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La reversione degli utili nel diritto italiano

Sintesi della relazione tenuta al convegno "La contraffazione non paga", Università di Parma, 21 ottobre 2011
Sommario

1) Il caso della « Ferrari clonate »

2) La novità legislativa del 2005-2006

3) I «germogli interpretativi» del passato e la portata innovativa dell’art. 125, comma 3, c.p.i.

4) Una formula econometrica dimostra la maggiore deterrenza del nuovo meccanismo rispetto a quello tradizionale

5) Le informazioni integrative per la « formula SARTORI »

6) Le opinioni della dottrina sulla reversione degli utili

7) La giurisprudenza

8) Brevi riflessioni sul caso delle « Ferrari clonate »

9) Una conclusione.

1) Il caso della « Ferrari clonate »

L’immagine è una FERRARI (foto dal sito ufficiale della casa di Maranello)

La seconda immagine è la foto di un “interno di una carrozzeria di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani”:

Superando l’imbarazzo che mi deriva dalle due foto sottostanti — una scomoda omonimia che, in fondo, mi ha divertito — descriverò la vicenda avvalendomi dei titoli dei giornali reperiti in Internet

A) Notizie di stampa del 17 ottobre 2011 (Repubblica, Corriere della Sera, Resto del Carlino, Gazzetta di Modana, Giornale di Sicilia e altri)

Assolto il costruttore di false Ferrari da F1

La Barbuto Cars di Trapani dopo sei anni di battaglie giudiziarie ha vinto, ma le sue macchine sono incredibilmente simili a quelle di Maranello

«Non clonava Ferrari», assolto carrozziere

Il tribunale assolve Maurizio Barbuto, che costruiva monoposto rosse, dall’accusa di contraffazione

False Ferrari F1, Barbutos Car sono auto artigianali: carrozziere assolto

Lui lo ha sempre detto: "Quale contraffazione, io non vendo le mie auto come Ferrari ma come Barbuto e non metto il logo della casa modenese".

E ora il famoso carrozziere trapanese è stato assolto per non aver commesso il fatto dopo sei anni di battaglie legali.

B) E’ opportuno narrare come è nata la vicenda giudiziaria penale

Dicono i giornali:

L’inchiesta nacque a Modena quando alcuni militari della Guardia di finanza notarono le foto di una presunta falsa Ferrari su un sito e cominciarono le indagini. L’auto fu trovata e sequestrata in uno show car romano e poi ne fu individuata e sequestrata un’altra nella provincia barese. Il costruttore, abilissimo, ha sempre detto di non aver falsificato le auto ma di costruire modelli da arredamento come un "bel quadro".

Maurizio Barbuto, 40 anni, abile carrozziere di Castellammare del Golfo (Tp) non aveva falsificato le irraggiungibili auto di Formula 1 col marchio del cavallino rampante, il modello F2003, ma semplicemente aveva costruito dei modelli molto simili che lui chiama "Barbuto cars" e che non avevano motore.

"Una terza Ferrari - disse - l’ho venduta in Germania, è verde e le hanno montato un simulatore di guida. Ho sempre lavorato onestamente e non mi sono mai arricchito. Per evitare di incappare nella violazione di normative sulla tutela dei marchi registrati, inviai anche alcune e-mail alla Ferrari, che tengo ancora conservate sul computer. Non mi hanno mai risposto".

Più sfortunato di Barbuto, invece, è un costruttore di Merì (Me) che alcuni giorni fa è stato condannato a un anno di reclusione per contraffazione e ricettazione: aveva comprato un kit in Germania e aveva costruito una copia della Ferrari F355. A quattro mesi, pena sospesa, è invece stato condannato l’acquirente dell’auto .

La seconda sezione penale del tribunale di Palermo gli ha dato ragione anche perché è stato provato che gli stemmi della Ferrari erano stati apposti sulle auto dai compratori successivamente all’acquisto.

C) La motivazione dell’assoluzione (secondo la stampa):

· costruiva monoposto rosse molto simili alle Ferrari da F1, ma non avevano motore e nemmeno la tecnologia più avanzata da corsa; e soprattutto non compariva da nessuna parte il logo del Cavallino;

· il tribunale di Palermo gli ha dato ragione «perché è stato provato che gli stemmi della Ferrari erano stati apposti sulle auto dai compratori successivamente all’acquisto della vettura».

Sulla vicenda ritornerò con brevi osservazioni in chiusura di questa relazione dopo avere trattato l’argomento che mi è stato assegnato: la reversione degli utili nel diritto italiano (art. 125, comma 3, c.p.i.).

2) La novità legislativa del 2005-2006

La regola della « reversione [o retroversione, o restituzione] degli utili » di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. in tema di risarcimento e liquidazione del danno rappresenta una rilevante novità del c.p.i..

La si riporta qui di seguito:

« In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento ».

Si tratta del testo risultante dalla riscrittura dell’intero articolo 125 operato dall’art. 17, d.lgs. 16 marzo 2006 n. 140, in ossequio alla direttiva n. 2004/48/CE. del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (direttiva enforcement). E’ in vigore dall’8 aprile 2006.

E’ il caso di ricordare che nella (prima) versione del 2005 l’art. 125 così disponeva al primo comma:

« 1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto.

2. omissis … »

Con l’operazione di riscrittura il riferimento incidentale agli « utili realizzati [dal contraffattore] in violazione del diritto » è stato scorporato dal comma 1 del testo originario della norma ed ha assunto una valenza autonoma nel terzo comma della stessa disposizione di legge.

La relazione di accompagnamento al cit. d.lgs. n. 140 del 2006 spiega così le ragioni dell’intervento:

« Così facendo, la nuova norma dell’art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della reversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte essendo peraltro riconducibili rispettivamente al profilo della reintegrazione del patrimonio leso ed a quello — ben diverso — dell’arricchimento senza causa »; con la precisazione che « il nuovo testo dell’art. 125 costituisce attuazione dell’art. 13 della Direttiva la quale dà rilevanza ad entrambi i profili ».

Si riporta il testo dell’art. 13 della direttiva 2004/48/CE del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale:

Articolo 13

Risarcimento del danno

1. Gli Stati membri assicurano che, su richiesta della parte lesa, le competenti autorità giudiziarie ordinino all’autore della violazione, implicato consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole in un’attività di violazione di risarcire al titolare del diritto danni adeguati al pregiudizio effettivo da questo subito a causa della violazione.

Allorché l’autorità giudiziaria fissa i danni:

a) tiene conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno subito dalla parte lesa, i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione, e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione;

b) oppure in alternativa alla lettera a) può fissare, in casi appropriati, una somma forfettaria in base ad elementi quali, per lo meno, l’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti qualora l’autore della violazione avesse richiesto l’autorizzazione per l’uso del diritto di proprietà intellettuale in questione.

2. Nei casi in cui l’autore della violazione è stato implicato in un’attività di violazione senza saperlo o senza avere motivi ragionevoli per saperlo, gli Stati membri possono prevedere la possibilità che l’autorità giudiziaria disponga il recupero dei profitti o il pagamento di danni che possono essere predeterminati

Risulta così superata l’obiezione dell’ « eccesso di delega » mossa a suo tempo al legislatore delegato che aveva redatto la « versione 2005 » del c.p.i.

La (nuova) norma del 2006 trova ora la sua legittimazione in una delega del Parlamento (art. 1 e 2, l. 18 aprile 2005 n. 62, legge comunitaria 2004, con particolare riferimento all’allegato B), a sua volta fondata su una regola precettiva e su un’opzione previste, rispettivamente, dall’art. 13, comma 1, lett. a) e dall’art. 13, comma 2, della direttiva citata (v. parte sottolineata della norma). Tutto ciò nel rispetto di quanto stabilito, come « obbligo generale », dall’art. 3 della stessa direttiva (Art. 3. « Obbligo generale. 1. Gli Stati membri definiscono le misure, le procedure e i mezzi di ricorso necessari ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale di cui alla presente direttiva. Tali misure, procedure e mezzi di ricorso sono leali ed equi, non inutilmente complessi o costosi e non comportano termini irragionevoli né ritardi ingiustificati. 2. Le misure, le procedure e i mezzi ricorso sono effettivi, proporzionati e dissuasivi e sono applicati in modo da evitare la creazione di ostacoli al commercio legittimo e da prevedere salvaguardie contro gli abusi »).

3) I «germogli interpretativi» del passato e la portata innovativa dell’art. 125, comma 3, c.p.i.

La mia opinione è che il comma 3 del novellato art. 125 C.P.I. abbia — senza alcun dubbio — una portata innovativa, perché introduce nel nostro ordinamento un meccanismo indennitario / restitutorio (latamente risarcitorio) prima non previsto da alcuna norma positiva, se non come rimedio residuale in assenza di altre tutele.

In verità una parte della giurisprudenza aveva già anticipato il legislatore.

Si menzionano tre decisioni che contengono i primi « germogli interpretativi» della nuova normativa.

