colpa grave” poiché, in base all’articolo 1176 codice civile, la diligenza richiesta nell’adempimento della prestazione – che solitamente è quella del “buon padre di famiglia”- nel caso di obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale deve essere valutata avendo riguardo alla “natura dell’attività esercitata”[4]. Il fulcro della questione riguarda la possibilità di ammettere anche in ambito penale, nell’imputazione soggettiva del reato, la sola colpa grave per i problemi tecnici che presentano particolare difficoltà.

Ma il dibattito sulla responsabilità penale del medico, da tempo fondato proprio sulla possibile o meno rilevanza della regola dell’art. 2236 codice civile anche in ambito penale, non sembra peraltro attualmente in nessun modo condivisibile, in quanto, in diritto penale, il grado della colpa è previsto dall’art. 133 codice penale solo come criterio per la determinazione della pena o secondo quanto disposto dall’art. 61, numero 3, codice penale come circostanza aggravante e mai per determinare la stessa sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sicché il minor grado della colpa non può avere in alcun caso efficacia scriminante.

L’art. 43 codice penale non parla di gradi della colpa.

Questa posizione è stata peraltro rafforzata da numerose sentenze della Corte di Cassazione[5]. Tra queste nella sentenza 46412 del 17-12-2008 la Suprema Corte ribadisce chiaramente che: “In tema di colpa professionale, qualora la condotta incida su beni primari, quali la vita o la salute delle persone, i parametri valutativi debbono essere estratti dalle norme proprie al sistema penale e non già da quelle civilistiche sull’inadempimento nell’esecuzione del rapporto contrattuale”.

Infatti, imponendo la valutazione dei casi di imperizia sulla base degli stessi canoni applicabili alle ipotesi di negligenza ed imprudenza, la Corte di Cassazione impedisce che il pregiudiziale ed aprioristico abbassamento del grado di perizia, esigibile dal medico, comporti oltre ad una indulgenza eccessiva, una inevitabile disparità di trattamento rispetto alla situazione di altre categorie professionali, la cui attività richiede cautele non certo minori di quelle che l’ordinamento pretende dal medico. Infatti, la Corte (Cassazione Penale, Sezione 4, sentenza 4028 del 12-4-1991) ha affermato che l’accertamento della colpa professionale del sanitario deve essere valutata sì con larghezza e comprensione per la peculiarità dell’esercizio dell’arte medica e per la difficoltà dei casi particolari, ma pur sempre nell’ambito di quei criteri dettati dall’art. 43 codice penale per l’individuazione della colpa.

Fa riflettere il richiamo a quella larghezza di vedute e comprensione che ricompare nella sentenza: sembra un inciso che ha l’intento di smorzare la forza applicativa di un indirizzo giurisprudenziale che non tollera graduazioni nella determinazione della colpa.

Da un’analisi dell’ordinamento penale è quindi chiaro che non c’è motivo di ammettere una deroga alla disciplina della responsabilità a titolo di colpa per l’attività medica né appare possibile ammettere una graduazione della colpa nella disciplina dell’elemento psicologico del reato.

D’altronde l’applicazione estensiva dell’art. 2236 codice civile, giustificata da molti sulla base di una presunta unitarietà dell’ordinamento giuridico, si imbatte anche nel fatto che il suddetto art. 2336 codice civile “non può esplicare alcun effetto restrittivo della disciplina dell’elemento psicologico del reato”, neanche in virtù di una applicazione analogica o estensiva, poiché, per giurisprudenza conforme della Corte Suprema “la sua applicabilità non può avvenire né con interpretazione analogica, perché vietata per il carattere eccezionale della disposizione rispetto ai principi vigenti in materia, né per interpretazione estensiva, data la completezza e l’omogeneità della disciplina penale del dolo e della colpa”.

In conclusione, il regime della responsabilità penale dell’attività medica non sembra discostarsi assolutamente dal regime generale previsto per ogni forma di responsabilità penale secondo quanto disposto dall’art. 43 codice penale.



