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La responsabilità personale degli associati rispetto alle obbligazioni assunte dall’organismo

Ballerine, Edgar Degas (1884-1885), museo d'Orsay, Parigi
Ballerine, Edgar Degas (1884-1885), museo d'Orsay, Parigi

A partire dall’ultimo quarto del secolo scorso, le associazioni non riconosciute hanno iniziato a costituire una presenza sempre più rilevante all’interno della nostra società, distinguendosi per significativi rapporti di collaborazione anche con gli apparati pubblici, rispetto ai quali hanno assunto una funzione di vera e propria supplenza.

In effetti, gli enti non profit si sono spesso dimostrati più dinamici ed efficienti rispetto ai soggetti pubblici, specialmente nel fornire servizi sociali e, più in generale, nel sopperire ai bisogni dei singoli e della collettività, colmando da ultimo quello spazio lasciato aperto dalla crisi dello stato sociale.

Tali organizzazioni hanno poi raggiunto, nel corso degli ultimi decenni, risultati lusinghieri anche all’interno del libero mercato, vincendo spesso la concorrenza delle società lucrative rispetto alle quali hanno saputo mostrare un volto più rassicurante rispetto a quello, legato al perseguimento del profitto a tutti i costi, dell'economia di mercato.

Si tratta, in tutti questi casi, di soggetti di natura privata che, senza scopo di lucro, perseguono finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, promuovendo e realizzando attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi, il cui elemento ontologico caratterizzante risiede nel requisito del reimpiego del profitto, eventualmente realizzato dall’ente, nelle finalità istituzionali dell'organizzazione stessa.

Tra esse possiamo richiamare, senza alcuna pretesa di esaustività, realtà come le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, le associazioni di volontariato di protezione civile, le associazioni di promozione sociale, le associazioni sportive dilettantistiche, le associazioni dei consumatori e degli utenti, le società di mutuo soccorso, le organizzazioni non governative, le imprese sociali, i fondi di assistenza sanitaria e via discorrendo.

A titolo esemplificativo è di tutta evidenza il successo riscosso dai fondi di assistenza sanitaria integrativa, ed in particolar modo quelli costituiti ed operanti per mezzo della contrattazione collettiva e di specifici accordi tra organizzazioni sindacali ed imprenditoriali, che rappresenta una cartina di tornasole rispetto a quanto sopra esposto.

Trattasi, appunto, nella stragrande maggioranza dei casi, di associazioni non riconosciute che la più autorevole dottrina non ha esitato a definire il 2° pilastro dell’assistenza sanitaria, ritenuto, a ragione, ausiliare, integrativo e parzialmente sostitutivo del sistema sanitario pubblico (alle prese con le note criticità ed inefficienze) ed alternativo alle realtà profit delle imprese assicuratrici.      

La genesi di tale fenomeno all’interno della società civile italiana può essere ricondotta all’entrata in vigore della Carta costituzionale, con la conseguente ricostituzione di quel pluralismo politico e sociale foriero dell’intenso sviluppo del fenomeno associativo.

Di talché, proprio con l’affermarsi di una società sempre più pluralista, lo Stato non veniva più considerato come un’istituzione rivestita di esclusiva dignità, ma come una comunità più larga comprendente, all’interno dei propri confini, tutte le altre comunità alle quali conferiva riconoscimento.

In realtà, anche la indubbia portata innovativa di tale affermazione di principio, conteneva in sé il riferimento alle sole comunità (rectius associazioni) suscettibili di riconoscimento.

Invero il sorgere di associazioni “svincolate” dalla giurisdizione dello Stato, ben lungi dall’essere considerata un’aspirazione di libertà, veniva percepita, in quell’epoca storica, come una nuova minaccia per la libertà dell’individuo.

Del resto, la riprova della iniziale diffidenza mostrata dal nostro ordinamento verso le associazioni non riconosciute, si era invero già concretizzata nella scarsa attenzione riservata dal legislatore codicistico del 1942, tramite i soli articoli 36, 37 e 38 del codice civile.

Di conseguenza, oltre alle persone fisiche, venivano considerati soggetti di diritto, titolari di situazioni giuridiche soggettive, soltanto quelle realtà che, attraverso il riconoscimento da parte dell’ordinamento, ottenevano il requisito della personalità giuridica, relegando gli enti che ne risultavano privi ad una esistenza di “mero fatto”.

