La truffa genitoriale

Ossia la truffa attraverso la genitorialità imposta: il reato al femminile

L’evento che mi ha spinto a scrivere questo articolo, è stato lo stesso di cui ho accennato in sede di esame del reato di ingiuria, ossia un processo nel quale era parte un giovane di bell’aspetto, Tizio, il quale, convinto da Caia ad addivenire ad un coito non protetto,

a fronte della dichiarazione della stessa di non poter avere figli,

aveva a breve ad essere messo a conoscenza dall’interessata, sia della di lei gravidanza sia dell’aggiunta volontà di non interromperla: Tizio, tale volontà, non si sentiva di condividerla, ma la di lui volontà non trovò tutela e nolente, divenne padre, rifiutò la convivenza con la donna ed adempì ai suoi doveri di padre,

quid juris?

Ciò di cui mi accingo a trattare è un malcostume delittuoso, che perdura indisturbato dai primi anni ’70, che non vi è ragione alcuna di tollerare, anche a fronte del fatto che il danno materiale prodotto dalla truffa di cui parlerò è ancor più,

ai giorni nostri di grave crisi economica,

di tale rilievo da far logicamente ritenere ovvia l’applicazione automatica dell’aggravante di cui all’ art. 61, numero sette, c.p. [7) l’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità;];

come si capirà proseguendo nella lettura, la diffusione di tale fattispecie delittuosa, é in stato di preoccupante crescita.

Procediamo però con gradualità per essere della maggiore chiarezza possibile, stiamo per entrare nel campo di operatività dell’art. 640 c.p. di cui è necessario evidenziare sin d’ora i punti che andranno ad interessare le nostre valutazioni ossia “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da Euro 51 a Euro 1032.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 309 a Euro 1549:

…2 bis) se il fatto è commesso in presenza della circostanza di cui all’articolo 61, numero 5)

Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante.”

L’ELEMENTO SOGGETTIVO, IL RAGGIRO E L’ERRORE

La fattispecie delittuosa in esame vede l’induzione in errore del truffato, con il conseguente suo inoltrarsi in un coito non protetto, durante il quale non viene espressamente richiesto di emettere il proprio seme, non all’interno dell’interessata.

Tale coito avviene a fronte di alcuni presupposti di natura soggettiva:

da parte del deceptus si concorderà nel vedere nella sua psiche

1) un’insussistente volontà di procreare in quella occasione;

2) la presunzione che non sussistesse nella partner una volontà procreativa;

3) la presunzione che la controparte ritenesse palese la propria non volontà di diventare padre a causa di quel coito;

4) la presunzione dell’utilizzo da parte della donna, della pillola anticoncezionale od altro metodo contraccettivo, oppure

5) una ragionevole prospettiva di “sicurezza” di quel rapporto, creata in lui da una falsa rappresentazione circa una presunta infertilità della partner, per cause naturali od indotte, perché da questa prospettata;

6) non vi è alcuna accettazione di rischio.

Spostando la nostra attenzione nell’osservazione della malintenzionata, il suo elemento soggettivo (premeditato) viene a risiedere nella volontà di rimanere incinta,

a causa di un coito non protetto,

con il partner prescelto,

che non invita a non terminare “naturalmente” il coito,

al quale scientemente cela il non utilizzo di precauzioni e, tutto questo,

agendo nella perfetta coscienza che il “donante” non nutre assolutamente la volontà di divenire padre in quel frangente.

Ella si disinteressa del tutto della volontà dell’uomo il quale viene da lei utilizzato né più né meno che come un mezzo per il raggiungimento di uno scopo e tale atteggiamento mentale è più che chiara prova della presenza di uno spirito calcolatore e pianificatore, accompagnato da grettezza, non rispetto, slealtà, mala fede e bramosia di miglioramento socio-economico.

Penso sia incontestabile il fatto che il suo atteggiamento nei confronti di colui che deve subire la sua condotta, sia chiaramente ostile,

infatti lei ha deciso che la vittima diventerà padre volente o nolente, con tutte le conseguenze enormemente dannose che si riverseranno su di questa.

Qualunque sia lo scopo che ella vuole raggiungere, la sua condotta si risolverà sempre in una violenza gravissima,

alla quale non si può porre rimedio (a meno che il legislatore, usualmente neghittoso, non vi provveda),

che costringe ad una genitorialità imposta o coattiva, un soggetto dolosamente fatto cadere in errore al quale, con omissione o menzogna, è stato “estorto” un rapporto sessuale non protetto.

Da quanto argomentato, giunge chiaro come il truffato in esame sia addivenuto al coito unicamente nella ritenuta “sicurezza” dello stesso

ed è altrettanto evidente, che se la donna avesse dichiarato nel frangente od in precedenza:

A) sia i propri fini procreativi,

B) che la propria avversione all’utilizzo di mezzi di contraccezione,

C) nonché l’altissimo valore da lei riconosciuto al concepimento,

il coito non sarebbe avvenuto ed il soggetto non avrebbe subito danno oppure,

questi avrebbe fatto utilizzo del preservativo col medesimo risultato finale.

Erroneamente il truffato ritiene che il coito sia “sicuro”, ossia non finalizzato alla procreazione e questo perché così gli è stato fatto credere dalla controparte

ed è per ciò che acconsente ad un coito che sicuro, non lo è per nulla:

la dolosa omissione della controparte (o silenzio maliziosamente serbato) oppure le false dichiarazioni o rassicurazioni di questa, hanno sostanziato il raggiro che, tratta in errore la vittima, è stata la causa unica e diretta di quel coito non protetto.

In conseguenza di quanto esposto, si conclude riassumendo che per mezzo dell’omissione di essenziali informazioni o con la comunicazione di false informazioni, il soggetto femminile, facendo volontariamente cadere in errore l’uomo, carpisce a questi l’adesione ad un coito non protetto, in totale disprezzo della sua volontà e del suo diritto costituzionale all’autodeterminazione, per uno scopo a lui avverso.

IL PROFITTO INGIUSTO

Per quanto riguarda tale punto, il suo esame può presentare delle difficoltà, ma di poco conto, infatti è oltremodo logico ritenere che la rea abbia svolto la propria condotta al fine di trarne una qualche forma di profitto (morale, materiale od entrambi), solo che il profitto in questa fattispecie fraudatoria, risulta meno immediato da vedersi che nelle truffe consuete.