[1] F. Bricola, Aspetti problematici del c. d. rischio consentito, p. 105 ss., Ferrari, Sulla valutazione della responsabilità medica per colpa, in Giurisprudenza Italiana, 2004, p. 1492.

[2] Fiandaca – Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, p. 496.

[3] Cfr. M. Gallo, voce Colpa penale (diritto vigente) , in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1960, p. 624 ss.

[4] In questo senso, cfr. P. Nuvolone, Colpa civile e colpa penale, in Trent’anni di diritto e procedura penale, Padova, 1969, p. 696.

[5] Cfr. Cassazione Penale 2.6.1987: “Il concetto di colpa grave previsto dall’articolo 2236 codice civile è limitato all’obbligo del risarcimento dei danni, quando la prestazione professionale implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; esso, pertanto, non è estensibile all’ordinamento penale (applicazione del principio alla colpa professionale del sanitario)”. E ancora cfr. Cassazione penale, sez. 4, sentenza 10289 del 13-7-1990: “La norma dell’articolo 2236 codice civile secondo cui il prestatore d’opera è esonerato dall’obbligo del risarcimento del danno quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, salvo che il fatto sia stato commesso con dolo o colpa grave, è diretta unicamente a disciplinare l’obbligo del risarcimento nel rapporto contrattuale citato, nonché in caso di responsabilità aquiliana, ma in nessun caso può essere estesa all’ordinamento penale al fine di determinare un’ipotesi di non punibilità per fatti commessi con grado di colpa non grave”.

L’attività medico-chirurgica rientra in quelle attività che l’ordinamento giuridico definisce pericolose, ma che, avendo come finalità principale la salvaguardia della salute e della vita della persona, è considerata utile e lecita. Ciò significa che l’ordinamento giuridico consente tale attività entro il limite del cosiddetto rischio consentito, superato il quale si entra nel campo della responsabilità per colpa[1]. Secondo l’art. 43 codice penale si ha delitto colposo o contro l’intenzione “quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. La colpa professionale è caratterizzata, da un lato, dall’inosservanza di quelle regole di condotta che hanno la finalità di prevenire il rischio non consentito dall’ordinamento giuridico e, dall’altro, dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo.

Le regole di condotta che hanno la finalità di prevenire il rischio di lesione del bene giuridico di volta in volta tutelato dall’ordinamento possono derivare o dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline che dettando specifiche cautele, mirano ad impedire o prevenire eventi lesivi, ovvero da imprudenza, negligenza ed imperizia.

Si parla di imprudenza quando il medico agisce con avventatezza, con eccessiva precipitazione, con ingiustificata fretta, senza adottare le cautele indicate dalla comune esperienza o da precise regole dettate dalla scienza medica. Il termine prudenza è dato dalla contrazione della parola previdente, per cui il medico prudente è colui capace di prevedere le possibili complicanze derivanti dalla somministrazione di un dato trattamento, di prevedere la possibile evoluzione della situazione morbosa del paziente ed evitare le conseguenze dannose.

E’ negligente, invece, il medico che, per disattenzione o per superficialità, non rispetti quelle norme comuni di diligenza che è legittimo attendersi da persona abilitata all’esercizio della professione medica e che sono osservate dalla generalità dei medici. La differenza tra imprudenza e negligenza sta nel fatto che, la prima consiste in una condotta attiva, contraria alle regole fondamentali che la comune esperienza consiglia per tutelare la salute del paziente, la seconda, invece, in una condotta omissiva, nel senso che non viene fatto ciò che la scienza medica consiglia di fare nel caso concreto.

Infine, si ha imperizia quando la condotta del medico è incompatibile con quel livello minimo di cognizione tecnica, di cultura, di esperienza e di capacità professionale, che costituiscono il presupposto necessario per l’esercizio della professione medica (Cassazione penale, Sez. IV, 16.02.1987).

Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento che permette di definire i confini della diligenza, prudenza e perizia richiesta dalla situazione concreta deve essere effettuato ex ante avendo come riferimento un “modello di agente” che svolga la stessa professione o attività dell’agente reale, “homo eiusdem professionis et condicionis”.

In alcuni casi, tuttavia, all’interno di una medesima categoria sociale di appartenenza, è possibile rinvenire una pluralità di tipi di “modello di agente”. E’ il caso dei medici.

E’ stato sostenuto che “la misura della perizia oggettivamente richiesta nell’espletamento dell’attività sanitaria è graduabile a seconda che il medico appartenga alla cerchia dei cattedratici, degli specialisti o dei semplici generici[2]”. La stessa Corte di Cassazione, infatti, in più di un’occasione, ha evidenziato che, se è vero che “ai fini della colpa professionale dell’esercente un’attività sanitaria non si richiede una grande perizia, ma quel minimo che si deve attendere dall’esercente la professione medica” (Cassazione penale, 17.02.1981 e in Giustizia penale, 1982, III, p. 634), di fronte all’errore del medico specialista, invece, è necessario un atteggiamento di maggiore severità, poiché, in tali ipotesi, “non si richiede al sanitario solo quel minimo di cognizioni e l’abilità sopra indicate, ma quella conoscenza e quella particolare abilità e perizia proprie di chi ha acquisito un titolo specialistico” (Cassazione Penale, 11.03.1983 e in Giustizia Penale, 1984, II, p. 227).

Ed, infatti, le cognizioni generali e fondamentali proprie di un medico specialista nel relativo campo sono e devono necessariamente essere diverse e più ampie rispetto alle cognizioni fondamentali proprie di un medico generico. In tali ipotesi, dunque, “la colpa è ravvisabile nell’essere inescusabile” e, cioè, nel difetto della necessaria preparazione ed abilità tecnica da parte del medico.

Ma il “rigore” del criterio della prevedibilità non è sfuggito alla giurisprudenza, che mentre in alcuni casi, e sono la maggioranza, si richiama ad una valutazione larga della condotta del medico, in altri non esita a mitigarlo ricorrendo senz’altro al criterio del c. d. rischio consentito. La teoria del rischio consentito presuppone che sia intervenuto un bilanciamento di interessi contrastanti. Da un lato v’è l’esigenza di fornire adeguata tutela a beni giuridici di particolare natura, (salute, integrità fisica ecc.), dall’altro quella di consentire lo svolgimento di attività socialmente utili.

A tal proposito, è stato ben sottolineato in dottrina che la teoria del rischio consentito e dell’attività socialmente adeguata sembrerebbe essere diretta a mitigare il rigore di un’applicazione integrale dei criteri di cui all’art. 43 codice penale e, pertanto, non è esente da critiche, in quanto comporterebbe una deroga, a vantaggio dell’attività medica, alla disciplina generale dell’imputazione del fatto per colpa.

“Il vantaggio della teoria del rischio è palese, in quanto porta ad escludere che anche chi guidi a velocità moderata e con la massima prudenza un’automobile, non abbia la possibilità di prevedere l’investimento di un passante che gli si cacci sotto le ruote.

Ora, se alla colpa bastassero la rappresentabilità e l’evitabilità del risultato, poiché, nell’esempio prospettato, entrambe sarebbero presenti, non si potrebbe negare la responsabilità colposa per l’incidente che, nei termini sopra descritti, avesse a verificarsi.

Per l’attività che comportano pericoli più evidenti, si parla nella dottrina tedesca di “rischio consentito”, e si integra il criterio della responsabilità con l’asserto che può dar luogo a colpa soltanto quella condotta la realizzazione della quale vada oltre i limiti della adeguatezza sociale. Il tentativo di integrare così la teoria della rappresentabilità, considerata come criterio generale della colpa, lascia dei dubbi non risultando assolutamente precisati i limiti del rischio consentito. Allo stesso modo si è anche osservato che la fattispecie di attività pericolose permesse non rappresenta un’eccezione con la quale verrebbe sottratta alla regola della prevedibilità la disciplina di attività consone al progresso sociale: la potenzialità di un danno è, infatti, insita nelle più svariate condotte.