Soltanto con il definitivo superamento del dogma della personalità giuridica e l’attribuzione della soggettività giuridica anche in capo ad enti privi di tale personalità, le associazioni non riconosciute venivano finalmente considerate soggetti di diritto.

In effetti per la definitiva realizzazione di tale aspirazione, raggiunta attraverso un lungo e tormentato percorso dottrinario e giurisprudenziale, occorreva attendere il prezioso contributo offerto da importanti pronunce di legittimità, come quella che nel 1976 enunciava il seguente principio di diritto “(…) gli enti non riconosciuti sono dotati di soggettività giuridica (…)”.

Il superamento dell’arcaica concezione dell’assenza di soggettività giuridica in capo alle associazioni non riconosciute apriva, di conseguenza, al principio secondo cui anche alle associazioni non riconosciute siano attribuite le qualità di soggetti di diritto distinti dagli associati che ne fanno parte. Ed è proprio in questo solco che si arrestava il prevalente orientamento giurisprudenziale di legittimità, affermando che: “(…) l’associazione non riconosciuta, pur non essendo dotata di personalità giuridica, è configurata dall’ordinamento come soggetto distinto dagli associati (…)”.

La corretta applicazione di tali principi viene a concretizzarsi, in tutta la sua evidenza, proprio con riferimento alla responsabilità degli associati per le obbligazioni assunte dall’associazione non riconosciuta, anche se con alcuni necessari correttivi.

Orbene, una volta affermato che anche le associazioni non riconosciute, oltre a quelle riconosciute, possano a buon diritto ritenersi soggetti di diritto distinti dalle persone dei membri che le costituiscono, occorre domandarsi se tale assimilazione resista anche di fronte ai principi che regolano la responsabilità degli associati per le obbligazioni assunte dall’organismo.

Da un lato, infatti, è indubbio che le associazioni riconosciute siano dotate di un’autonomia patrimoniale perfetta, in forza della quale il patrimonio si presenta distinto ed autonomo rispetto a quello degli associati e degli amministratori.

Per questa tipologia di associazioni il dettato normativo dell’articolo 16 codice civile prevede expressis verbis l’esistenza di un “patrimonio”, da ritenersi appartenente all’associazione e sul quale possono rivalersi i creditori per la soddisfazione delle obbligazioni contratte dagli associati a nome e conto dell’associazione stessa.

Conseguentemente, a fronte di tali obbligazioni risponde solo l’associazione con il suo patrimonio, con esclusione di qualsivoglia responsabilità degli amministratori o di coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione stessa.

Per quanto riguarda, invece, le associazioni non riconosciute, sebbene siano considerate anch’esse dall’ordinamento quale soggetto di diritto distinto dagli associati, dotate di una propria organizzazione interna ed esterna, di un proprio patrimonio costituito dal fondo comune e di una propria capacità sostanziale e processuale, godono tuttavia di un'autonomia patrimoniale che può, a ragione, definirsi imperfetta.

L’articolo 38 del codice civile dispone che “per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”.

Se infatti, con riferimento alla prima parte del summenzionato articolo, appare manifesta l’analogia tra le associazioni riconosciute e non, avendo il legislatore previsto anche per queste ultime l’autonomia patrimoniale mediante l’istituzione di un “fondo comune” (formato dai contributi degli associati e dai beni acquistati con i contributi stessi su cui possono rivalersi i creditori dell’associazione), è invece l’ultima parte dell’articolo 38 codice civile a marcare una significativa distinzione tra le precitate forme associative.

La questione non è di poco conto, presagendo, per gli aderenti all’associazione, il rischio di essere ritenuti personalmente responsabili per quelle obbligazioni assunte a nome e conto dell’associazione stessa, a maggior ragione se si considera che, la quasi totalità degli associati, vi impiega il proprio tempo e le proprie risorse in forma assolutamente gratuita.