Siamo abituati a vedere il truffatore ingannare il truffato affinché quest’ultimo sversi risorse finanziarie dalle proprie tasche alle sue, sicché nella maggior parte dei casi noteremo che ad un depauperamento della vittima, viene a corrispondere una locupletazione del malvivente, dovuta ad una disposizione patrimoniale da parte del soggetto tratto in inganno.

Nella fattispecie in esame, ad un’analisi troppo superficiale, tale collegamento tra profitto e danno sembrerebbe non appalesarsi e questo se si parte dal danno economico evidente, per risalire al profitto della rea, visto che l’obbligazione a vita di mantenere il figlio, che sorge in capo al truffato in forza di legge, potrebbe non essere ritenuto fonte di ingiusta locupletazione per la madre, dal momento che il denaro, che con la frode uscirà per sempre dalle tasche della vittima a favore del figlio indesiderato, non la arricchirà direttamente: ma le cose non stanno in questi termini.

Il profitto ricercato dalla colpevole è un po’ fuori dallo standard abituale;

il danno economico,

ossia l’obbligazione a vita che sorge, a causa della sua condotta, in capo al partner, che normalmente è solo una parte del profitto voluto,

e nel caso di non riuscita di quanto da lei pianificato,

sarà la sola parte di danno che questa riuscirà ad infliggere alla propria vittima.

Il progetto locupletativo generale, che viene a fallire nel caso in cui il partner non accetti il “consolidamento” del rapporto, non sempre è studiato per portare frutti in tempi brevissimi, ma prevede comunque un trasferimento finale di ricchezza dal truffato alla donna.

I risvolti economici che necessariamente saranno conseguenti alla condotta tenuta nella vicenda dall’agente, come ovvio, vengono dalla stessa preventivamente e profondamente valutati ed accettati, prima di agire come pianificato: quindi possiamo tranquillamente affermare che la donna ha voluto ottenere un profitto economico ossia quello di

modificare in forma migliorativa la propria condizione socio-economica (standard di vita),

traendo tale beneficio dal reddito del truffato,

dal quale intende attingere fino a quando ne avrà convenienza,

dal momento che, nelle sue previsioni, questi porrà riparo all’“inconveniente”.

Per approfondire meglio il tema, si ritiene giusto presentare una casistica basata su fattispecie di mia conoscenza, quindi senza presunzione di completezza, ma che ritengo possa essere largamente indicativa del fine per il quale una donna può voler operare una simile condotta a scapito del suo partner prescelto.

Una donna può voler costringere un uomo ad una paternità imposta per:

1) ottenere una locupletazione meramente materiale come, a titolo di esempio, la possibilità di restare nel paese e conseguirne la cittadinanza

oppure rimanere a vivere gratuitamente nella casa di convivenza assieme al minore, per almeno diciotto anni: in tali casi la disponibilità “riparatoria” (ad un danno non causato), da parte della vittima, è sostanzialmente poco rilevante per l’agente;

2) ottenere la possibilità di farsi “mantenere” a vita o, comunque, raggiungere una

solidità finanziaria parassitaria, in conseguenza del previsto matrimonio riparatore;

3) coartare il consolidamento, anche “formale” (stimulum ad nuptias), del rapporto preesistente (con conseguente miglioramento dello standard di vita);

4) “affrancarsi” dalla famiglia, modificando radicalmente il proprio stile di vita, al fine primario di non essere più sottoposta alle regole ed alla dipendenza economica imposta dalla convivenza con i genitori;

5) voler conseguire una vendetta o trarre una qualche altra forma di soddisfazione prevalentemente morale come, a fine di esempio,

nel primo caso ordendo questa forma di truffa-violenza contro l’(ex) amato che vuole porre fine al rapporto sentimentale, al fine di rovinare lui (socialmente e finanziariamente) e la sua famiglia (se sposato),

nel secondo caso, sempre in presenza di un rapporto in crisi, agendo al fine di trattenerlo a sé, oppure, come nel caso da cui prende il via questo articolo, per “entrare in possesso” (costrizione alla relazione) dell’oggetto del proprio desiderio, volendo con questi creare un “legame a vita” anche in caso di rifiuto;

6) voler soddisfare una “necessità biologica” (desiderio di maternità) od adempiere al dovere morale di ampliare la famiglia.

Come è evidente, mentre l’economicità del profitto ricercato è manifesta nei primi quattro esempi, negli ultimi due sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo, come si vedrà) di carattere strettamente morale.

Per quanto riguarda i casi che, al punto 5, ho definito quali forma di soddisfazione prevalentemente morale (forse sarebbe meglio definirli ad apparente prevalenza morale),

in essi l’aspetto economico potrebbe, forse, apparire secondario nella mente della rea, ma così non é, anzi, in quanto alla base della condotta della donna, se ci si riflette bene, vi è il progetto di famiglia (cioè di una nuova realtà socio-economica migliorativa),

che la rea si era costruita idealmente quale scopo di quel rapporto sentimentale, progetto che il partner, troncando il rapporto, infrange.

In tali casi si rileva nell’immediato

A) sia come la donna abbia la più completa consapevolezza, meglio certezza, che il partner non voleva assolutamente né costruire una famiglia con lei né da lei avere un figlio,

B) sia come la sua azione sia, in ogni caso, anche tesa ad impedire, con l’abbandono, il crollo del proprio progetto famigliare e ciò attraverso l’utilizzo, ai limiti dell’estorsivo, del figlio dell’inganno sicché, in tali casi,

il bambino diventa sfacciatamente il mezzo per impedire la cessazione del rapporto e contemporaneamente

di pressione nei confronti del partner, per costringerlo a farle ottenere quanto lei si era ripromessa, insomma per coartarlo affinché le abbia a procurare il profitto ricercato, nella sua interezza.

Sempre riguardo al medesimo punto, nel caso invece in cui la gravidanza dolosa si accerti essere avvenuta al principale scopo di vendetta, il profitto sussisterà comunque, sia valendo il discorso precedente, sia per le ragioni che si esporranno nel paragrafo seguente e la pena base dovrà, in tali casi, venire aumentata a causa dell’evidente sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, numero uno, c.p., per l’abiezione dei motivi a delinquere.