Rilievo indubbiamente esatto, il quale però lungi da costringere all’abbandono del criterio della rappresentabilità, apre una strada alla soluzione del problema. Si pensi, infatti, che mentre ordinariamente le attività lecite possono portare ad un evento vietato solo col concorso di particolari circostanze, certe attività sono espressamente autorizzate e disciplinate dal diritto, nonostante sia facilmente prevedibile che, in ogni caso, la loro realizzazione comporta un certo margine di rischi. Dobbiamo sottolineare: in ogni caso. Ciò significa che indipendentemente da una particolare modalità che in concreto la caratterizzi, l’azione di quest’ultimo tipo è, in sé e per sé, pericolosa[3]”. In buona sostanza non si può ricorrere e invocare la teoria del rischio consentito in merito all’attività medica per mitigare l’art. 43 codice penale, in quanto essa costituisce sì un’attività pericolosa, ma di certo prevedibile.

La pericolosità di un’attività socialmente utile non esclude la prevedibilità dell’evento. I criteri di prevedibilità ed evitabilità in presenza dei quali ci si trova a dover parlare di colpa restano fermi e devono essere indagati a norma dell’art. 43 c. p. così come avviene per la responsabilità per colpa di qualsiasi altra attività professionale.

Inoltre, in precedenza, nel campo della colpa medica, parte della dottrina distingueva le ipotesi in cui la condotta del sanitario si concretizzava in comportamenti negligenti o imprudenti da quelle nelle quali si concretizzava secondo un comportamento imperito. E, quindi, mentre nei casi di condotte negligenti o imprudenti la sussistenza della colpa medica sarebbe stata accertata secondo le regole generali dettate dall’art. 43 codice penale, con la conseguente rilevanza penale anche della colpa lieve, nelle ipotesi di imperizia la condotta del medico avrebbe avuto rilevanza penale solo se riconducibile nell’ambito della colpa grave.

Tale orientamento, avallato anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n.166/1973, trova riscontro, secondo i suoi sostenitori, nella previsione contenuta nell’art. 2236 codice civile il quale dispone che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non per dolo o colpa grave” poiché, in base all’articolo 1176 codice civile, la diligenza richiesta nell’adempimento della prestazione – che solitamente è quella del “buon padre di famiglia”- nel caso di obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale deve essere valutata avendo riguardo alla “natura dell’attività esercitata”[4]. Il fulcro della questione riguarda la possibilità di ammettere anche in ambito penale, nell’imputazione soggettiva del reato, la sola colpa grave per i problemi tecnici che presentano particolare difficoltà.

Ma il dibattito sulla responsabilità penale del medico, da tempo fondato proprio sulla possibile o meno rilevanza della regola dell’art. 2236 codice civile anche in ambito penale, non sembra peraltro attualmente in nessun modo condivisibile, in quanto, in diritto penale, il grado della colpa è previsto dall’art. 133 codice penale solo come criterio per la determinazione della pena o secondo quanto disposto dall’art. 61, numero 3, codice penale come circostanza aggravante e mai per determinare la stessa sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sicché il minor grado della colpa non può avere in alcun caso efficacia scriminante.

L’art. 43 codice penale non parla di gradi della colpa.

Questa posizione è stata peraltro rafforzata da numerose sentenze della Corte di Cassazione[5]. Tra queste nella sentenza 46412 del 17-12-2008 la Suprema Corte ribadisce chiaramente che: “In tema di colpa professionale, qualora la condotta incida su beni primari, quali la vita o la salute delle persone, i parametri valutativi debbono essere estratti dalle norme proprie al sistema penale e non già da quelle civilistiche sull’inadempimento nell’esecuzione del rapporto contrattuale”.