La più rilevante (anche perché redatta da RORDORF, un magistrato di grande valore) è una sentenza di oltre dieci anni anteriore all’intervento del 2005-2006 del legislatore (App. Milano 15 febbraio 1994, Giur. ann. dir. ind. 1995, 3222, 307) nella cui motivazione si legge: « è corretto fa ricorso ad un criterio equitativo di liquidazione del danno … ed ipotizzare che la parte lesa abbia subito un danno, per mancato guadagno, pari all’utile netto che è stato conseguito dal contraffattore mediante la vendita delle macchine contraffate (senza tener conto, invece, dell’utile lordo, che può essere influenzato da fattori del tutto diversi) ».

La seconda è del Tribunale di Firenze (Trib. Firenze 9 gennaio 2001, Giur. it. 2002, 339): « La determinazione dell’ammontare del danno derivante da contraffazione brevettuale ex art. 86, l. brev. può essere effettuata in rapporto al guadagno conseguito dal contraffattore in seguito alla vendita di prodotti basati sul brevetto contraffatto ».

Nella materia affine del diritto d’autore si veda anche Trib. Milano 4 febbraio 1982 (Dir. aut. 1982, 274): « Laddove un’opera venga servilmente imitata e contraffatta in altra opera successiva sussiste la lesione del diritto d’autore che va riparata mediante il trasferimento nel patrimonio del titolare dei benefici economici che altri, anche indipendentemente da ogni dolo o colpa, ha ricevuto dall’utilizzazione economica dell’opera ».

E’ doveroso menzionare una risalente decisione della S.C. in tema di violazione dei diritti sulle opere dell’ingegno (ricordata da SCUFFI, FRANZOSI, FITTANTE, Il Codice della proprietà industriale, Padova, 2005, 577, nota 29). Si tratterebbe di Cass. 27 aprile 1955 n. 2698 (adopero il condizionale perché non sono riuscito a rintracciare né la motivazione né la massima ufficiale) in cui vi sarebbe la distinzione delle azioni, l’una destinata al ristoro dei danni, l’altra al trasferimento nel patrimonio del titolare del diritto dei benefici economici da altri ricevuti per la illegittima utilizzazione.

A mio parere, é irrilevante che in quelle sentenze del passato il criterio della reversione (o retroversione) degli utili sia stato adottato in sede di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c..

Si è trattato di un escamotage interpretativo (non esente da critiche) che si è risolto nella introduzione surrettizia di principi più consoni all’azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. (azione che, come è noto, ha carattere residuale, potendo essere esperita solo quando non vi sia altra azione «tipica») che all’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c.[1]

Oggi — vigente l’art. 125 c.p.i. nella sua nuova formulazione — il legislatore ha individuato:

a) un primo meccanismo, quello principale, che appare armonico con lo schema classico dell’art. 2043 c.c. (cfr. primo e secondo comma, che mirano sostanzialmente alla reintegrazione del patrimonio leso, per il profilo del danno emergente, lucro cessante e «danno morale»);

b) un secondo meccanismo, apparentemente disarmonico, che è invece da inquadrare nello schema, altrettanto classico ma ontologicamente diverso, dell’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. (cfr. terzo comma).

Si spiega così l’ alternatività del secondo meccanismo rispetto ai criteri desumibili dal primo.

In altre parole, la vittima di una violazione di privativa, per univoca volontà del legislatore nazionale e comunitario, deve poter scegliere in modo chiaro la strada giudiziale del recupero di legalità:

· quella risarcitoria (primo e secondo comma dell’art. 125 c.p.i.)

ovvero

· quella indennitaria (terzo comma della norma cit.).

Lo potrà fare liberamente — « in ogni caso » è l’esordio del dettato della norma — soprattutto quando il criterio del lucro cessante, principale componente dello schema risarcitorio, sia ritenuto insufficiente per un completo ristoro di quel vantaggio competitivo che costituisce, per dirla con le parole di FLORIDIA che dichiara di ispirarsi ad ASCARELLI, « il concetto unificante di tutto il diritto della concorrenza »

FLORIDIA[2]. afferma infatti che « la violazione del diritto di proprietà intellettuale e di proprietà industriale viene sempre di più considerata come abusiva utilizzazione di una risorsa i cui risultati spettano sempre e soltanto al titolare ». E precisa: « Il concetto unificante di tutto il diritto della concorrenza è divenuto quello del “vantaggio competitivo” del quale sia il titolare del diritto di proprietà intellettuale ed industriale sia il titolare del diritto alla lealtà ed alla libertà di concorrenza devono poter beneficiare con l’attribuzione di tutti i risultati che si sarebbero avuti se qual vantaggio non fosse stato ridotto per effetto dell’illecito posto in essere »

4) Una formula econometrica dimostra la maggiore deterrenza del nuovo meccanismo rispetto a quello tradizionale.

Nel richiamare una precedente relazione tenuta a Parma il 20 ottobre 2006 in occasione del convegno « La forza dell’innovazione », intendo ricordare una felice formula algebrica elaborata da SARTORI F.[3] in tema del disgorgement of profits quale sanzione per le condotte degli amministratori che agiscano in conflitto di interessi con la società amministrata (campo totalmente diverso dal diritto industriale), nonché il personale adattamento di quella formula che il sottoscritto effettuò per il settore del diritto industriale, con particolare riferimento alla sanzione per le contraffazioni di marchi, brevetti e altre privative.

La formula di SARTORI è fondata su quattro elementi:

a) fattore « SA », ovvero la « Sanzione Attesa »;

b) fattore « G », ovvero il « Guadagno » del contraffattore;

c) fattore « Q » ovvero il « Quantum » risarcito dal giudice;

d) fattore « p » ovvero il « grado di probabilità » che la sanzione sia effettivamente irrogata (cioè la « probabilità di sanzione »).

L’espressione algebrica è la seguente:

SA = p*Q

laddove SA = G

« p » = 1.

La formula esprime il concetto che la Sanzione Attesa deve essere pari al Quantum deciso dal giudice, che a sua volta deve essere pari al Guadagno del contraffattore, in presenza di un grado di probabilità della decisione pari a 1, cioè alla certezza o quasi della sanzione.

Se il grado di probabilità (fattore « p ») è inferiore al valore 1 (ad esempio, 0,9; 08; 0,7), verificandosi un prodotto p*Q inferiore a SA (e quindi a G), il grado di deterrenza tende a diminuire, fino a svanire del tutto quando il valore « p » sia vicino allo ZERO (sintomo dell’inefficienza più o meno totale del sistema giustizia).

5) Le informazioni integrative per la « formula SARTORI »

Per il quarto fattore della « formula SARTORI » — quello del « grado di probabilità » ovvero della « probabilità di sanzione », che dovrebbe tendere alla certezza della reazione sanzionatoria dello Stato in presenza dei fenomeni di accertata contraffazione — mi sono permesso di analizzarlo separatamente e di approfondirlo sul piano pratico, tenuto conto della grande rilevanza che nel nostro Paese ha assunto (e continua ad assumere) l’ « incognita giustizia » o, per dirla in termini più eleganti, il « fattore processuale ».

Confesso (e ritengo di averlo già scritto in altre occasioni) si essere stato influenzato da una desolata domanda che DI CATALDO aveva posto al termine della sua relazione ai giudici presenti ad un incontro di studio organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Catania (una domanda che successivamente aveva irritato un alto magistrato che ne era venuto a conoscenza):

« In materia di proprietà industriale sono frequenti le liti parallele, le liti, cioè, pendenti fra le stesse parti in Stati diversi per la stessa vicenda, o per vicende identiche o molto simili. E’ quindi relativamente agevole (più che in altre materie) confrontare l’atteggiamento dei (giudici di) diversi paesi. Il giudice italiano […] si distingue nettamente dai suoi colleghi di altri paesi per la sua maggiore propensione a non proteggere il titolare, a non punire la contraffazione, o a non punirla adeguatamente, o a punirla comunque il meno possibile, ad accordare risarcimenti puramente simbolici, a compensare per principio le spese. Si può sperare in un allineamento a sistemi più seri?»

Per quello specifico fattore ho proposto un meccanismo di calcolo mediante indici decrescenti: dal massimo di 1 al minimo di ZERO, passando gradualmente da 0,9; 0,8; 0.7…0,2; 0,1.

Quell’indice può essere misurato, sia pure approssimativamente, in base a parametri facilmente conoscibili:

Ø alcuni di tipo normativo-processuali, quali i mutevoli riti del procedimento (ordinario, sommario non-cautelare o cautelare); la distribuzione degli oneri probatori fra titolare e contraffattore; meccanismi di discovery processuale; limitazioni o libertà nell’uso della prova testimoniale o degli scritti di terzi; meccanismi di decadenze e preclusioni; poteri dei consulenti di parte e d’ufficio; poteri ex officio del giudice;

Ø altri di tipo ambientale, quali la specializzazione del giudice competente; l’efficienza di un ufficio giudiziario e dei suoi giudici; la collocazione geografica delle autorità giudiziarie competenti; la facilità o difficoltà della pratica del forum shopping.