Per quanto riguarda i casi di cui al sesto punto, ossia il voler soddisfare il proprio desiderio di maternità o voler ampliare la famiglia ritenendo di adempiere ad un dovere morale, casi evidentemente “intramatrimoniali” (altrimenti ricadremmo nel punto tre), la loro consumazione non sarà punibile per gli effetti dell’ art. 649 c.p., che si ricorda stabilire che: “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato…”, ma tale condotta, a mio modesto avviso, se penalmente non retribuibile, dovrebbe essere ritenuta oltremodo sufficiente a configurare causa di addebito nella separazione giudiziale, a carico della moglie, per palese violazione dell’obbligo di assistenza e collaborazione nell’interesse della famiglia (art.143, comma secondo, c.c.).

IL FIGLIO

E’ impossibile non chiedersi quale ruolo questi venga a ricoprire all’interno della nostra vicenda, oltre a quello di vittima di un progetto criminale e così, collegandomi al ragionamento precedente, vado ad analizzare tale argomento per punti, al fine di offrire maggiore chiarezza al lettore.

1) Il figlio, senza falsi pudori,

per una donna che lo vuole ottenere, tenendo una simile condotta nei riguardi dell’uomo,

altro non è che il mezzo per ottenere il benessere, o meglio, lo strumento per coartare la volontà del truffato al fine di ottenere,

in tutta la sua completezza,

il profitto desiderato, che si consegue con l’accettazione da parte di questi, di creare una nuova famiglia, con i suoi positivi risvolti economici;

2) nel caso di fallimento del piano principale, a causa della indisponibilità da parte dell’uomo, al momento della comunicazione della gravidanza in essere, ad instaurare un rapporto di coppia (melius, di famiglia) tra le parti, al quale si vuole forzarlo,

il figlio viene comunque messo alla luce solo quale mezzo di pressione (lo è dall’inizio, in verità), per vincere la resistenza della vittima;

3) tale mezzo strumentale alla truffa, prima della copula truffaldina, non si trova nel bagaglio di mezzi preordinati dalla rea alla commissione del delitto, ma la colpevole lo fa suo solo per mezzo della dazione indotta di seme della vittima, fatta cadere in errore;

4) è il seme della vittima, che diventerà il figlio, ad offrire il mezzo di pressione alla criminale.

Non penso di sbagliare affermando che il seme e quindi il figlio, per la donna che ordisce una simile truffa, rappresenta ed incarna il valore che costei si aspetta di ottenere dalla riuscita della propria condotta, ossia il vantaggio economico sorgente dal consolidamento del rapporto tra le parti.

Per completezza, in taluni casi, potremmo dire che il valore che la donna attribuisce al figlio, reside nella quantificazione che lei opera, del vantaggio finanziario che conseguirà alla futura, premeditata, separazione consensuale;

5) costei, attraverso il raggiro, si locupleta del mezzo diretto per ottenere lo scopo prefissato o, comunque, del mezzo di pressione susseguente alla comunicazione alla vittima dello stato di gravidanza;

6) di tanto, la dazione fertile di seme e quindi il figlio indesiderato, è un profitto.

Se ciò può risultare difficile da digerire, possiamo fare un’ulteriore considerazione che vede la vicenda da una visuale un po’ diversa e che parte da questo presupposto: la donna vuole avere il figlio, ha deciso di averlo,

e ne è prova incontrovertibile il fatto che non interrompe la gravidanza,

e per averlo, ha premeditatamente ed efficacemente fatto cadere in errore un uomo, mediante raggiro (…quindi è profitto!).

Ora, mettendo in secondo piano il fine economico sotteso, pensiamo a come possa fare una donna per avere un figlio, senza utilizzare la condotta che abbiamo finora esaminato:

1) visto che, tra l’altro, ella è contraria alla contraccezione, allora possiamo dedurre come il primo modo legittimo per avere un figlio sia quello di contrarre preventivamente matrimonio trovando un marito che condivida il suo desiderio;

2) adottandolo, ma sappiamo che per un single questa è un’impresa oltremodo ardua;

3) cercare un donatore italiano privato (data l’ostatività della legge 40/2004), strada difficilmente percorribile per le controindicazioni economiche per il donatore, legate alla paternità;

4) ella può anche ricorrere ad una banca del seme estera che accetti le donne single come, a titolo d’esempio, in Spagna, Grecia, Creta e Belgio ma, venendo usualmente il donatore tutelato attraverso la garanzia dell’anonimato, da pretese economiche altrui (eccetto, ad esempio, in Olanda, Gran Bretagna e Finlandia ove per legge l’anonimato è proibito), ella potrebbe certamente ottenere un figlio, ma economicamente tutto a proprio carico.

A titolo di parentesi, si fa presente come però nei suddetti casi, non intervenendo il partner-vittima prescelto, qualsiasi soluzione non offrirebbe la stessa “soddisfazione” che viene ad offrire, invece, il figlio ottenuto dall’uomo da lei predeterminato.

Ecco la chiave di volta del ragionamento:

lei vuole avere il figlio che desidera ma, contemporaneamente, non vuole assolutamente addossarsi, in forma esclusiva, le conseguenze economiche collegate al suo venire in essere,

in parole povere lo vuole, così come vuole che lui venga mantenuto, al pari di lei stessa, del tutto od in grandissima parte, a cura del padre prescelto contro la propria volontà.

Da quanto esposto si possono trarre le seguenti conclusioni:

1) il figlio, in quanto voluto, ricercato ed ottenuto è, con chiarezza cristallina un profitto, una locupletazione della donna conseguente all’efficacia del raggiro;

2) con la nascita del figlio, prodotto-profitto della truffa, ottiene comunque il profitto ulteriore ed a carattere di evidente economicità, nella compartecipazione alle sue spese di mantenimento, a vita o per un periodo lunghissimo, da parte del padre raggirato, vantaggio che non avrebbe potuto ottenere altrimenti (se non sposando la vittima o trovando un “donatore” pronto ad addossarsi gli effetti dell’art. 455 c.c.).

