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La rinuncia del curatore ai beni sopravvenuti nella procedura fallimentare

GENERALITA’

Per l’art. 42, comma 3, della legge fallimentare, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, il curatore ha la facoltà di rinunziare, previa autorizzazione del comitato dei creditori, all’acquisizione dei beni che pervengano al fallito durante la procedura quando i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presunto valore di realizzo dei medesimi. La novella recepisce una prassi già seguita da molti tribunali.

Trattasi di una eccezione al principio dell’universalità del concorso, che coinvolge di regola l’intero patrimonio del debitore.

La disposizione si riferisce ai beni, quali ad esempio le eredità, le donazioni, le vincite ai giochi, i diritti d’autore che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento, a condizione che “vengano dedotte le passività incontrate per l’acquisto e per la conservazione dei beni medesimi” (art. 42, comma 2). Il curatore non può quindi disgiungere le utilità che si ottengono dal bene dalle passività sostenute per l’acquisto e la conservazione dello stesso, che vanno quindi soddisfatte per intero, non potendo essere pagate in moneta fallimentare. Si pensi al caso di un immobile gravato da un canone di locazione o di una donazione su cui insiste un onere.

La norma di cui si tratta va coordinata con il penultimo comma dell’art. 104-ter, che risponde alla stessa logica, e riguarda invece cespiti già presenti all’apertura della procedura, acconsentendo al curatore di non acquisire all’attivo o a rinunciare a liquidare gli stessi, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente.

SCELTA DEL CURATORE

I beni sopravvenuti non sono acquisiti ipso iure alla massa attiva fallimentare, ma deve considerarsi necessaria un’espressa manifestazione di volontà del curatore, (cfr. V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 99) che primariamente procede ad una valutazione comparativa tra costi e ricavi, al fine di accertare la convenienza dell’acquisto. I costi sono rappresentati dalle spese per l’acquisizione e la conservazione dei beni e rientrano fra i debiti di massa, i ricavi vanno considerati secondo il presumibile valore di realizzo dei beni medesimi. (v. N. Rocco di Torrepadula, Il nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da A. Jorio, Bologna, 2006, 705).

La mancata acquisizione sarà quindi giustificata, se antieconomica, ed in quanto tale pregiudizievole. Quindi il gioco non vale la candela. La procedura è infatti preordinata al miglior soddisfacimento degli interessi dei creditori e l’amministrazione fallimentare mira ad appropriarsi dell’utile derivante dai beni, con lo scopo di incrementare la massa attiva.

Si è osservato ( C. Motti, Diritto fallimentare , Milano, 2008, 225) come in certi casi sia necessario valutare le prospettive di realizzo non soltanto in merito al singolo bene, ma anche in relazione alla eventuale vendita in blocco dell’azienda.

RINUNCIA ALL’ACQUISIZIONE. AUTORIZZAZIONE DEI CREDITORI

La decisione di abbandono comporta l’autorizzazione del comitato dei creditori, giustificata dal fatto che questi ultimi sono i diretti interessati, quali beneficiari della massa attiva ed esercitano un controllo sull’operato del curatore

L’autorizzazione abilita il curatore all’esercizio di un potere che a lui compete, così l’atto compiuto senza il predetto placet non andrebbe considerato nullo, ma affetto da semplice annullabilità, con ciò che ne consegue in termini di legittimazione, convalida e prescrizione (Cfr. Cass. 6 novembre 1987 n.8224, in Il Fallimento 1988, 194).

BENI SOPRAVVENUTI NON ACQUISITI

Nel caso in cui il curatore non decida tra acquisizione o abbandono dei beni, può crearsi una situazione di stallo pregiudizievole, analogamente a quanto avviene nel caso di mancanza di scelta fra scioglimento e subentro nei rapporti preesistenti, che abilità il terzo contraente a mettere in mora il curatore (art. 72, comma 2), affinché adotti una soluzione. Così, anche per i beni sopravvenuti , si può indurre il curatore ad una scelta tra acquisizione ed abbandono. Il mezzo potrebbe essere quello della richiesta di pagamento delle passività riguardanti il bene (L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006, 108). Si potrebbe pensare anche ad una istanza al giudice delegato, affinché fissi un termine entro il quale effettuare l’opzione.

I beni sopravvenuti non acquisiti rimangono nella disponibilità del fallito ed è quindi da ritenersi che su di essi, in deroga a quanto disposto dall’art. 51, si possano esercitare le azioni esecutive e cautelari (difficile però ipotizzare nella prassi che un bene, antieconomico per il fallimento, possa essere invece profittevole per il singolo creditore). Sugli stessi potranno soddisfarsi tanto i creditori successivi tanto quelli precedenti alla dichiarazione di fallimento (N. Rocco di Torrepadula, cit., 706).