Faccio delle esemplificazioni sul piano pratico.

Un sistema processuale fondato (come nel recente passato, sia pure in parte):

- su meccanismi di decadenze e preclusioni molto rigide;

- su limitazioni nell’uso della prova testimoniale (per esempio, il divieto di prova scritta o di affidavit, l’incapacità a testimoniare del rappresentante legale; la limitata rilevanza della testimonianza de relato o de auditu), nell’uso dell’interrogatorio della controparte (per esempio, la norma che le consentirebbe di sottrarsi ad ogni richiesta di informazione) e della prova documentale (per esempio, un documento non ritualmente prodotto, ma sicuramente esistente),

- sui poteri limitati del consulente tecnico d’ufficio (per esempio, la norma che non gli consente di acquisirne di nuovi rispetto a quelli già prodotti dalle parti; per esempio, le difficoltà nel disporre indagini demoscopiche),

- su oneri probatori severi (per esempio, l’art. 2043 c.c. combinato con art. 2697 c.c., secondo i quali il danneggiato deve provare praticamente tutto, dolo-colpa, evento dannoso, nesso causale; mentre il presunto responsabile praticamente nulla),

renderebbe più difficoltosa la vittoria di « chi ha ragione », costringendolo ad una vera e propria « corsa ad ostacoli » per superare i «tranelli» della procedura.

In tal caso il fattore “p” sarebbe di valore inferiore a 1 e potrebbe collocarsi ai livelli di 0,5; 0,4; 0,3; 0,2; 0,1.

Al contrario la vittoria di « chi ha ragione » sarebbe più probabile, quasi certa, in un sistema processuale fondato:

- su assenza (o diminuzione) di preclusioni e decadenze processuali;

- meccanismi di discovery di origine anglosassone, con obbligo della controparte di collaborazione (v. ora art. 121, commi 2, 2-bis, 4; art. 121-bis; art. 127, comma 1-bis, c.p.i.),

- poteri ex officio del giudice (art. 121, commi 3 e 4, c.p.i.),

- maggiore libertà di indagini per il consulente tecnico (art. 121, comma 5, c.p.i.),

- su presunzioni di colpa o inversioni degli oneri probatori (un caso esemplare, sia pure nella materia della concorrenza sleale, é l’art. 2600, ultimo comma, c.c.) o distribuzione equa degli oneri probatori arricchita, in casi particolari, da un regime di presunzioni (cfr. art. 121, comma 1, c.p.i., in relazione all’art. 67);

In tal caso il fattore “p” sarebbe di valore pressoché vicino ad 1, cioè al valore massimo.

Rilevante é il parametro dell’ « efficienza dei giudici », altra incognita che gli avvocati dimostrano di ben conoscere quando sfruttano, anche spregiudicatamente, la pratica del forum shopping.

Mi spiego meglio: Tribunali con giudici specializzati (o, quantomeno, preparati), diligenti e aggiornati, ben assistiti da personale di cancelleria, con un carico di lavoro accettabile, collaborativi con i colleghi più esperti e anche con i difensori, aperti alle nuove tematiche, renderebbero meno difficoltosa la vittoria di « chi ha ragione », rispetto a tribunali con giudici inesperti o, peggio, superficiali, accomodanti, pigri (absit iniuria verbis; giudici simili non esistono).

La rilevanza del parametro può essere compreso agevolmente con un esempio-limite: un giudice ancorché efficiente ma disonesto e corrotto perché a libro-paga del contraffattore, farebbe scattare il fattore « p » al valore ZERO, per cui la probabilità di vittoria di « chi ha ragione » sarebbe inesistente. Al contrario, un giudice onesto ed efficiente porterebbe il fattore « p » al valore 1, mentre un giudice onesto ma inesperto o inefficiente collocherebbe quel fattore al valore 0,5 (pari all’indice di probabilità del lancio di una monetina).

Le integrazioni alla « formula SARTORI » da me proposte[4], lungi da rappresentare un suggerimento operativo (impraticabile, me ne rendo conto), ha solo lo scopo di dimostrare, anche in termini matematici, l’alto grado di deterrenza della novità legislativa del terzo comma dell’art. 125 per tutte le ipotesi di violazione dei diritti di privativa nei casi in cui il « sistema giustizia » offra sufficienti garanzie di affidabilità e serietà.

Si tratta di un meccanismo di calcolo preventivo che, in riferimento alla reversione degli utili (ex art. 125 comma 3, c.p.i.), dimostra una deterrenza di gran lunga superiore a quella desumibile, a parità di condizioni, dai criteri tradizionali incentrati sulla mera « reintegrazione del patrimonio leso » (ex art. 125, commi 1 e 2).

6) Le opinioni della dottrina sulla reversione degli utili

Sono consapevole della serietà delle riserve espresse da autorevole dottrina sul (nuovo) meccanismo della reversione degli utili.

La più efficace mi pare la critica di SENA[5]. L’Autore, premesso che « la norma di cui all’art. 125 c.p.i., ed in generale, l’istituto della retroversione degli utili, non è di facile interpretazione », ne sottolinea un punto critico connesso all’ipotesi della violazione incolpevole, osservando che « tale sanzione è, o potrebbe essere, più grave della classica sanzione risarcitoria, che presuppone, come è pacifico, il dolo o la colpa », per cui non è facile comprendere « perché la contraffazione involontaria sia sanzionata in modo più severo di quella colposa ». Dopo una serie di obiezioni sulla coerenza della norma rispetto al tradizionale sistema risarcitorio, l’Autore conclude:

« Senza insistere troppo, queste riflessioni dimostrano come sia difficile accertare il profitto retrovertibile e come, anche sotto questo profilo, la determinazione a priori della “sanzione probabile” o della “sanzione attesa” sia spesso aleatoria ».

Mi consola il fatto che l’argomento della « retroversione » risulta oggi al centro di un proficuo dibattito dottrinale che si è opportunamente allargato ai settori « affini » del diritto d’autore e della normativa antitrust. Mi limito a menzionare i contributi di BRICEÑO MORAIA sul meccanismo della reversione degli utili nella normativa sul diritto d’autore, di FLORIDIA che esamina lo stesso istituto per il settore antitrust e di GUERNELLI che lo esamina in tutte le sue implicazioni pratiche[6].

Mi conforta un altro autorevole contributo dottrinale. VANZETTI e DI CATALDO[7], nel commentare la novità oggi presente nel c.p.i., fanno due premesse:

a) il nostro Paese rappresenta « una sorta di paradiso dei contraffattori, al punto da essere, nel mondo, al terzo posto (dopo Corea del Sud e Taiwan) nella classifica dei produttori di beni contraffati »;

b) « la liquidazione del danno da contraffazione si presenta sempre come una operazione difficile e, nella nostra esperienza giudiziaria, sono mancati finora seri criteri di quantificazione ».

A proposito del comma 3 dell’art. 125 c.p.i. gli Autori affermano: « Opportunamente, quindi, la regola che consente al titolare di chiedere “in ogni caso” l’attribuzione degli utili realizzati dal contraffattore punta ad evitare che il contraffattore possa trarre guadagno dalla contraffazione stessa »; paventano che la regola « operi in termini ingiustificatamente premiali per il titolare » e concludono affermando che la ratio di questa regola « sposta visibilmente la tutela dal piano risarcitorio al piano restitutorio » in quanto « la sanzione della restituzione degli utili non è, tecnicamente, una sanzione risarcitoria ».

7) La giurisprudenza

In giurisprudenza segnalo una decisione in termini.

Trib. Genova 23 febbraio 2011 (D.A.M.I. SpA e altri / Fi.Fa.), Infoutet, Platinum 2011, 4, di cui è nota solo la sintesi redazionale:

« L’art. 125 c.p.i. — ai sensi del quale il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento — é suscettibile di diverse interpretazioni.

Se da un lato, infatti, è ipotizzabile che il legislatore abbia inteso individuare una mera modalità di liquidazione del danno, dall’altro deve ritenersi che il diritto alla restituzione degli utili si collochi su un piano diverso rispetto al risarcimento del danno, sia perché non sarebbe ravvisabile un rapporto di correlazione necessaria tra vendite del contraffattore e mancate vendite del titolare, sia perché il riconoscimento del diritto sarebbe ispirato alla necessità di evitare che la violazione della privativa sia occasione di arricchimento per il suo autore, tutte le volte in cui il guadagno realizzato superi la perdita effettiva del titolare del diritto leso.

Quest’ultima interpretazione appare preferibile in quanto maggiormente aderente al testo della norma, la quale, dopo avere enumerato in modo esaustivo le voci di danno risarcibili ed i criteri di risarcimento, precisa che in ogni caso il danneggiato può chiedere la restituzione degli utili realizzati dal contraffattore.