Considerando che il voler ottenere un figlio da una data persona non è aspettativa tutelata neppure indirettamente alla legge (e questo sia da corollario anche per il paragrafo precedente), il profitto ottenuto è ingiusto.

LA CONSUMAZIONE, IL TENTATIVO, LA DESISTENZA ED IL RECESSO ATTIVO

Premesso che si ha consumazione del delitto quando raggiro, errore, profitto e danno vengono a coesistenza, la punibilità di questa fattispecie (cioè del delitto consumato), viene logicamente a coincidere, con il momento della nascita del “figlio coattivo”, in quanto prima, l’altrui danno economico ex art. 640 c.p., non si è verificato.

Circa la compatibilità del tentativo, questa sussiste palesemente, come del resto per qualsiasi truffa; sia d’esempio (tra i tantissimi presentabili) il caso di una pluralità di coiti non protetti, infruttuosi, che vengano scoperti essere stati preordinati ad apportare il danno grave alla vittima, esempio che ci toglie ogni eventuale dubbio circa la possibilità che il tentativo stesso possa avvenire nella forma della continuazione.

Per quanto riguarda la perseguibilità penale del tentativo, a mio avviso, essa viene ad insorgere quando inizia a configurarsi una situazione di potenziale pericolosità per la vittima predestinata ossia, nella maggior parte dei casi, quando la donna inizia a porre in atto le condizioni affinché vi possa essere la gravidanza.

Fermo restando che quello che segue è un ragionamento puramente indicativo, nella sostanza si potranno verificare due situazioni di base:

A) il coito avviene tra due elementi di una coppia, senza utilizzo di sistemi di contraccezione da parte dell’uomo in quanto:

1) è la donna che utilizza i mezzi di contraccezione;

2) la donna dichiara dall’inizio del rapporto sentimentale, falsamente, di utilizzare mezzi di contraccezione;

B) il coito avviene senza precauzioni in situazione di occasionalità.

Nella situazione A al punto 1,

vi sarà tentativo punibile quando la donna attuerà la sospensione dell’utilizzo di contraccettivi, senza comunicarlo al partner,

al punto 2,

quando inizierà a porre le condizioni affinché il coito sia non protetto, circostanza attagliantesi anche per il caso B.

Per quanto riguarda i casi di desistenza e di recesso attivo, val la pena accennarli sia a titolo di curiosità, sia perché il loro sostanziarsi, non è da ritenersi un’eventualità, poi così remota:

A) avremo desistenza ai sensi dell’art. 56, terzo comma, c.p. (“Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.”) per esempio, qualora la donna inviti l’uomo a fornirsi di un preservativo od interrompa il coito od ancora avvisi il partner della propria fertilità, con la conseguente non punibilità, de facto, della propria condotta precedente mentre

B) avremo recesso attivo ai sensi dell’art. 56, quarto comma, c.p. (“Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.”), sia nel caso in cui la donna proceda ad una volontaria interruzione di gravidanza, prima che il partner venga informato circa la sua condizione, sia in quello (di scuola) di sua scelta di eseguire il parto in anonimato, ex art. 30, comma primo, del D.p.r. 396/2000, chiaramente stante l’uomo non a conoscenza della gravidanza.

IL DANNO E LA SUA QUANTIFICAZIONE

Il danno economico, come già visto, insorge in capo al truffato con la nascita del figlio indesiderato, dal momento che, solo con il verificarsi di tale fatto giuridico, egli si trova ad essere colpito dall’obbligazione, che potrebbe anche essere a vita, di provvedere alle spese ordinarie e straordinarie necessarie al nato.

Giunge chiaro come la quantificazione del danno non sia quanto di più semplice da operare, in quanto non si può sapere se e quando, il nato otterrà l’indipendenza economica dai genitori, soprattutto poi nel contesto storico patologico in cui stiamo vivendo.

Comunque, per fornire un aiuto a chi volesse cimentarsi in tale operazione, possono essere utili sia i dati elaborati dal Centro Internazionale Studi Famiglia i quali, riassumendo al massimo, quantificano il costo di mantenimento di un figlio (a carico di entrambi i genitori), dalla nascita all’università, in 300.000 Euro (ricordiamo che sono calcoli svolti in periodo antecedente la crisi, per cui ci troviamo di fronte ad un danno che tenderà ad incrementarsi con il passare del tempo), sia quelli ben approfonditi, reperibili nel mensile Amica pubblicato nel recente mese di Aprile 2012.

Si capirà da ciò come sia evidente la sussistenza “naturale” dell’aggravante ex art. 61, numero sette, c.p..

NOTE FINALI

Come giungerà evidente, questo articolo non ha la pretesa di rispondere a tutte le domande che possono venire spontanee, in quanto è mia ferma intenzione trattarne in una monografia necessariamente ben più completa, per cui, a titolo d’esempio, in altra sede verranno approfonditi i temi del raggiro e dell’obbligo informativo in capo alla donna, dei beni giuridici violati, dei rapporti con il reato di estorsione, dei mezzi di prova, ecc. nonché tutti i temi esaminati in questa sede.

L’intenzione di questo scritto è principalmente quello di porre il problema circa l’esistenza di un reato misteriosamente coperto, da quarant’anni, da un velo di pudore, pudore che ha cagionato notevole danno al tessuto sociale del nostro paese, permettendo

sia la creazione di famiglie votate al disfacimento, dati i presupposti alla base della loro costituzione,

che di figli con gravi problemi legati all’assenza della figura paterna e ad un’educazione a carico quasi esclusivo di una mamma già di per sé povera di valori da trasmettere e ben poco di valido esempio per il figlio,

e di fornire al legale di parte civile ed al pubblico ministero, i mezzi necessari per argomentare circa la sussistenza di una tale fattispecie.

E’ necessario, infine, sottolineare:

1) che tale reato è, ex art. 640, secondo comma, c.p., a perseguibilità d’ufficio, sia per la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, numero sette, c.p., di cui ho parlato nella pagina di apertura, sia di quella di cui all’articolo 61, numero cinque, c.p., per aver profittato di circostanze di tempo e di luogo o di persona tali da ostacolare la privata difesa (ed eventualmente di cui all’art. 61, capoverso, c.p.), nonché

2) che potranno essere vittima del reato anche i genitori del truffato.