Infatti, imponendo la valutazione dei casi di imperizia sulla base degli stessi canoni applicabili alle ipotesi di negligenza ed imprudenza, la Corte di Cassazione impedisce che il pregiudiziale ed aprioristico abbassamento del grado di perizia, esigibile dal medico, comporti oltre ad una indulgenza eccessiva, una inevitabile disparità di trattamento rispetto alla situazione di altre categorie professionali, la cui attività richiede cautele non certo minori di quelle che l’ordinamento pretende dal medico. Infatti, la Corte (Cassazione Penale, Sezione 4, sentenza 4028 del 12-4-1991) ha affermato che l’accertamento della colpa professionale del sanitario deve essere valutata sì con larghezza e comprensione per la peculiarità dell’esercizio dell’arte medica e per la difficoltà dei casi particolari, ma pur sempre nell’ambito di quei criteri dettati dall’art. 43 codice penale per l’individuazione della colpa.

Fa riflettere il richiamo a quella larghezza di vedute e comprensione che ricompare nella sentenza: sembra un inciso che ha l’intento di smorzare la forza applicativa di un indirizzo giurisprudenziale che non tollera graduazioni nella determinazione della colpa.

Da un’analisi dell’ordinamento penale è quindi chiaro che non c’è motivo di ammettere una deroga alla disciplina della responsabilità a titolo di colpa per l’attività medica né appare possibile ammettere una graduazione della colpa nella disciplina dell’elemento psicologico del reato.

D’altronde l’applicazione estensiva dell’art. 2236 codice civile, giustificata da molti sulla base di una presunta unitarietà dell’ordinamento giuridico, si imbatte anche nel fatto che il suddetto art. 2336 codice civile “non può esplicare alcun effetto restrittivo della disciplina dell’elemento psicologico del reato”, neanche in virtù di una applicazione analogica o estensiva, poiché, per giurisprudenza conforme della Corte Suprema “la sua applicabilità non può avvenire né con interpretazione analogica, perché vietata per il carattere eccezionale della disposizione rispetto ai principi vigenti in materia, né per interpretazione estensiva, data la completezza e l’omogeneità della disciplina penale del dolo e della colpa”.

In conclusione, il regime della responsabilità penale dell’attività medica non sembra discostarsi assolutamente dal regime generale previsto per ogni forma di responsabilità penale secondo quanto disposto dall’art. 43 codice penale.



[1] F. Bricola, Aspetti problematici del c. d. rischio consentito, p. 105 ss., Ferrari, Sulla valutazione della responsabilità medica per colpa, in Giurisprudenza Italiana, 2004, p. 1492.

[2] Fiandaca – Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1995, p. 496.

[3] Cfr. M. Gallo, voce Colpa penale (diritto vigente) , in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1960, p. 624 ss.

[4] In questo senso, cfr. P. Nuvolone, Colpa civile e colpa penale, in Trent’anni di diritto e procedura penale, Padova, 1969, p. 696.

[5] Cfr. Cassazione Penale 2.6.1987: “Il concetto di colpa grave previsto dall’articolo 2236 codice civile è limitato all’obbligo del risarcimento dei danni, quando la prestazione professionale implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; esso, pertanto, non è estensibile all’ordinamento penale (applicazione del principio alla colpa professionale del sanitario)”. E ancora cfr. Cassazione penale, sez. 4, sentenza 10289 del 13-7-1990: “La norma dell’articolo 2236 codice civile secondo cui il prestatore d’opera è esonerato dall’obbligo del risarcimento del danno quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, salvo che il fatto sia stato commesso con dolo o colpa grave, è diretta unicamente a disciplinare l’obbligo del risarcimento nel rapporto contrattuale citato, nonché in caso di responsabilità aquiliana, ma in nessun caso può essere estesa all’ordinamento penale al fine di determinare un’ipotesi di non punibilità per fatti commessi con grado di colpa non grave”.