E’, inoltre, significativo che la disposizione contrapponga il diritto agli utili realizzati al diritto al risarcimento del lucro cessante, prevedendone l’esercizio in via alternativa, quanto meno fino alla concorrenza dell’importo del risarcimento, in quanto tale contrapposizione induce una differenziazione ontologica tra i due diritti, che finirebbero, invece, per sovrapporsi se partecipassero della medesima natura risarcitoria.

La differenziazione tra risarcimento del danno e restituzione degli utili compare oltretutto anche nella rubrica dell’art. 125 in precedenza citato.

La condanna del responsabile alla restituzione degli utili non é, quindi, condizionata alla prova dell’esistenza di un danno risarcibile.

L’applicabilità della disposizione nel caso concreto richiede, tuttavia, la verifica di due presupposti. In primo luogo é necessario l’accertamento degli utili conseguiti. In secondo luogo, giacché la disposizione attribuisce al titolare del diritto leso gli utili realizzati attraverso una condotta vietata dalla normativa sulla proprietà industriale, è necessaria una relazione causale tra la violazione e il profitto conseguito; in caso di contraffazione di un marchio è, quindi, necessario che il profitto sia imputabile esclusivamente o prevalentemente all’uso dell’altrui segno distintivo ».

8) Brevi riflessioni sul caso delle « Ferrari clonate »

Vorrei concludere ritornando al caso delle « Ferrari clonate » menzionato all’inizio, spiegando le ragioni per cui l’ho segnalato.

La prima ragione risiede in alcune considerazioni di RONCAGLIA[8] sulla tutela penale — in generale — della contraffazione. Ne riporto le conclusioni:

« La recente riforma delle norme penali (…) ha molto il sapore di una occasione perduta. E’ davvero un peccato che non si sia riusciti ad approfittare di un’opportunità per mettere fine alle incertezze interpretative pregresse e dare finalmente un assetto organico e razionale all’intera materia [omissis].

Il vero rammarico è un altro. La repressione penale della violazione dei titoli di proprietà industriale, per essere al tempo stesso efficace ed equa, dovrebbe essere necessariamente coordinata con la tutela civilistica di questi diritti. Ma se si tiene conto degli enormi progressi che sono stati fatti in sede civile da quando, nel 2003, la materia è stata affidata alla competenza esclusiva delle Sezioni specializzate, pare davvero paradossale che, in sede penale, questioni molto delicate e che richiederebbero una notevole padronanza della materia continuino ad essere trattate da giudici e pubblici ministeri di ogni angolo del nostro Paese ».

La sua proposta de iure condendo, peraltro già avanzata durante i lavori preparatori del c.p.i. del 2005, è di « devolvere anche la contraffazione penale a giudici specializzati, istituendo presso un numero ristretto di tribunali le Sezioni specializzate o attribuendo ai magistrati delle già esistenti Sezioni specializzate anche la competenza penale, previo un opportuno ampliamento dell’organico esistente ».

La proposta di RONCAGLIA trova riscontro nelle confortanti considerazioni, per il settore civile, di GALLI[9]:

«Contrariamente a quanto si sente ripetere, già oggi l’Italia ha raggiunto un alto livello di efficienza negli strumenti giuridici per la lotta contro la contraffazione in sede civile. Specialmente a partire dal 2003, quando sono state istituite presso 12 Tribunali e Corti d’Appello altrettante Sezioni specializzate … con competenza esclusiva a conoscere delle azioni civili in materia di marchi, brevetti, diritto d’autore e fattispecie di concorrenza sleale legate a questi diritti e alla loro violazione, nel nostro Paese la reazione giudiziaria in sede civile contro la contraffazione è diventata estremamente efficace, con livelli di assoluta eccellenza per quanto riguarda il ricorso alle misure d’urgenza (inibitoria, sequestro, ordine di ritiro dal commercio), che vengono esaminate e concesse con estrema rapidità (normalmente pochi giorni … omissis).»

Ove il caso delle « Ferrari clonate » fosse approdato nelle aule civili — ma occorreva una iniziativa della vittima della asserita contraffazione che, a quanto consta, non vi è stata — un possibile diverso esito della lite (sussistendone in presupposti) avrebbe potuto comportare quanto meno l’inibitoria e il ritiro dal commercio degli esemplari contraffatti.

In tal caso, per gli aspetti risarcitori, il meccanismo della reversione degli utili avrebbe consentito alla vittima della (asserita) contraffazione di ottenere con estrema facilità un indennizzo/risarcimento pari agli utili abusivamente realizzati dal (presunto) contraffattore (che li ha sicuramente realizzati, stando alle sue dichiarazioni).

Con il meccanismo tradizionale del danno emergente o lucro cessante la Ferrari di Maranello avrebbe avuto serie difficoltà probatorie e scarse possibilità di ristoro per la subita lesione del suo diritto di esclusiva sulle privative di cui è o sarebbe titolare (per esempio, in base al marchio di forma).

9) Una conclusione.

Si ritiene comunemente che la sanzione penale costituisca nel nostro sistema giudiziario il massimo della deterrenza, al contrario di quella civile relegata nella palude delle grida manzoniane.

Quanto al settore del diritto industriale, la vitalità dimostrata in questi ultimi anni dalla giustizia civile «specializzata » unitamente al permanente stato comatoso della giustizia penale in tutti i suoi settori, ha capovolto il luogo comune.

Forse un’attenuazione dello spirito critico verso l’innovazione di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. ed uno sforzo di adesione dommatica alla novità del disgorgement of profits potrebbe trasformare il contenzioso industrialistico in un volano per far acquisire alla giustizia civile nazionale una maggiore serietà ed affidabilità nella « competizione » europea e internazionale; una affidabilità che, stando alle ultime analisi del World Bank (cfr. Doing business 2010, 2009, 2008), è peggiore del Gabon e della Guinea ed è — oggi — a livello di Gibuti e Timor Est, al 158° posto nella graduatoria dei 183 Paesi dell’economia globalizzata.



[1] Si riporta il testo delle norme citate, la cui successione dimostra la problematicità dell’azione di arricchimento senza causa nella materia degli atti illeciti di contraffazione brevettuale (o di marchio).

Art. 2041 c.c.: « Azione generale di arricchimento. 1. Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. 2. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda».

Art. art. 2042 c.c. : « Carattere sussidiario dell’azione. L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subìto »

Art. 2043 c.c.: « Risarcimento per fatto illecito. Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno »

[2] FLORIDIA, Il risarcimento dei danni nella proprietà intellettuale e nel diritto antitrust, Dir. ind. 2011. f. 4, 313.

Il riferimento di FLORIDIA alla « proposta metodologica formulata da Ascarelli fin dagli anni ’50 » che si rinviane all’inizio del saggio sembra trovare un significativo riscontro nella prefazione del volume di ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, laddove l’A. afferma, al termine della disamina dei contributi di GHIRON (del 1929) nonchè di FERRARA, AULETTA, GRECO, CASANOVA, CARNELUTTI, PIOLA CASELLI: «Riprendendo un orientamento internazionalmente diffuso e anche tra noi acutamente rivendicato, mi sono richiamato alla concorrenza come quadro al quale coordinare i vari istituti raccoglibili sotto la denominazione di diritto industriale ».

[3] SARTORI F., Il conflitto di interessi nel diritto dei contratti. Prospettive di analisi economica, Riv. dir. banc. 2003. Si tratta della rielaborazione di una relazione presentata al Convengo “Il conflitto di interessi come categoria ordinante”, tenuto il 4 luglio 2003 presso l’Università degli Studi di Torino. E’ reperibile all’indirizzo internet www.dirittobancario.it/rivista/filippo-sartori/.

[4] Per maggiori dettagli sulle integrazioni rinvio al mio articolo Il risarcimento dei danni da contraffazione di brevetto e la restituzione degli utili, Riv. dir. ind. 2007, f. 4-5, I, 172 (in particolare pp. 188-191 per la spiegazione del fattore « p »).

[5] SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali. Trattato di diritto civile commerciale diretto da Cicu, Messineo, Mengoni, Schlesinger, Milano, 2011, 391-394.

[6] Cfr. BRICEÑO MORAIA, Appunti sulla retroversione degli utili nell’art. 158 L.A. - Studi in memoria di Paola A.E. Frassi, Milano, 2010, 59; FLORIDIA, Il risarcimento dei danni nella proprietà intellettuale e nel diritto antitrust, Dir. ind. 2011. f. 4, 313; GUERNELLI, La retroversione degli utili fra rischio di overcompensation ed esigenza di colmare il lucro cessante, Dir. ind. 2011, f. 3, 213.

[7] VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale. Milano, 2009, 550-554.

[8] RONCAGLIA, La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale, Riv. dir. ind. 2010, f. 4-5, I, 195.

[9] GALLI, Codice della proprietà industriale: la riforma del 2010. Prima lettura sistematica delle novità introdotte dal d.lgs. 13 agosto 2010, n. 131, a cura di GALLI C., Milanofiori Assago, 2010, 149.