Tale questione assume una dimensione ancora più delicata se tali soggetti si trovino ad appartenere ad uno degli organi sociali concretamente preposti all’adozione di decisioni inerenti alle attività dell’associazione: il consiglio direttivo o organi similari. Non soltanto il presidente, ma tutti coloro che in qualità di amministratori partecipano, con mansioni diverse, al compimento degli aspetti esecutivi dell’ente tra i quali la stipula di contratti, l’organizzazione di eventi, l’acquisto di beni materiali, la tenuta di registri contabili, il versamento delle imposte tanto che per ciascuna di queste operazioni potrà sorgere un certo grado di responsabilità, i cui effetti andranno a ricadere sull’associazione separatamente considerata e, in taluni casi, su coloro che individualmente vi avranno provveduto.

Si deve quindi iniziare a prendere atto che, per le sole associazioni non riconosciute, il nostro ordinamento ha delineato, in aggiunta al fondo comune, una responsabilità personale e solidale di coloro i quali hanno agito in nome e per conto dell’associazione.

Del resto l’affermazione della responsabilità del legale rappresentante dell’associazione non riconosciuta, che abbia effettivamente diretto l’attività dell’ente, disciplinata dalla seconda parte dell’articolo 38 codice civile, è stata costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità (fra le altre Cassazione sentenza n. 55746 del 12.03.2007, Cassazione ordinanza n. 12473 del 17.06.2015 e Cassazione sentenza n. 19486 del 10.09.2009).

L’applicazione di tale responsabilità accessoria, secondo la dottrina prevalente, ha la funzione di contemperare le esigenze di tutelare i creditori dell’associazione dall’assenza di un sistema di pubblicità legale del patrimonio dell’ente e, non da ultimo, dal mancato accertamento da parte dell’ordinamento dell’adeguatezza del fondo comune allo scopo dell’associazione stessa (attività questa prevista per il riconoscimento delle associazioni in capo all’autorità governativa o regionale deputata ad accertare, ai sensi del D.P.R. n. 361 del 10.02.2000, articolo 1, comma 3°, se il patrimonio associativo sia adeguato al raggiungimento dello scopo sociale).

Tuttavia, la responsabilità di chi ha agito per l’associazione è ben diversa da ciò che consegue ad un’obbligazione contratta in proprio, concorrendo con la responsabilità dell’ente come una sorta di fideiussione prevista ex lege ad esclusiva tutela dei terzi.

Questi ultimi, infatti, ignorando la effettiva consistenza economica del fondo comune, possono fare affidamento sulla solvibilità di chi ha negoziato con loro, essendo altresì esentati dal rispettare quel beneficium excussionis previsto in tema di società di persone, ove sussiste l’obbligo del creditore di agire preventivamente sul patrimonio sociale.

In forza di tali principi, pertanto, per la soddisfazione di un’obbligazione contratta dall’associazione non riconosciuta, i terzi possono azionare il proprio diritto di credito in via solidale tra chi ha agito in nome e per conto dell’associazione ed il fondo comune.

Al riguardo la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12473 del 17.06.2015, aveva già chiarito che “… tale responsabilità non concerne, neppure in parte, un debito proprio dell’associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria dell’associazione, con la conseguenza che l’obbligazione, avente natura solidale, di colui che ha agito per essa è inquadrabile fra quelle di garanzia ex lege, assimilabili alla fideiussione”.

Quanto sopra a condizione che chi abbia agito in nome e conto dell’associazione non riconosciuta fosse abilitato a spenderne il nome. In mancanza di un regime di pubblicità per lo statuto e gli atti di nomina degli organi, è rimesso in capo al terzo l’onere di accertare l’ampiezza dei poteri di rappresentanza dell’organismo: in difetto di tale presupposto il falsus procurator non impegna l’ente, ma è responsabile in proprio nei confronti del terzo.  

Pare, altresì, opportuno specificare come la succitata responsabilità personale e solidale, di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta, non sia tuttavia collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione stessa, bensì all’attività negoziale concretamente svolta per suo conto.

Sul punto la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19486 del 10.09.2009 ha stabilito che: “La responsabilità personale e solidale prevista dall’articolo 38 codice civile di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione, bensì all’attività negoziale concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa e i terzi. Tale responsabilità non concerne, neppure in parte, un debito proprio dell’associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario rispetto alla responsabilità dell’associazione stessa […], ne consegue, altresì, che chi invoca in giudizio tale responsabilità ha l’onere di provare la concreta attività svolta in nome e nell’interesse dell’associazione, non essendo sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita all’interno dell’ente”.