Certo che abbiate gradito la lettura, vi ringrazio per l’attenzione concessami.

L’evento che mi ha spinto a scrivere questo articolo, è stato lo stesso di cui ho accennato in sede di esame del reato di ingiuria, ossia un processo nel quale era parte un giovane di bell’aspetto, Tizio, il quale, convinto da Caia ad addivenire ad un coito non protetto,

a fronte della dichiarazione della stessa di non poter avere figli,

aveva a breve ad essere messo a conoscenza dall’interessata, sia della di lei gravidanza sia dell’aggiunta volontà di non interromperla: Tizio, tale volontà, non si sentiva di condividerla, ma la di lui volontà non trovò tutela e nolente, divenne padre, rifiutò la convivenza con la donna ed adempì ai suoi doveri di padre,

quid juris?

Ciò di cui mi accingo a trattare è un malcostume delittuoso, che perdura indisturbato dai primi anni ’70, che non vi è ragione alcuna di tollerare, anche a fronte del fatto che il danno materiale prodotto dalla truffa di cui parlerò è ancor più,

ai giorni nostri di grave crisi economica,

di tale rilievo da far logicamente ritenere ovvia l’applicazione automatica dell’aggravante di cui all’ art. 61, numero sette, c.p. [7) l’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità;];

come si capirà proseguendo nella lettura, la diffusione di tale fattispecie delittuosa, é in stato di preoccupante crescita.

Procediamo però con gradualità per essere della maggiore chiarezza possibile, stiamo per entrare nel campo di operatività dell’art. 640 c.p. di cui è necessario evidenziare sin d’ora i punti che andranno ad interessare le nostre valutazioni ossia “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da Euro 51 a Euro 1032.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 309 a Euro 1549:

…2 bis) se il fatto è commesso in presenza della circostanza di cui all’articolo 61, numero 5)

Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante.”

L’ELEMENTO SOGGETTIVO, IL RAGGIRO E L’ERRORE

La fattispecie delittuosa in esame vede l’induzione in errore del truffato, con il conseguente suo inoltrarsi in un coito non protetto, durante il quale non viene espressamente richiesto di emettere il proprio seme, non all’interno dell’interessata.

Tale coito avviene a fronte di alcuni presupposti di natura soggettiva:

da parte del deceptus si concorderà nel vedere nella sua psiche

1) un’insussistente volontà di procreare in quella occasione;

2) la presunzione che non sussistesse nella partner una volontà procreativa;

3) la presunzione che la controparte ritenesse palese la propria non volontà di diventare padre a causa di quel coito;

4) la presunzione dell’utilizzo da parte della donna, della pillola anticoncezionale od altro metodo contraccettivo, oppure

5) una ragionevole prospettiva di “sicurezza” di quel rapporto, creata in lui da una falsa rappresentazione circa una presunta infertilità della partner, per cause naturali od indotte, perché da questa prospettata;

6) non vi è alcuna accettazione di rischio.

Spostando la nostra attenzione nell’osservazione della malintenzionata, il suo elemento soggettivo (premeditato) viene a risiedere nella volontà di rimanere incinta,

a causa di un coito non protetto,

con il partner prescelto,

che non invita a non terminare “naturalmente” il coito,

al quale scientemente cela il non utilizzo di precauzioni e, tutto questo,

agendo nella perfetta coscienza che il “donante” non nutre assolutamente la volontà di divenire padre in quel frangente.

Ella si disinteressa del tutto della volontà dell’uomo il quale viene da lei utilizzato né più né meno che come un mezzo per il raggiungimento di uno scopo e tale atteggiamento mentale è più che chiara prova della presenza di uno spirito calcolatore e pianificatore, accompagnato da grettezza, non rispetto, slealtà, mala fede e bramosia di miglioramento socio-economico.

Penso sia incontestabile il fatto che il suo atteggiamento nei confronti di colui che deve subire la sua condotta, sia chiaramente ostile,

infatti lei ha deciso che la vittima diventerà padre volente o nolente, con tutte le conseguenze enormemente dannose che si riverseranno su di questa.

Qualunque sia lo scopo che ella vuole raggiungere, la sua condotta si risolverà sempre in una violenza gravissima,

alla quale non si può porre rimedio (a meno che il legislatore, usualmente neghittoso, non vi provveda),

che costringe ad una genitorialità imposta o coattiva, un soggetto dolosamente fatto cadere in errore al quale, con omissione o menzogna, è stato “estorto” un rapporto sessuale non protetto.

Da quanto argomentato, giunge chiaro come il truffato in esame sia addivenuto al coito unicamente nella ritenuta “sicurezza” dello stesso

ed è altrettanto evidente, che se la donna avesse dichiarato nel frangente od in precedenza:

A) sia i propri fini procreativi,

B) che la propria avversione all’utilizzo di mezzi di contraccezione,

C) nonché l’altissimo valore da lei riconosciuto al concepimento,

il coito non sarebbe avvenuto ed il soggetto non avrebbe subito danno oppure,

questi avrebbe fatto utilizzo del preservativo col medesimo risultato finale.

Erroneamente il truffato ritiene che il coito sia “sicuro”, ossia non finalizzato alla procreazione e questo perché così gli è stato fatto credere dalla controparte

ed è per ciò che acconsente ad un coito che sicuro, non lo è per nulla:

la dolosa omissione della controparte (o silenzio maliziosamente serbato) oppure le false dichiarazioni o rassicurazioni di questa, hanno sostanziato il raggiro che, tratta in errore la vittima, è stata la causa unica e diretta di quel coito non protetto.

In conseguenza di quanto esposto, si conclude riassumendo che per mezzo dell’omissione di essenziali informazioni o con la comunicazione di false informazioni, il soggetto femminile, facendo volontariamente cadere in errore l’uomo, carpisce a questi l’adesione ad un coito non protetto, in totale disprezzo della sua volontà e del suo diritto costituzionale all’autodeterminazione, per uno scopo a lui avverso.

IL PROFITTO INGIUSTO

Per quanto riguarda tale punto, il suo esame può presentare delle difficoltà, ma di poco conto, infatti è oltremodo logico ritenere che la rea abbia svolto la propria condotta al fine di trarne una qualche forma di profitto (morale, materiale od entrambi), solo che il profitto in questa fattispecie fraudatoria, risulta meno immediato da vedersi che nelle truffe consuete.