Sommario

1) Il caso della « Ferrari clonate »

2) La novità legislativa del 2005-2006

3) I «germogli interpretativi» del passato e la portata innovativa dell’art. 125, comma 3, c.p.i.

4) Una formula econometrica dimostra la maggiore deterrenza del nuovo meccanismo rispetto a quello tradizionale

5) Le informazioni integrative per la « formula SARTORI »

6) Le opinioni della dottrina sulla reversione degli utili

7) La giurisprudenza

8) Brevi riflessioni sul caso delle « Ferrari clonate »

9) Una conclusione.

1) Il caso della « Ferrari clonate »

L’immagine è una FERRARI (foto dal sito ufficiale della casa di Maranello)

La seconda immagine è la foto di un “interno di una carrozzeria di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani”:

Superando l’imbarazzo che mi deriva dalle due foto sottostanti — una scomoda omonimia che, in fondo, mi ha divertito — descriverò la vicenda avvalendomi dei titoli dei giornali reperiti in Internet

A) Notizie di stampa del 17 ottobre 2011 (Repubblica, Corriere della Sera, Resto del Carlino, Gazzetta di Modana, Giornale di Sicilia e altri)

Assolto il costruttore di false Ferrari da F1

La Barbuto Cars di Trapani dopo sei anni di battaglie giudiziarie ha vinto, ma le sue macchine sono incredibilmente simili a quelle di Maranello

«Non clonava Ferrari», assolto carrozziere

Il tribunale assolve Maurizio Barbuto, che costruiva monoposto rosse, dall’accusa di contraffazione

False Ferrari F1, Barbutos Car sono auto artigianali: carrozziere assolto

Lui lo ha sempre detto: "Quale contraffazione, io non vendo le mie auto come Ferrari ma come Barbuto e non metto il logo della casa modenese".

E ora il famoso carrozziere trapanese è stato assolto per non aver commesso il fatto dopo sei anni di battaglie legali.

B) E’ opportuno narrare come è nata la vicenda giudiziaria penale

Dicono i giornali:

L’inchiesta nacque a Modena quando alcuni militari della Guardia di finanza notarono le foto di una presunta falsa Ferrari su un sito e cominciarono le indagini. L’auto fu trovata e sequestrata in uno show car romano e poi ne fu individuata e sequestrata un’altra nella provincia barese. Il costruttore, abilissimo, ha sempre detto di non aver falsificato le auto ma di costruire modelli da arredamento come un "bel quadro".

Maurizio Barbuto, 40 anni, abile carrozziere di Castellammare del Golfo (Tp) non aveva falsificato le irraggiungibili auto di Formula 1 col marchio del cavallino rampante, il modello F2003, ma semplicemente aveva costruito dei modelli molto simili che lui chiama "Barbuto cars" e che non avevano motore.

"Una terza Ferrari - disse - l’ho venduta in Germania, è verde e le hanno montato un simulatore di guida. Ho sempre lavorato onestamente e non mi sono mai arricchito. Per evitare di incappare nella violazione di normative sulla tutela dei marchi registrati, inviai anche alcune e-mail alla Ferrari, che tengo ancora conservate sul computer. Non mi hanno mai risposto".

Più sfortunato di Barbuto, invece, è un costruttore di Merì (Me) che alcuni giorni fa è stato condannato a un anno di reclusione per contraffazione e ricettazione: aveva comprato un kit in Germania e aveva costruito una copia della Ferrari F355. A quattro mesi, pena sospesa, è invece stato condannato l’acquirente dell’auto .

La seconda sezione penale del tribunale di Palermo gli ha dato ragione anche perché è stato provato che gli stemmi della Ferrari erano stati apposti sulle auto dai compratori successivamente all’acquisto.

C) La motivazione dell’assoluzione (secondo la stampa):

· costruiva monoposto rosse molto simili alle Ferrari da F1, ma non avevano motore e nemmeno la tecnologia più avanzata da corsa; e soprattutto non compariva da nessuna parte il logo del Cavallino;

· il tribunale di Palermo gli ha dato ragione «perché è stato provato che gli stemmi della Ferrari erano stati apposti sulle auto dai compratori successivamente all’acquisto della vettura».

Sulla vicenda ritornerò con brevi osservazioni in chiusura di questa relazione dopo avere trattato l’argomento che mi è stato assegnato: la reversione degli utili nel diritto italiano (art. 125, comma 3, c.p.i.).

2) La novità legislativa del 2005-2006

La regola della « reversione [o retroversione, o restituzione] degli utili » di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. in tema di risarcimento e liquidazione del danno rappresenta una rilevante novità del c.p.i..

La si riporta qui di seguito:

« In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento ».

Si tratta del testo risultante dalla riscrittura dell’intero articolo 125 operato dall’art. 17, d.lgs. 16 marzo 2006 n. 140, in ossequio alla direttiva n. 2004/48/CE. del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (direttiva enforcement). E’ in vigore dall’8 aprile 2006.

E’ il caso di ricordare che nella (prima) versione del 2005 l’art. 125 così disponeva al primo comma:

« 1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto.

2. omissis … »

Con l’operazione di riscrittura il riferimento incidentale agli « utili realizzati [dal contraffattore] in violazione del diritto » è stato scorporato dal comma 1 del testo originario della norma ed ha assunto una valenza autonoma nel terzo comma della stessa disposizione di legge.

La relazione di accompagnamento al cit. d.lgs. n. 140 del 2006 spiega così le ragioni dell’intervento:

« Così facendo, la nuova norma dell’art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della reversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte essendo peraltro riconducibili rispettivamente al profilo della reintegrazione del patrimonio leso ed a quello — ben diverso — dell’arricchimento senza causa »; con la precisazione che « il nuovo testo dell’art. 125 costituisce attuazione dell’art. 13 della Direttiva la quale dà rilevanza ad entrambi i profili ».

Si riporta il testo dell’art. 13 della direttiva 2004/48/CE del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale:

Articolo 13

Risarcimento del danno

1. Gli Stati membri assicurano che, su richiesta della parte lesa, le competenti autorità giudiziarie ordinino all’autore della violazione, implicato consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole in un’attività di violazione di risarcire al titolare del diritto danni adeguati al pregiudizio effettivo da questo subito a causa della violazione.

Allorché l’autorità giudiziaria fissa i danni:

a) tiene conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno subito dalla parte lesa, i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione, e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione;

b) oppure in alternativa alla lettera a) può fissare, in casi appropriati, una somma forfettaria in base ad elementi quali, per lo meno, l’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti qualora l’autore della violazione avesse richiesto l’autorizzazione per l’uso del diritto di proprietà intellettuale in questione.

2. Nei casi in cui l’autore della violazione è stato implicato in un’attività di violazione senza saperlo o senza avere motivi ragionevoli per saperlo, gli Stati membri possono prevedere la possibilità che l’autorità giudiziaria disponga il recupero dei profitti o il pagamento di danni che possono essere predeterminati

Risulta così superata l’obiezione dell’ « eccesso di delega » mossa a suo tempo al legislatore delegato che aveva redatto la « versione 2005 » del c.p.i.

La (nuova) norma del 2006 trova ora la sua legittimazione in una delega del Parlamento (art. 1 e 2, l. 18 aprile 2005 n. 62, legge comunitaria 2004, con particolare riferimento all’allegato B), a sua volta fondata su una regola precettiva e su un’opzione previste, rispettivamente, dall’art. 13, comma 1, lett. a) e dall’art. 13, comma 2, della direttiva citata (v. parte sottolineata della norma). Tutto ciò nel rispetto di quanto stabilito, come « obbligo generale », dall’art. 3 della stessa direttiva (Art. 3. « Obbligo generale. 1. Gli Stati membri definiscono le misure, le procedure e i mezzi di ricorso necessari ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale di cui alla presente direttiva. Tali misure, procedure e mezzi di ricorso sono leali ed equi, non inutilmente complessi o costosi e non comportano termini irragionevoli né ritardi ingiustificati. 2. Le misure, le procedure e i mezzi ricorso sono effettivi, proporzionati e dissuasivi e sono applicati in modo da evitare la creazione di ostacoli al commercio legittimo e da prevedere salvaguardie contro gli abusi »).

3) I «germogli interpretativi» del passato e la portata innovativa dell’art. 125, comma 3, c.p.i.

La mia opinione è che il comma 3 del novellato art. 125 C.P.I. abbia — senza alcun dubbio — una portata innovativa, perché introduce nel nostro ordinamento un meccanismo indennitario / restitutorio (latamente risarcitorio) prima non previsto da alcuna norma positiva, se non come rimedio residuale in assenza di altre tutele.

In verità una parte della giurisprudenza aveva già anticipato il legislatore.

Si menzionano tre decisioni che contengono i primi « germogli interpretativi» della nuova normativa.