Ciò posto, si ritiene di particolare interesse il principio secondo cui la responsabilità personale e solidale di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione resta ferma in capo a chi ha realmente posto in essere l’attività negoziale fonte dell’obbligazione, senza che si verifichi, in alcun modo, una successione nel debito. È comprensibile come l’introduzione di tal principio si informi sempre al principio della tutela dell’affidamento dei terzi sul patrimonio personale di tali soggetti, di talché, la responsabilità del singolo, non grava su tutti coloro che, succedendosi nel tempo, si dovessero trovare ad assumere la rappresentanza dell’associazione (in tal senso Cass. Civ. Sez. lavoro, n. 11772/2003. 5Cass. Civ., Sez. III, 24.10.2008 n. 25748; Cass. Civ., Sez. III, 25-08-2014, n. 18188. 6 Cass. Civ., Sez. III, 29-12-2011, n. 29733; Cass. Civ. n. 718/2006. 7 Cass. Civ. n. 3579/1971).

Atteso che il concorso della responsabilità di colui il quale ha agito in nome conto dell’associazione con la responsabilità dell’ente è assimilato ad una fideiussione prevista ex lege ad esclusiva tutela dei terzi, si ritiene fondamentale evidenziare che per tali obbligazioni vale l’assoggettabilità del diritto del terzo creditore alla decadenza prevista dall’articolo 1957 del codice civile in materia di fideiussione, a mente del quale la responsabilità  dell’associato viene meno se il  creditore  non  abbia  proposto le sue istanze entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale.

Si applicano, inoltre, i principi propri della fideiussione solidale (articolo 1441, comma 1, cod civ.), in base ai quali per impedire l’estinzione della garanzia non si richiede al creditore la tempestiva escussione del debitore principale ma è sufficiente che il precitato, a sua scelta, eserciti tempestivamente (entro sei mesi dalla   scadenza   dell’obbligazione   principale) l’azione nei confronti del debitore principale o del fideiussore.

Alla luce di quanto argomentato, se per le applicazioni pratiche dei principi espressi non si può che rimandare alla specifica disciplina in materia fideiussoria, per quanto riguarda una migliore tutela delle posizioni degli associati che agiscono in nome e per conto di forme non riconosciute, si raccomanda una preventiva valutazione delle risorse effettivamente conferite nel patrimonio associativo e, per quanto attiene, invece, ad eventuali responsabilità extracontrattuali, valutare l’opportunità di stipulare apposite polizze assicurative che garantiscano adeguate forme di garanzia.

Riferimenti bibliografici e giurisprudenziali

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Basile, Gli enti «di fatto», in Tratt. di dir. priv., diretto da Rescigno, 2ª ed., I, 2, Torino, 1999, 535 e segg.

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Trattato di Diritto Civile – CEDAM – 2014 Ed. III

Commentario al Codice Civile Schlesinger - Busnelli. Le associazioni non riconosciute Artt. 36 - 42. A cura di Giulio Ponzanelli – GIUFFRÈ

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Persone giuridiche e associazioni non riconosciute. Giuseppe Tamburrino - UTET

L’associazione non riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze atipiche. Andrea Fusaro - CEDAM

Partecipazioni e attività. Contributo allo studio delle associazioni. Marcello D’Ambrosio - EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE

Diritto Civile. C. Massimo Bianca - GIUFFRÈ

L’impresa collettiva non societaria. Antonio Cetra - GIAPPICHELLI

Le persone giuridiche e le organizzazioni senza personalità giuridica. Francesca Loffredo - GIUFFRÈ

I Fondi sanitari: l’assistenza sanitaria integrativa, complementare e sostitutiva – Aspetti normativi, processuali e gestionali – Gianluca Limardi - 2018 FILODIRITTO.  

Cassazione Civile - Sentenza del 16.11.1976 n. 4252

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Cassazione Civile - Sentenza del 08.11.2013 n. 25210

Cassazione Civile - Sentenza del 14.02.2014 n. 3420

Cassazione Civile ordinanza n. 12473 del 17.06.2015

Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ord., 04/04/2017, n. 8752