Siamo abituati a vedere il truffatore ingannare il truffato affinché quest’ultimo sversi risorse finanziarie dalle proprie tasche alle sue, sicché nella maggior parte dei casi noteremo che ad un depauperamento della vittima, viene a corrispondere una locupletazione del malvivente, dovuta ad una disposizione patrimoniale da parte del soggetto tratto in inganno.

Nella fattispecie in esame, ad un’analisi troppo superficiale, tale collegamento tra profitto e danno sembrerebbe non appalesarsi e questo se si parte dal danno economico evidente, per risalire al profitto della rea, visto che l’obbligazione a vita di mantenere il figlio, che sorge in capo al truffato in forza di legge, potrebbe non essere ritenuto fonte di ingiusta locupletazione per la madre, dal momento che il denaro, che con la frode uscirà per sempre dalle tasche della vittima a favore del figlio indesiderato, non la arricchirà direttamente: ma le cose non stanno in questi termini.

Il profitto ricercato dalla colpevole è un po’ fuori dallo standard abituale;

il danno economico,

ossia l’obbligazione a vita che sorge, a causa della sua condotta, in capo al partner, che normalmente è solo una parte del profitto voluto,

e nel caso di non riuscita di quanto da lei pianificato,

sarà la sola parte di danno che questa riuscirà ad infliggere alla propria vittima.

Il progetto locupletativo generale, che viene a fallire nel caso in cui il partner non accetti il “consolidamento” del rapporto, non sempre è studiato per portare frutti in tempi brevissimi, ma prevede comunque un trasferimento finale di ricchezza dal truffato alla donna.

I risvolti economici che necessariamente saranno conseguenti alla condotta tenuta nella vicenda dall’agente, come ovvio, vengono dalla stessa preventivamente e profondamente valutati ed accettati, prima di agire come pianificato: quindi possiamo tranquillamente affermare che la donna ha voluto ottenere un profitto economico ossia quello di

modificare in forma migliorativa la propria condizione socio-economica (standard di vita),

traendo tale beneficio dal reddito del truffato,

dal quale intende attingere fino a quando ne avrà convenienza,

dal momento che, nelle sue previsioni, questi porrà riparo all’“inconveniente”.

Per approfondire meglio il tema, si ritiene giusto presentare una casistica basata su fattispecie di mia conoscenza, quindi senza presunzione di completezza, ma che ritengo possa essere largamente indicativa del fine per il quale una donna può voler operare una simile condotta a scapito del suo partner prescelto.

Una donna può voler costringere un uomo ad una paternità imposta per:

1) ottenere una locupletazione meramente materiale come, a titolo di esempio, la possibilità di restare nel paese e conseguirne la cittadinanza

oppure rimanere a vivere gratuitamente nella casa di convivenza assieme al minore, per almeno diciotto anni: in tali casi la disponibilità “riparatoria” (ad un danno non causato), da parte della vittima, è sostanzialmente poco rilevante per l’agente;

2) ottenere la possibilità di farsi “mantenere” a vita o, comunque, raggiungere una

solidità finanziaria parassitaria, in conseguenza del previsto matrimonio riparatore;

3) coartare il consolidamento, anche “formale” (stimulum ad nuptias), del rapporto preesistente (con conseguente miglioramento dello standard di vita);

4) “affrancarsi” dalla famiglia, modificando radicalmente il proprio stile di vita, al fine primario di non essere più sottoposta alle regole ed alla dipendenza economica imposta dalla convivenza con i genitori;

5) voler conseguire una vendetta o trarre una qualche altra forma di soddisfazione prevalentemente morale come, a fine di esempio,

nel primo caso ordendo questa forma di truffa-violenza contro l’(ex) amato che vuole porre fine al rapporto sentimentale, al fine di rovinare lui (socialmente e finanziariamente) e la sua famiglia (se sposato),

nel secondo caso, sempre in presenza di un rapporto in crisi, agendo al fine di trattenerlo a sé, oppure, come nel caso da cui prende il via questo articolo, per “entrare in possesso” (costrizione alla relazione) dell’oggetto del proprio desiderio, volendo con questi creare un “legame a vita” anche in caso di rifiuto;

6) voler soddisfare una “necessità biologica” (desiderio di maternità) od adempiere al dovere morale di ampliare la famiglia.

Come è evidente, mentre l’economicità del profitto ricercato è manifesta nei primi quattro esempi, negli ultimi due sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo, come si vedrà) di carattere strettamente morale.

Per quanto riguarda i casi che, al punto 5, ho definito quali forma di soddisfazione prevalentemente morale (forse sarebbe meglio definirli ad apparente prevalenza morale),

in essi l’aspetto economico potrebbe, forse, apparire secondario nella mente della rea, ma così non é, anzi, in quanto alla base della condotta della donna, se ci si riflette bene, vi è il progetto di famiglia (cioè di una nuova realtà socio-economica migliorativa),

che la rea si era costruita idealmente quale scopo di quel rapporto sentimentale, progetto che il partner, troncando il rapporto, infrange.

In tali casi si rileva nell’immediato

A) sia come la donna abbia la più completa consapevolezza, meglio certezza, che il partner non voleva assolutamente né costruire una famiglia con lei né da lei avere un figlio,

B) sia come la sua azione sia, in ogni caso, anche tesa ad impedire, con l’abbandono, il crollo del proprio progetto famigliare e ciò attraverso l’utilizzo, ai limiti dell’estorsivo, del figlio dell’inganno sicché, in tali casi,

il bambino diventa sfacciatamente il mezzo per impedire la cessazione del rapporto e contemporaneamente

di pressione nei confronti del partner, per costringerlo a farle ottenere quanto lei si era ripromessa, insomma per coartarlo affinché le abbia a procurare il profitto ricercato, nella sua interezza.

Sempre riguardo al medesimo punto, nel caso invece in cui la gravidanza dolosa si accerti essere avvenuta al principale scopo di vendetta, il profitto sussisterà comunque, sia valendo il discorso precedente, sia per le ragioni che si esporranno nel paragrafo seguente e la pena base dovrà, in tali casi, venire aumentata a causa dell’evidente sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, numero uno, c.p., per l’abiezione dei motivi a delinquere.