La più rilevante (anche perché redatta da RORDORF, un magistrato di grande valore) è una sentenza di oltre dieci anni anteriore all’intervento del 2005-2006 del legislatore (App. Milano 15 febbraio 1994, Giur. ann. dir. ind. 1995, 3222, 307) nella cui motivazione si legge: « è corretto fa ricorso ad un criterio equitativo di liquidazione del danno … ed ipotizzare che la parte lesa abbia subito un danno, per mancato guadagno, pari all’utile netto che è stato conseguito dal contraffattore mediante la vendita delle macchine contraffate (senza tener conto, invece, dell’utile lordo, che può essere influenzato da fattori del tutto diversi) ».

La seconda è del Tribunale di Firenze (Trib. Firenze 9 gennaio 2001, Giur. it. 2002, 339): « La determinazione dell’ammontare del danno derivante da contraffazione brevettuale ex art. 86, l. brev. può essere effettuata in rapporto al guadagno conseguito dal contraffattore in seguito alla vendita di prodotti basati sul brevetto contraffatto ».

Nella materia affine del diritto d’autore si veda anche Trib. Milano 4 febbraio 1982 (Dir. aut. 1982, 274): « Laddove un’opera venga servilmente imitata e contraffatta in altra opera successiva sussiste la lesione del diritto d’autore che va riparata mediante il trasferimento nel patrimonio del titolare dei benefici economici che altri, anche indipendentemente da ogni dolo o colpa, ha ricevuto dall’utilizzazione economica dell’opera ».

E’ doveroso menzionare una risalente decisione della S.C. in tema di violazione dei diritti sulle opere dell’ingegno (ricordata da SCUFFI, FRANZOSI, FITTANTE, Il Codice della proprietà industriale, Padova, 2005, 577, nota 29). Si tratterebbe di Cass. 27 aprile 1955 n. 2698 (adopero il condizionale perché non sono riuscito a rintracciare né la motivazione né la massima ufficiale) in cui vi sarebbe la distinzione delle azioni, l’una destinata al ristoro dei danni, l’altra al trasferimento nel patrimonio del titolare del diritto dei benefici economici da altri ricevuti per la illegittima utilizzazione.

A mio parere, é irrilevante che in quelle sentenze del passato il criterio della reversione (o retroversione) degli utili sia stato adottato in sede di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c..

Si è trattato di un escamotage interpretativo (non esente da critiche) che si è risolto nella introduzione surrettizia di principi più consoni all’azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. (azione che, come è noto, ha carattere residuale, potendo essere esperita solo quando non vi sia altra azione «tipica») che all’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c.[1]

Oggi — vigente l’art. 125 c.p.i. nella sua nuova formulazione — il legislatore ha individuato:

a) un primo meccanismo, quello principale, che appare armonico con lo schema classico dell’art. 2043 c.c. (cfr. primo e secondo comma, che mirano sostanzialmente alla reintegrazione del patrimonio leso, per il profilo del danno emergente, lucro cessante e «danno morale»);

b) un secondo meccanismo, apparentemente disarmonico, che è invece da inquadrare nello schema, altrettanto classico ma ontologicamente diverso, dell’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. (cfr. terzo comma).

Si spiega così l’ alternatività del secondo meccanismo rispetto ai criteri desumibili dal primo.

In altre parole, la vittima di una violazione di privativa, per univoca volontà del legislatore nazionale e comunitario, deve poter scegliere in modo chiaro la strada giudiziale del recupero di legalità:

· quella risarcitoria (primo e secondo comma dell’art. 125 c.p.i.)

ovvero

· quella indennitaria (terzo comma della norma cit.).

Lo potrà fare liberamente — « in ogni caso » è l’esordio del dettato della norma — soprattutto quando il criterio del lucro cessante, principale componente dello schema risarcitorio, sia ritenuto insufficiente per un completo ristoro di quel vantaggio competitivo che costituisce, per dirla con le parole di FLORIDIA che dichiara di ispirarsi ad ASCARELLI, « il concetto unificante di tutto il diritto della concorrenza »

FLORIDIA[2]. afferma infatti che « la violazione del diritto di proprietà intellettuale e di proprietà industriale viene sempre di più considerata come abusiva utilizzazione di una risorsa i cui risultati spettano sempre e soltanto al titolare ». E precisa: « Il concetto unificante di tutto il diritto della concorrenza è divenuto quello del “vantaggio competitivo” del quale sia il titolare del diritto di proprietà intellettuale ed industriale sia il titolare del diritto alla lealtà ed alla libertà di concorrenza devono poter beneficiare con l’attribuzione di tutti i risultati che si sarebbero avuti se qual vantaggio non fosse stato ridotto per effetto dell’illecito posto in essere »

4) Una formula econometrica dimostra la maggiore deterrenza del nuovo meccanismo rispetto a quello tradizionale.

Nel richiamare una precedente relazione tenuta a Parma il 20 ottobre 2006 in occasione del convegno « La forza dell’innovazione », intendo ricordare una felice formula algebrica elaborata da SARTORI F.[3] in tema del disgorgement of profits quale sanzione per le condotte degli amministratori che agiscano in conflitto di interessi con la società amministrata (campo totalmente diverso dal diritto industriale), nonché il personale adattamento di quella formula che il sottoscritto effettuò per il settore del diritto industriale, con particolare riferimento alla sanzione per le contraffazioni di marchi, brevetti e altre privative.

La formula di SARTORI è fondata su quattro elementi:

a) fattore « SA », ovvero la « Sanzione Attesa »;

b) fattore « G », ovvero il « Guadagno » del contraffattore;

c) fattore « Q » ovvero il « Quantum » risarcito dal giudice;

d) fattore « p » ovvero il « grado di probabilità » che la sanzione sia effettivamente irrogata (cioè la « probabilità di sanzione »).

L’espressione algebrica è la seguente:

SA = p*Q

laddove SA = G

« p » = 1.

La formula esprime il concetto che la Sanzione Attesa deve essere pari al Quantum deciso dal giudice, che a sua volta deve essere pari al Guadagno del contraffattore, in presenza di un grado di probabilità della decisione pari a 1, cioè alla certezza o quasi della sanzione.

Se il grado di probabilità (fattore « p ») è inferiore al valore 1 (ad esempio, 0,9; 08; 0,7), verificandosi un prodotto p*Q inferiore a SA (e quindi a G), il grado di deterrenza tende a diminuire, fino a svanire del tutto quando il valore « p » sia vicino allo ZERO (sintomo dell’inefficienza più o meno totale del sistema giustizia).

5) Le informazioni integrative per la « formula SARTORI »

Per il quarto fattore della « formula SARTORI » — quello del « grado di probabilità » ovvero della « probabilità di sanzione », che dovrebbe tendere alla certezza della reazione sanzionatoria dello Stato in presenza dei fenomeni di accertata contraffazione — mi sono permesso di analizzarlo separatamente e di approfondirlo sul piano pratico, tenuto conto della grande rilevanza che nel nostro Paese ha assunto (e continua ad assumere) l’ « incognita giustizia » o, per dirla in termini più eleganti, il « fattore processuale ».

Confesso (e ritengo di averlo già scritto in altre occasioni) si essere stato influenzato da una desolata domanda che DI CATALDO aveva posto al termine della sua relazione ai giudici presenti ad un incontro di studio organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Catania (una domanda che successivamente aveva irritato un alto magistrato che ne era venuto a conoscenza):

« In materia di proprietà industriale sono frequenti le liti parallele, le liti, cioè, pendenti fra le stesse parti in Stati diversi per la stessa vicenda, o per vicende identiche o molto simili. E’ quindi relativamente agevole (più che in altre materie) confrontare l’atteggiamento dei (giudici di) diversi paesi. Il giudice italiano […] si distingue nettamente dai suoi colleghi di altri paesi per la sua maggiore propensione a non proteggere il titolare, a non punire la contraffazione, o a non punirla adeguatamente, o a punirla comunque il meno possibile, ad accordare risarcimenti puramente simbolici, a compensare per principio le spese. Si può sperare in un allineamento a sistemi più seri?»

Per quello specifico fattore ho proposto un meccanismo di calcolo mediante indici decrescenti: dal massimo di 1 al minimo di ZERO, passando gradualmente da 0,9; 0,8; 0.7…0,2; 0,1.

Quell’indice può essere misurato, sia pure approssimativamente, in base a parametri facilmente conoscibili:

Ø alcuni di tipo normativo-processuali, quali i mutevoli riti del procedimento (ordinario, sommario non-cautelare o cautelare); la distribuzione degli oneri probatori fra titolare e contraffattore; meccanismi di discovery processuale; limitazioni o libertà nell’uso della prova testimoniale o degli scritti di terzi; meccanismi di decadenze e preclusioni; poteri dei consulenti di parte e d’ufficio; poteri ex officio del giudice;

Ø altri di tipo ambientale, quali la specializzazione del giudice competente; l’efficienza di un ufficio giudiziario e dei suoi giudici; la collocazione geografica delle autorità giudiziarie competenti; la facilità o difficoltà della pratica del forum shopping.