GENERALITA’

Per l’art. 42, comma 3, della legge fallimentare, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, il curatore ha la facoltà di rinunziare, previa autorizzazione del comitato dei creditori, all’acquisizione dei beni che pervengano al fallito durante la procedura quando i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presunto valore di realizzo dei medesimi. La novella recepisce una prassi già seguita da molti tribunali.

Trattasi di una eccezione al principio dell’universalità del concorso, che coinvolge di regola l’intero patrimonio del debitore.

La disposizione si riferisce ai beni, quali ad esempio le eredità, le donazioni, le vincite ai giochi, i diritti d’autore che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento, a condizione che “vengano dedotte le passività incontrate per l’acquisto e per la conservazione dei beni medesimi” (art. 42, comma 2). Il curatore non può quindi disgiungere le utilità che si ottengono dal bene dalle passività sostenute per l’acquisto e la conservazione dello stesso, che vanno quindi soddisfatte per intero, non potendo essere pagate in moneta fallimentare. Si pensi al caso di un immobile gravato da un canone di locazione o di una donazione su cui insiste un onere.

La norma di cui si tratta va coordinata con il penultimo comma dell’art. 104-ter, che risponde alla stessa logica, e riguarda invece cespiti già presenti all’apertura della procedura, acconsentendo al curatore di non acquisire all’attivo o a rinunciare a liquidare gli stessi, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente.

SCELTA DEL CURATORE

I beni sopravvenuti non sono acquisiti ipso iure alla massa attiva fallimentare, ma deve considerarsi necessaria un’espressa manifestazione di volontà del curatore, (cfr. V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 99) che primariamente procede ad una valutazione comparativa tra costi e ricavi, al fine di accertare la convenienza dell’acquisto. I costi sono rappresentati dalle spese per l’acquisizione e la conservazione dei beni e rientrano fra i debiti di massa, i ricavi vanno considerati secondo il presumibile valore di realizzo dei beni medesimi. (v. N. Rocco di Torrepadula, Il nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da A. Jorio, Bologna, 2006, 705).

La mancata acquisizione sarà quindi giustificata, se antieconomica, ed in quanto tale pregiudizievole. Quindi il gioco non vale la candela. La procedura è infatti preordinata al miglior soddisfacimento degli interessi dei creditori e l’amministrazione fallimentare mira ad appropriarsi dell’utile derivante dai beni, con lo scopo di incrementare la massa attiva.

Si è osservato ( C. Motti, Diritto fallimentare , Milano, 2008, 225) come in certi casi sia necessario valutare le prospettive di realizzo non soltanto in merito al singolo bene, ma anche in relazione alla eventuale vendita in blocco dell’azienda.

RINUNCIA ALL’ACQUISIZIONE. AUTORIZZAZIONE DEI CREDITORI

La decisione di abbandono comporta l’autorizzazione del comitato dei creditori, giustificata dal fatto che questi ultimi sono i diretti interessati, quali beneficiari della massa attiva ed esercitano un controllo sull’operato del curatore

L’autorizzazione abilita il curatore all’esercizio di un potere che a lui compete, così l’atto compiuto senza il predetto placet non andrebbe considerato nullo, ma affetto da semplice annullabilità, con ciò che ne consegue in termini di legittimazione, convalida e prescrizione (Cfr. Cass. 6 novembre 1987 n.8224, in Il Fallimento 1988, 194).

BENI SOPRAVVENUTI NON ACQUISITI

Nel caso in cui il curatore non decida tra acquisizione o abbandono dei beni, può crearsi una situazione di stallo pregiudizievole, analogamente a quanto avviene nel caso di mancanza di scelta fra scioglimento e subentro nei rapporti preesistenti, che abilità il terzo contraente a mettere in mora il curatore (art. 72, comma 2), affinché adotti una soluzione. Così, anche per i beni sopravvenuti , si può indurre il curatore ad una scelta tra acquisizione ed abbandono. Il mezzo potrebbe essere quello della richiesta di pagamento delle passività riguardanti il bene (L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006, 108). Si potrebbe pensare anche ad una istanza al giudice delegato, affinché fissi un termine entro il quale effettuare l’opzione.

I beni sopravvenuti non acquisiti rimangono nella disponibilità del fallito ed è quindi da ritenersi che su di essi, in deroga a quanto disposto dall’art. 51, si possano esercitare le azioni esecutive e cautelari (difficile però ipotizzare nella prassi che un bene, antieconomico per il fallimento, possa essere invece profittevole per il singolo creditore). Sugli stessi potranno soddisfarsi tanto i creditori successivi tanto quelli precedenti alla dichiarazione di fallimento (N. Rocco di Torrepadula, cit., 706).