Per quanto riguarda i casi di cui al sesto punto, ossia il voler soddisfare il proprio desiderio di maternità o voler ampliare la famiglia ritenendo di adempiere ad un dovere morale, casi evidentemente “intramatrimoniali” (altrimenti ricadremmo nel punto tre), la loro consumazione non sarà punibile per gli effetti dell’ art. 649 c.p., che si ricorda stabilire che: “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato…”, ma tale condotta, a mio modesto avviso, se penalmente non retribuibile, dovrebbe essere ritenuta oltremodo sufficiente a configurare causa di addebito nella separazione giudiziale, a carico della moglie, per palese violazione dell’obbligo di assistenza e collaborazione nell’interesse della famiglia (art.143, comma secondo, c.c.).

IL FIGLIO

E’ impossibile non chiedersi quale ruolo questi venga a ricoprire all’interno della nostra vicenda, oltre a quello di vittima di un progetto criminale e così, collegandomi al ragionamento precedente, vado ad analizzare tale argomento per punti, al fine di offrire maggiore chiarezza al lettore.

1) Il figlio, senza falsi pudori,

per una donna che lo vuole ottenere, tenendo una simile condotta nei riguardi dell’uomo,

altro non è che il mezzo per ottenere il benessere, o meglio, lo strumento per coartare la volontà del truffato al fine di ottenere,

in tutta la sua completezza,

il profitto desiderato, che si consegue con l’accettazione da parte di questi, di creare una nuova famiglia, con i suoi positivi risvolti economici;

2) nel caso di fallimento del piano principale, a causa della indisponibilità da parte dell’uomo, al momento della comunicazione della gravidanza in essere, ad instaurare un rapporto di coppia (melius, di famiglia) tra le parti, al quale si vuole forzarlo,

il figlio viene comunque messo alla luce solo quale mezzo di pressione (lo è dall’inizio, in verità), per vincere la resistenza della vittima;

3) tale mezzo strumentale alla truffa, prima della copula truffaldina, non si trova nel bagaglio di mezzi preordinati dalla rea alla commissione del delitto, ma la colpevole lo fa suo solo per mezzo della dazione indotta di seme della vittima, fatta cadere in errore;

4) è il seme della vittima, che diventerà il figlio, ad offrire il mezzo di pressione alla criminale.

Non penso di sbagliare affermando che il seme e quindi il figlio, per la donna che ordisce una simile truffa, rappresenta ed incarna il valore che costei si aspetta di ottenere dalla riuscita della propria condotta, ossia il vantaggio economico sorgente dal consolidamento del rapporto tra le parti.

Per completezza, in taluni casi, potremmo dire che il valore che la donna attribuisce al figlio, reside nella quantificazione che lei opera, del vantaggio finanziario che conseguirà alla futura, premeditata, separazione consensuale;

5) costei, attraverso il raggiro, si locupleta del mezzo diretto per ottenere lo scopo prefissato o, comunque, del mezzo di pressione susseguente alla comunicazione alla vittima dello stato di gravidanza;

6) di tanto, la dazione fertile di seme e quindi il figlio indesiderato, è un profitto.

Se ciò può risultare difficile da digerire, possiamo fare un’ulteriore considerazione che vede la vicenda da una visuale un po’ diversa e che parte da questo presupposto: la donna vuole avere il figlio, ha deciso di averlo,

e ne è prova incontrovertibile il fatto che non interrompe la gravidanza,

e per averlo, ha premeditatamente ed efficacemente fatto cadere in errore un uomo, mediante raggiro (…quindi è profitto!).

Ora, mettendo in secondo piano il fine economico sotteso, pensiamo a come possa fare una donna per avere un figlio, senza utilizzare la condotta che abbiamo finora esaminato:

1) visto che, tra l’altro, ella è contraria alla contraccezione, allora possiamo dedurre come il primo modo legittimo per avere un figlio sia quello di contrarre preventivamente matrimonio trovando un marito che condivida il suo desiderio;

2) adottandolo, ma sappiamo che per un single questa è un’impresa oltremodo ardua;

3) cercare un donatore italiano privato (data l’ostatività della legge 40/2004), strada difficilmente percorribile per le controindicazioni economiche per il donatore, legate alla paternità;

4) ella può anche ricorrere ad una banca del seme estera che accetti le donne single come, a titolo d’esempio, in Spagna, Grecia, Creta e Belgio ma, venendo usualmente il donatore tutelato attraverso la garanzia dell’anonimato, da pretese economiche altrui (eccetto, ad esempio, in Olanda, Gran Bretagna e Finlandia ove per legge l’anonimato è proibito), ella potrebbe certamente ottenere un figlio, ma economicamente tutto a proprio carico.

A titolo di parentesi, si fa presente come però nei suddetti casi, non intervenendo il partner-vittima prescelto, qualsiasi soluzione non offrirebbe la stessa “soddisfazione” che viene ad offrire, invece, il figlio ottenuto dall’uomo da lei predeterminato.

Ecco la chiave di volta del ragionamento:

lei vuole avere il figlio che desidera ma, contemporaneamente, non vuole assolutamente addossarsi, in forma esclusiva, le conseguenze economiche collegate al suo venire in essere,

in parole povere lo vuole, così come vuole che lui venga mantenuto, al pari di lei stessa, del tutto od in grandissima parte, a cura del padre prescelto contro la propria volontà.

Da quanto esposto si possono trarre le seguenti conclusioni:

1) il figlio, in quanto voluto, ricercato ed ottenuto è, con chiarezza cristallina un profitto, una locupletazione della donna conseguente all’efficacia del raggiro;

2) con la nascita del figlio, prodotto-profitto della truffa, ottiene comunque il profitto ulteriore ed a carattere di evidente economicità, nella compartecipazione alle sue spese di mantenimento, a vita o per un periodo lunghissimo, da parte del padre raggirato, vantaggio che non avrebbe potuto ottenere altrimenti (se non sposando la vittima o trovando un “donatore” pronto ad addossarsi gli effetti dell’art. 455 c.c.).

Considerando che il voler ottenere un figlio da una data persona non è aspettativa tutelata neppure indirettamente alla legge (e questo sia da corollario anche per il paragrafo precedente), il profitto ottenuto è ingiusto.