Faccio delle esemplificazioni sul piano pratico.

Un sistema processuale fondato (come nel recente passato, sia pure in parte):

- su meccanismi di decadenze e preclusioni molto rigide;

- su limitazioni nell’uso della prova testimoniale (per esempio, il divieto di prova scritta o di affidavit, l’incapacità a testimoniare del rappresentante legale; la limitata rilevanza della testimonianza de relato o de auditu), nell’uso dell’interrogatorio della controparte (per esempio, la norma che le consentirebbe di sottrarsi ad ogni richiesta di informazione) e della prova documentale (per esempio, un documento non ritualmente prodotto, ma sicuramente esistente),

- sui poteri limitati del consulente tecnico d’ufficio (per esempio, la norma che non gli consente di acquisirne di nuovi rispetto a quelli già prodotti dalle parti; per esempio, le difficoltà nel disporre indagini demoscopiche),

- su oneri probatori severi (per esempio, l’art. 2043 c.c. combinato con art. 2697 c.c., secondo i quali il danneggiato deve provare praticamente tutto, dolo-colpa, evento dannoso, nesso causale; mentre il presunto responsabile praticamente nulla),

renderebbe più difficoltosa la vittoria di « chi ha ragione », costringendolo ad una vera e propria « corsa ad ostacoli » per superare i «tranelli» della procedura.

In tal caso il fattore “p” sarebbe di valore inferiore a 1 e potrebbe collocarsi ai livelli di 0,5; 0,4; 0,3; 0,2; 0,1.

Al contrario la vittoria di « chi ha ragione » sarebbe più probabile, quasi certa, in un sistema processuale fondato:

- su assenza (o diminuzione) di preclusioni e decadenze processuali;

- meccanismi di discovery di origine anglosassone, con obbligo della controparte di collaborazione (v. ora art. 121, commi 2, 2-bis, 4; art. 121-bis; art. 127, comma 1-bis, c.p.i.),

- poteri ex officio del giudice (art. 121, commi 3 e 4, c.p.i.),

- maggiore libertà di indagini per il consulente tecnico (art. 121, comma 5, c.p.i.),

- su presunzioni di colpa o inversioni degli oneri probatori (un caso esemplare, sia pure nella materia della concorrenza sleale, é l’art. 2600, ultimo comma, c.c.) o distribuzione equa degli oneri probatori arricchita, in casi particolari, da un regime di presunzioni (cfr. art. 121, comma 1, c.p.i., in relazione all’art. 67);

In tal caso il fattore “p” sarebbe di valore pressoché vicino ad 1, cioè al valore massimo.

Rilevante é il parametro dell’ « efficienza dei giudici », altra incognita che gli avvocati dimostrano di ben conoscere quando sfruttano, anche spregiudicatamente, la pratica del forum shopping.

Mi spiego meglio: Tribunali con giudici specializzati (o, quantomeno, preparati), diligenti e aggiornati, ben assistiti da personale di cancelleria, con un carico di lavoro accettabile, collaborativi con i colleghi più esperti e anche con i difensori, aperti alle nuove tematiche, renderebbero meno difficoltosa la vittoria di « chi ha ragione », rispetto a tribunali con giudici inesperti o, peggio, superficiali, accomodanti, pigri (absit iniuria verbis; giudici simili non esistono).

La rilevanza del parametro può essere compreso agevolmente con un esempio-limite: un giudice ancorché efficiente ma disonesto e corrotto perché a libro-paga del contraffattore, farebbe scattare il fattore « p » al valore ZERO, per cui la probabilità di vittoria di « chi ha ragione » sarebbe inesistente. Al contrario, un giudice onesto ed efficiente porterebbe il fattore « p » al valore 1, mentre un giudice onesto ma inesperto o inefficiente collocherebbe quel fattore al valore 0,5 (pari all’indice di probabilità del lancio di una monetina).

Le integrazioni alla « formula SARTORI » da me proposte[4], lungi da rappresentare un suggerimento operativo (impraticabile, me ne rendo conto), ha solo lo scopo di dimostrare, anche in termini matematici, l’alto grado di deterrenza della novità legislativa del terzo comma dell’art. 125 per tutte le ipotesi di violazione dei diritti di privativa nei casi in cui il « sistema giustizia » offra sufficienti garanzie di affidabilità e serietà.

Si tratta di un meccanismo di calcolo preventivo che, in riferimento alla reversione degli utili (ex art. 125 comma 3, c.p.i.), dimostra una deterrenza di gran lunga superiore a quella desumibile, a parità di condizioni, dai criteri tradizionali incentrati sulla mera « reintegrazione del patrimonio leso » (ex art. 125, commi 1 e 2).

6) Le opinioni della dottrina sulla reversione degli utili

Sono consapevole della serietà delle riserve espresse da autorevole dottrina sul (nuovo) meccanismo della reversione degli utili.

La più efficace mi pare la critica di SENA[5]. L’Autore, premesso che « la norma di cui all’art. 125 c.p.i., ed in generale, l’istituto della retroversione degli utili, non è di facile interpretazione », ne sottolinea un punto critico connesso all’ipotesi della violazione incolpevole, osservando che « tale sanzione è, o potrebbe essere, più grave della classica sanzione risarcitoria, che presuppone, come è pacifico, il dolo o la colpa », per cui non è facile comprendere « perché la contraffazione involontaria sia sanzionata in modo più severo di quella colposa ». Dopo una serie di obiezioni sulla coerenza della norma rispetto al tradizionale sistema risarcitorio, l’Autore conclude:

« Senza insistere troppo, queste riflessioni dimostrano come sia difficile accertare il profitto retrovertibile e come, anche sotto questo profilo, la determinazione a priori della “sanzione probabile” o della “sanzione attesa” sia spesso aleatoria ».

Mi consola il fatto che l’argomento della « retroversione » risulta oggi al centro di un proficuo dibattito dottrinale che si è opportunamente allargato ai settori « affini » del diritto d’autore e della normativa antitrust. Mi limito a menzionare i contributi di BRICEÑO MORAIA sul meccanismo della reversione degli utili nella normativa sul diritto d’autore, di FLORIDIA che esamina lo stesso istituto per il settore antitrust e di GUERNELLI che lo esamina in tutte le sue implicazioni pratiche[6].

Mi conforta un altro autorevole contributo dottrinale. VANZETTI e DI CATALDO[7], nel commentare la novità oggi presente nel c.p.i., fanno due premesse:

a) il nostro Paese rappresenta « una sorta di paradiso dei contraffattori, al punto da essere, nel mondo, al terzo posto (dopo Corea del Sud e Taiwan) nella classifica dei produttori di beni contraffati »;

b) « la liquidazione del danno da contraffazione si presenta sempre come una operazione difficile e, nella nostra esperienza giudiziaria, sono mancati finora seri criteri di quantificazione ».

A proposito del comma 3 dell’art. 125 c.p.i. gli Autori affermano: « Opportunamente, quindi, la regola che consente al titolare di chiedere “in ogni caso” l’attribuzione degli utili realizzati dal contraffattore punta ad evitare che il contraffattore possa trarre guadagno dalla contraffazione stessa »; paventano che la regola « operi in termini ingiustificatamente premiali per il titolare » e concludono affermando che la ratio di questa regola « sposta visibilmente la tutela dal piano risarcitorio al piano restitutorio » in quanto « la sanzione della restituzione degli utili non è, tecnicamente, una sanzione risarcitoria ».

7) La giurisprudenza

In giurisprudenza segnalo una decisione in termini.

Trib. Genova 23 febbraio 2011 (D.A.M.I. SpA e altri / Fi.Fa.), Infoutet, Platinum 2011, 4, di cui è nota solo la sintesi redazionale:

« L’art. 125 c.p.i. — ai sensi del quale il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento — é suscettibile di diverse interpretazioni.

Se da un lato, infatti, è ipotizzabile che il legislatore abbia inteso individuare una mera modalità di liquidazione del danno, dall’altro deve ritenersi che il diritto alla restituzione degli utili si collochi su un piano diverso rispetto al risarcimento del danno, sia perché non sarebbe ravvisabile un rapporto di correlazione necessaria tra vendite del contraffattore e mancate vendite del titolare, sia perché il riconoscimento del diritto sarebbe ispirato alla necessità di evitare che la violazione della privativa sia occasione di arricchimento per il suo autore, tutte le volte in cui il guadagno realizzato superi la perdita effettiva del titolare del diritto leso.

Quest’ultima interpretazione appare preferibile in quanto maggiormente aderente al testo della norma, la quale, dopo avere enumerato in modo esaustivo le voci di danno risarcibili ed i criteri di risarcimento, precisa che in ogni caso il danneggiato può chiedere la restituzione degli utili realizzati dal contraffattore.

E’, inoltre, significativo che la disposizione contrapponga il diritto agli utili realizzati al diritto al risarcimento del lucro cessante, prevedendone l’esercizio in via alternativa, quanto meno fino alla concorrenza dell’importo del risarcimento, in quanto tale contrapposizione induce una differenziazione ontologica tra i due diritti, che finirebbero, invece, per sovrapporsi se partecipassero della medesima natura risarcitoria.

La differenziazione tra risarcimento del danno e restituzione degli utili compare oltretutto anche nella rubrica dell’art. 125 in precedenza citato.

La condanna del responsabile alla restituzione degli utili non é, quindi, condizionata alla prova dell’esistenza di un danno risarcibile.

L’applicabilità della disposizione nel caso concreto richiede, tuttavia, la verifica di due presupposti. In primo luogo é necessario l’accertamento degli utili conseguiti. In secondo luogo, giacché la disposizione attribuisce al titolare del diritto leso gli utili realizzati attraverso una condotta vietata dalla normativa sulla proprietà industriale, è necessaria una relazione causale tra la violazione e il profitto conseguito; in caso di contraffazione di un marchio è, quindi, necessario che il profitto sia imputabile esclusivamente o prevalentemente all’uso dell’altrui segno distintivo ».

8) Brevi riflessioni sul caso delle « Ferrari clonate »

Vorrei concludere ritornando al caso delle « Ferrari clonate » menzionato all’inizio, spiegando le ragioni per cui l’ho segnalato.

La prima ragione risiede in alcune considerazioni di RONCAGLIA[8] sulla tutela penale — in generale — della contraffazione. Ne riporto le conclusioni:

« La recente riforma delle norme penali (…) ha molto il sapore di una occasione perduta. E’ davvero un peccato che non si sia riusciti ad approfittare di un’opportunità per mettere fine alle incertezze interpretative pregresse e dare finalmente un assetto organico e razionale all’intera materia [omissis].

Il vero rammarico è un altro. La repressione penale della violazione dei titoli di proprietà industriale, per essere al tempo stesso efficace ed equa, dovrebbe essere necessariamente coordinata con la tutela civilistica di questi diritti. Ma se si tiene conto degli enormi progressi che sono stati fatti in sede civile da quando, nel 2003, la materia è stata affidata alla competenza esclusiva delle Sezioni specializzate, pare davvero paradossale che, in sede penale, questioni molto delicate e che richiederebbero una notevole padronanza della materia continuino ad essere trattate da giudici e pubblici ministeri di ogni angolo del nostro Paese ».

La sua proposta de iure condendo, peraltro già avanzata durante i lavori preparatori del c.p.i. del 2005, è di « devolvere anche la contraffazione penale a giudici specializzati, istituendo presso un numero ristretto di tribunali le Sezioni specializzate o attribuendo ai magistrati delle già esistenti Sezioni specializzate anche la competenza penale, previo un opportuno ampliamento dell’organico esistente ».

La proposta di RONCAGLIA trova riscontro nelle confortanti considerazioni, per il settore civile, di GALLI[9]:

«Contrariamente a quanto si sente ripetere, già oggi l’Italia ha raggiunto un alto livello di efficienza negli strumenti giuridici per la lotta contro la contraffazione in sede civile. Specialmente a partire dal 2003, quando sono state istituite presso 12 Tribunali e Corti d’Appello altrettante Sezioni specializzate … con competenza esclusiva a conoscere delle azioni civili in materia di marchi, brevetti, diritto d’autore e fattispecie di concorrenza sleale legate a questi diritti e alla loro violazione, nel nostro Paese la reazione giudiziaria in sede civile contro la contraffazione è diventata estremamente efficace, con livelli di assoluta eccellenza per quanto riguarda il ricorso alle misure d’urgenza (inibitoria, sequestro, ordine di ritiro dal commercio), che vengono esaminate e concesse con estrema rapidità (normalmente pochi giorni … omissis).»

Ove il caso delle « Ferrari clonate » fosse approdato nelle aule civili — ma occorreva una iniziativa della vittima della asserita contraffazione che, a quanto consta, non vi è stata — un possibile diverso esito della lite (sussistendone in presupposti) avrebbe potuto comportare quanto meno l’inibitoria e il ritiro dal commercio degli esemplari contraffatti.

In tal caso, per gli aspetti risarcitori, il meccanismo della reversione degli utili avrebbe consentito alla vittima della (asserita) contraffazione di ottenere con estrema facilità un indennizzo/risarcimento pari agli utili abusivamente realizzati dal (presunto) contraffattore (che li ha sicuramente realizzati, stando alle sue dichiarazioni).

Con il meccanismo tradizionale del danno emergente o lucro cessante la Ferrari di Maranello avrebbe avuto serie difficoltà probatorie e scarse possibilità di ristoro per la subita lesione del suo diritto di esclusiva sulle privative di cui è o sarebbe titolare (per esempio, in base al marchio di forma).

9) Una conclusione.

Si ritiene comunemente che la sanzione penale costituisca nel nostro sistema giudiziario il massimo della deterrenza, al contrario di quella civile relegata nella palude delle grida manzoniane.

Quanto al settore del diritto industriale, la vitalità dimostrata in questi ultimi anni dalla giustizia civile «specializzata » unitamente al permanente stato comatoso della giustizia penale in tutti i suoi settori, ha capovolto il luogo comune.

Forse un’attenuazione dello spirito critico verso l’innovazione di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. ed uno sforzo di adesione dommatica alla novità del disgorgement of profits potrebbe trasformare il contenzioso industrialistico in un volano per far acquisire alla giustizia civile nazionale una maggiore serietà ed affidabilità nella « competizione » europea e internazionale; una affidabilità che, stando alle ultime analisi del World Bank (cfr. Doing business 2010, 2009, 2008), è peggiore del Gabon e della Guinea ed è — oggi — a livello di Gibuti e Timor Est, al 158° posto nella graduatoria dei 183 Paesi dell’economia globalizzata.



[1] Si riporta il testo delle norme citate, la cui successione dimostra la problematicità dell’azione di arricchimento senza causa nella materia degli atti illeciti di contraffazione brevettuale (o di marchio).

Art. 2041 c.c.: « Azione generale di arricchimento. 1. Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. 2. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda».

Art. art. 2042 c.c. : « Carattere sussidiario dell’azione. L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subìto »

Art. 2043 c.c.: « Risarcimento per fatto illecito. Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno »

[2] FLORIDIA, Il risarcimento dei danni nella proprietà intellettuale e nel diritto antitrust, Dir. ind. 2011. f. 4, 313.

Il riferimento di FLORIDIA alla « proposta metodologica formulata da Ascarelli fin dagli anni ’50 » che si rinviane all’inizio del saggio sembra trovare un significativo riscontro nella prefazione del volume di ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, laddove l’A. afferma, al termine della disamina dei contributi di GHIRON (del 1929) nonchè di FERRARA, AULETTA, GRECO, CASANOVA, CARNELUTTI, PIOLA CASELLI: «Riprendendo un orientamento internazionalmente diffuso e anche tra noi acutamente rivendicato, mi sono richiamato alla concorrenza come quadro al quale coordinare i vari istituti raccoglibili sotto la denominazione di diritto industriale ».

[3] SARTORI F., Il conflitto di interessi nel diritto dei contratti. Prospettive di analisi economica, Riv. dir. banc. 2003. Si tratta della rielaborazione di una relazione presentata al Convengo “Il conflitto di interessi come categoria ordinante”, tenuto il 4 luglio 2003 presso l’Università degli Studi di Torino. E’ reperibile all’indirizzo internet www.dirittobancario.it/rivista/filippo-sartori/.

[4] Per maggiori dettagli sulle integrazioni rinvio al mio articolo Il risarcimento dei danni da contraffazione di brevetto e la restituzione degli utili, Riv. dir. ind. 2007, f. 4-5, I, 172 (in particolare pp. 188-191 per la spiegazione del fattore « p »).

[5] SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali. Trattato di diritto civile commerciale diretto da Cicu, Messineo, Mengoni, Schlesinger, Milano, 2011, 391-394.

[6] Cfr. BRICEÑO MORAIA, Appunti sulla retroversione degli utili nell’art. 158 L.A. - Studi in memoria di Paola A.E. Frassi, Milano, 2010, 59; FLORIDIA, Il risarcimento dei danni nella proprietà intellettuale e nel diritto antitrust, Dir. ind. 2011. f. 4, 313; GUERNELLI, La retroversione degli utili fra rischio di overcompensation ed esigenza di colmare il lucro cessante, Dir. ind. 2011, f. 3, 213.

[7] VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale. Milano, 2009, 550-554.

[8] RONCAGLIA, La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale, Riv. dir. ind. 2010, f. 4-5, I, 195.

[9] GALLI, Codice della proprietà industriale: la riforma del 2010. Prima lettura sistematica delle novità introdotte dal d.lgs. 13 agosto 2010, n. 131, a cura di GALLI C., Milanofiori Assago, 2010, 149.