LA CONSUMAZIONE, IL TENTATIVO, LA DESISTENZA ED IL RECESSO ATTIVO

Premesso che si ha consumazione del delitto quando raggiro, errore, profitto e danno vengono a coesistenza, la punibilità di questa fattispecie (cioè del delitto consumato), viene logicamente a coincidere, con il momento della nascita del “figlio coattivo”, in quanto prima, l’altrui danno economico ex art. 640 c.p., non si è verificato.

Circa la compatibilità del tentativo, questa sussiste palesemente, come del resto per qualsiasi truffa; sia d’esempio (tra i tantissimi presentabili) il caso di una pluralità di coiti non protetti, infruttuosi, che vengano scoperti essere stati preordinati ad apportare il danno grave alla vittima, esempio che ci toglie ogni eventuale dubbio circa la possibilità che il tentativo stesso possa avvenire nella forma della continuazione.

Per quanto riguarda la perseguibilità penale del tentativo, a mio avviso, essa viene ad insorgere quando inizia a configurarsi una situazione di potenziale pericolosità per la vittima predestinata ossia, nella maggior parte dei casi, quando la donna inizia a porre in atto le condizioni affinché vi possa essere la gravidanza.

Fermo restando che quello che segue è un ragionamento puramente indicativo, nella sostanza si potranno verificare due situazioni di base:

A) il coito avviene tra due elementi di una coppia, senza utilizzo di sistemi di contraccezione da parte dell’uomo in quanto:

1) è la donna che utilizza i mezzi di contraccezione;

2) la donna dichiara dall’inizio del rapporto sentimentale, falsamente, di utilizzare mezzi di contraccezione;

B) il coito avviene senza precauzioni in situazione di occasionalità.

Nella situazione A al punto 1,

vi sarà tentativo punibile quando la donna attuerà la sospensione dell’utilizzo di contraccettivi, senza comunicarlo al partner,

al punto 2,

quando inizierà a porre le condizioni affinché il coito sia non protetto, circostanza attagliantesi anche per il caso B.

Per quanto riguarda i casi di desistenza e di recesso attivo, val la pena accennarli sia a titolo di curiosità, sia perché il loro sostanziarsi, non è da ritenersi un’eventualità, poi così remota:

A) avremo desistenza ai sensi dell’art. 56, terzo comma, c.p. (“Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.”) per esempio, qualora la donna inviti l’uomo a fornirsi di un preservativo od interrompa il coito od ancora avvisi il partner della propria fertilità, con la conseguente non punibilità, de facto, della propria condotta precedente mentre

B) avremo recesso attivo ai sensi dell’art. 56, quarto comma, c.p. (“Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.”), sia nel caso in cui la donna proceda ad una volontaria interruzione di gravidanza, prima che il partner venga informato circa la sua condizione, sia in quello (di scuola) di sua scelta di eseguire il parto in anonimato, ex art. 30, comma primo, del D.p.r. 396/2000, chiaramente stante l’uomo non a conoscenza della gravidanza.

IL DANNO E LA SUA QUANTIFICAZIONE

Il danno economico, come già visto, insorge in capo al truffato con la nascita del figlio indesiderato, dal momento che, solo con il verificarsi di tale fatto giuridico, egli si trova ad essere colpito dall’obbligazione, che potrebbe anche essere a vita, di provvedere alle spese ordinarie e straordinarie necessarie al nato.

Giunge chiaro come la quantificazione del danno non sia quanto di più semplice da operare, in quanto non si può sapere se e quando, il nato otterrà l’indipendenza economica dai genitori, soprattutto poi nel contesto storico patologico in cui stiamo vivendo.

Comunque, per fornire un aiuto a chi volesse cimentarsi in tale operazione, possono essere utili sia i dati elaborati dal Centro Internazionale Studi Famiglia i quali, riassumendo al massimo, quantificano il costo di mantenimento di un figlio (a carico di entrambi i genitori), dalla nascita all’università, in 300.000 Euro (ricordiamo che sono calcoli svolti in periodo antecedente la crisi, per cui ci troviamo di fronte ad un danno che tenderà ad incrementarsi con il passare del tempo), sia quelli ben approfonditi, reperibili nel mensile Amica pubblicato nel recente mese di Aprile 2012.

Si capirà da ciò come sia evidente la sussistenza “naturale” dell’aggravante ex art. 61, numero sette, c.p..

NOTE FINALI

Come giungerà evidente, questo articolo non ha la pretesa di rispondere a tutte le domande che possono venire spontanee, in quanto è mia ferma intenzione trattarne in una monografia necessariamente ben più completa, per cui, a titolo d’esempio, in altra sede verranno approfonditi i temi del raggiro e dell’obbligo informativo in capo alla donna, dei beni giuridici violati, dei rapporti con il reato di estorsione, dei mezzi di prova, ecc. nonché tutti i temi esaminati in questa sede.

L’intenzione di questo scritto è principalmente quello di porre il problema circa l’esistenza di un reato misteriosamente coperto, da quarant’anni, da un velo di pudore, pudore che ha cagionato notevole danno al tessuto sociale del nostro paese, permettendo

sia la creazione di famiglie votate al disfacimento, dati i presupposti alla base della loro costituzione,

che di figli con gravi problemi legati all’assenza della figura paterna e ad un’educazione a carico quasi esclusivo di una mamma già di per sé povera di valori da trasmettere e ben poco di valido esempio per il figlio,

e di fornire al legale di parte civile ed al pubblico ministero, i mezzi necessari per argomentare circa la sussistenza di una tale fattispecie.

E’ necessario, infine, sottolineare:

1) che tale reato è, ex art. 640, secondo comma, c.p., a perseguibilità d’ufficio, sia per la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, numero sette, c.p., di cui ho parlato nella pagina di apertura, sia di quella di cui all’articolo 61, numero cinque, c.p., per aver profittato di circostanze di tempo e di luogo o di persona tali da ostacolare la privata difesa (ed eventualmente di cui all’art. 61, capoverso, c.p.), nonché

2) che potranno essere vittima del reato anche i genitori del truffato.

Certo che abbiate gradito la lettura, vi ringrazio per l’attenzione concessami.